il manifesto 20.5.18
Il lessico ragionato di un paranoico
Dal
«tormentato caso umano del dottor Minor» alla genesi dell’Oxford
English Dictionary, una vicenda paradigmatica: «Il professore e il
pazzo» di Simon Winchester, da Adelphi
James Augustus Henry Murray con lo staff dell’Oxford English Dictionary
di Luca Crescenzi
Una
classica tesi, avanzata ormai quasi quarant’anni fa dal grande storico
Reinhart Koselleck, vede nell’Ottocento il secolo della velocizzazione,
della definitiva uscita dell’umanità occidentale dall’ordine di
un’esistenza regolata dalla natura e dai suoi immutabili ritmi: la
successione di giorno e notte, l’alternanza delle stagioni, i cicli
lunari. Le masse accolte in misura crescente da metropoli piccole e
grandi abbandonarono una volta per sempre le forme di vita ereditate dai
loro avi e condivise ancora fino a poco tempo prima da una civiltà
prevalentemente legata alla terra, la tecnica assecondò e favorì le
necessarie trasformazioni e le ultime esplorazioni della storia
restituirono del mondo un’immagine ristretta e affollata, chiusa e priva
di romanticismo, in cui le realtà del pericolo e dell’avventura avevano
perduto il loro antico fascino e, nel peggiore dei casi, potevano
proporsi solo nelcontesto, sempre più tecnologico anch’esso, della
guerra.
Sorprendenti cortocircuiti
Ernst Jünger, in quel
capolavoro d’ironia che è il romanzo Giochi africani, poté racchiudere
poco più tardi il significato del suo tentativo di fuga nella legione
straniera in una sola frase del suo disilluso legionario Benoit: «Vai
fino alla fine del mondo e alla fine scopri che ovunque c’è già stato
qualcuno». L’avvicinamento all’ignoto si ritira nella dimensione
dell’interiorità, là dove è ancora possibile incontrare il silenzio e la
solitudine. E per reazione a un’esistenza generalmente uniformata e
intensificata cominciano a svilupparsi forme di vita contemplativa e
isolata in cui si producono sorprendenti cortocircuiti che rendono
indistinguibili i confini fra luoghi un tempo lontanissimi. Accade, in
questo momento, che un carcere, un manicomio, un laboratorio scientifico
o una biblioteca possano diventare per poco o molto tempo una sola
identica cosa.
La storia che Simon Winchester racconta in Il professore e il pazzo (traduzione di Maria Cristina Leardini, Adelphi, pp. 262,
19,00) traendola da un paio di archivi e dai non moltissimi volumi che
hanno ricostruito le vicende della nascita dello Oxford English
Dictionary, orgoglio della lessicografia britannica otto-novecentesca,
assume, nei limiti di queste premesse, valore esemplare e finisce per
portare alla luce qualcosa che, probabilmente, non era nelle sue
intenzioni descrivere.
Il proposito dichiarato del libro di
Winchester risponde, in effetti, a un progetto ambizioso, ma non nuovo:
cogliere, attraverso il «tormentato caso umano del dottor Minor», la
possibilità di «osservare la storia più grande e ancor più affascinante
della lessicografia inglese», ovvero riscrivere questa storia a partire
da una vicenda strana e vagamente noir capace di renderla interessante
per un pubblico non necessariamente attratto dalle sue lunghe e tortuose
vie.
A questo scopo la storia di Minor, inseparabile da quella di
James Murray che fu l’anima del dizionario di Oxford, possiede la stessa
efficacia che già ebbe nel momento in cui uscì per la prima volta nel
1915.
Il gusto della digressione
La cronaca vuole infatti che uno
dei più efficienti e produttivi collaboratori del dizionario (che per
venire al mondo ebbe bisogno della collaborazione di moltissimi
ricercatori dilettanti o esperti reclutati in maniera alquanto empirica
dai professori di Oxford), uno dei più acuti corrispondenti e
interlocutori in materia di lessicografia del leggendario Murray fosse
un medico americano a riposo, costretto nel manicomio di St. Elizabeth a
Crowthorne, a causa di un omicidio commesso poco dopo il suo arrivo a
Londra e perseguitato da fantasie paranoiche che non lo avrebbero
lasciato per tutta la vita.
Il racconto di questa storia si eleva ben
al di sopra e al di là della narrazione aneddotica, grazie alla
capacità di Winchester di intrecciarla a una ricostruzione storica di
ampio respiro che unisce la rappresentazione della periferia londinese
di fine ottocento agli orrori della guerra di secessione americana, le
vicende della Philological Society di Londra alle storie personali di
vari umiliati e offesi della modernità o la vita di Samuel Johnson alla
descrizione delle regole di detenzione nei manicomi inglesi in un
disegno unitario, mai eccessivo e, bisogna ammettere, tenuto sotto
controllo da un’abilissima capacità costruttiva.
La densità è tale
che si vorrebbe concedere a Winchester il beneficio di divagazioni più
ampie. Ad esempio viene da considerare che la storia di Minor è efficace
e, per certi versi, perfino commovente o traumatica: ma che dire di
quella di Fitzedward Hall, altro grandissimo collaboratore americano del
dizionario – cui Winchester è costretto a dedicare poche righe – il
quale spedito dalla famiglia a Calcutta in cerca di un fratello poco
prima di entrare a Harvard, sopravvive al naufragio della sua nave,
inizia a studiare il sanscrito con tale successo da ricevere l’offerta
di una cattedra all’università di Benares, combatte con gli inglesi
durante la rivolta dei sepoy e approda infine a Londra, al King’s
College e all’incarico di bibliotecario presso il ministero dell’India,
solo per dimettersi da entrambe le incombenze poco dopo e ritirarsi per
motivi misteriosi in uno sperduto villaggio del Suffolk a seguito di una
furiosa lite con un altro sanscritista austriaco di nome Theodor
Goldstücker? Sembra che gli insospettabili lessicografi offrano a ogni
piè sospinto trame da romanzo.
Il rischio, in questa molteplicità di
oggetti della narrazione di Winchester, è casomai quello di perdere di
vista quello che dovrebbe essere il tema del libro, cioè la storia del
dizionario di Oxford. Ma il guadagno premia la perdita. Sono infatti gli
accostamenti inaspettati del racconto a suggerire la necessità di
riesplorare i luoghi dell’isolamento ottocenteschi.
Negli spazi della inazione
Come
dimostrano le tesi di Koselleck, ci siamo attardati a considerare
l’Ottocento solo alla luce dei suoi aspetti più macroscopici, dei suoi
miti (primo fra tutti quello del progresso) o di quei risultati che
ancora condizionano le nostre vite: la velocità, la tecnica, la
metropoli, la massa. E di conseguenza consideriamo ancora troppo poco
quanto, il XIX secolo, sia popolato da una schiera di personaggi
ritirati negli interstizi dell’inazione, dell’ascesi, dell’erudizione,
del puro e semplice pensiero.