il manifesto 20.5.18
Anche gli spiccioli generano filosofia
Saggi.
Per John Searle i soldi non hanno valore in sé ma grazie alla
intenzionalità del contesto sociale. Per Maurizio Ferraris, invece, la
moneta è «un documento accessibile anche agli analfabeti»
di Marco Mazzeo
Gli
spiccioli che abbiamo in tasca costituiscono un oggetto filosofico.
Sono protagonisti dei nostri comportamenti quotidiani, eppure denunciano
un enigma antropologico. Come è possibile che qualche grammo di metallo
sia in grado di condannarci alla fame o sottrarci all’inedia? Questo è
l’interrogativo del quale discutono due tra i più noti filosofi
contemporanei, John Searle e Maurizio Ferraris in Il denaro e i suoi
inganni (Einaudi, pp. 126, euro 12,00) mettendo in scena un dibattito
vivace in un volume agile e comprensibile anche ai non filosofi.
Searle
legge il denaro attraverso una delle sue nozioni cardine, la «funzione
di status». Il denaro non ha valore in sé, come vorrebbe il feticista
accumulatore, la sua importanza è dettata, piuttosto, dal contesto
sociale. Come il governo e il matrimonio, anche il denaro è una
istituzione dipendente dalla comunità che gli riconosce una funzione. A
prescindere dal tipo di moneta, ribadisce il filosofo americano, denaro e
funzione di status traggono la propria forza dalla mente umana: il
denaro trova uso perché questa è l’intenzione e la volontà di chi lo
impiega. Pur riconoscendo l’utilità del denaro, Searle si concentra
sugli inganni monetari legati alle sue forme più recenti. Oggi più che
mai, la funzione di status tenderebbe a divenire una finzione che porta
alla frode e al disastro economico.
Ferraris, invece, parte da un
diverso punto di vista. A un primo sguardo potrà anche sembrare che le
istituzioni umane si basino sulle intenzioni di chi vi partecipa. Ma se
si va più a fondo, si scopre che anche il denaro si basa su quel che
Ferraris chiama ormai da tempo «documentalità». Le istituzioni sarebbero
sorrette non dalle intenzioni di chi le fonda ma dalla memoria pratica
dei loro utenti. Il rito e la moneta sono forme mnemoniche, ma non
perché dotate di una struttura che porta al ricordo della loro funzione
originaria o dell’intenzione del proprio costruttore.
Anche il
denaro è un documento perché, come lo smartphone, spinge i suoi utenti a
comportarsi secondo strategie delle quali, spesso, non hanno cognizione
né consapevolezza. Per questo motivo, il denaro viene definito «un
documento accessibile anche agli analfabeti»: non un inganno, ma un
enigma prodotto dal potere mistico esercitato da ogni forma tecnologica e
documentale.
Al di là della differenza di posizioni, i due
filosofi procedono su una strada comune, riducendo il denaro al loro
impianto teorico generale. Di fronte alle sfide poste dalla moneta, né
Searle né Ferraris sembrano disposti a mettere in gioco qualche elemento
di fondo delle rispettive posizioni. Il primo riporta il denaro
all’intenzionalità, il secondo al documento: una scelta che vanta il
pregio della coerenza; ma al tempo stesso corre il rischio di una
controindicazione.
Il volume si limita a sfiorare quella che
appare la caratteristica specifica del denaro sia allo sguardo
superficiale di chi fa la spesa (l’intuizione del senso comune sulla
quale lavora Searle) sia per molta riflessione antropologica sulla
tecnica (la via percorsa da Ferraris). A differenza del matrimonio o
degli scacchi, infatti, il denaro sembra essere una istituzione legata
al mondo della produzione e, da un paio di secoli, alla sfera del lavoro
salariato.
Il filosofo statunitense si limita a parlare di
«denaro merce» in termini generici, come forma primitiva che sostituisce
il baratto; il filosofo italiano preferisce soffermarsi sul rapporto
tra denaro, autorità e innovazione tecnologica. I due autori concordano
sull’idea che vi sia un legame stretto tra denaro e dominio ma non
indagano, magari per confutarlo, il rapporto tra produzione della vita e
uso della moneta. Ecco, forse, un punto nevralgico sul quale tornare a
discutere: non sarà, invece, proprio una simile rinuncia a farci
percepire quel tintinnio nelle tasche come il monito inscalfibile del
profeta?