il manifesto 20.5.18
Ragioni psichiche contro la sragione del consumismo
Saggi.
Per superare le dinamiche feticistiche, oggi più pervasive che ai tempi
del Capitale, Romano Màdera indica una strada che deve partire dalla
rivoluzione nel rapporto con sé e con gli altri: «Sconfitta e utopia»,
Mimesis
di Stefano Petrucciani
A due secoli
dalla nascita di Marx uno dei temi del suo pensiero che suscitano ancora
interesse e discussione è quello del «feticismo delle merci»: parte da
qui il volume di Romano Màdera, Sconfitta e utopia Identità e feticismo
attraverso Marx e Nietzsche (Mimesis, pp. 238, euro 20,00) che
ripropone, arricchito con diversi nuovi materiali, il testo pubblicato
nel 1977 col titolo Identità e feticismo, importante nella discussione
di quell’epoca.
Tornando oggi su questi temi, Màdera traccia un
bilancio delle geniali intuizioni marxiane che si lascia compendiare in
questa secca frase: «una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi, una
terapia inconsistente».
Ora, la diagnosi marxiana centrata sul
tema del feticismo appare a Màdera come la parte migliore, e non caduca,
della eredità del pensatore di Treviri. Anzi, si direbbe che sia
proprio il Marx del feticismo quello più compiutamente inverato
nell’epoca del capitalismo globale: una «forma di civiltà» – secondo
Màdera – dove tutto ruota intorno all’accumulazione economica, «nel
senso che a immagine di questa si strutturano i rapporti di potere, le
relazioni tra le persone, la psicologia collettiva, i valori, gli
ideali, i simboli (compresa la nuova religione secolarizzata del denaro
da moltiplicare, autentica divinità del nostro tempo)».
Come
osserva David Harvey in un bel volume appena pubblicato da Feltrinelli,
Marx e la follia del capitale (Feltrinelli, pp. 240,euro 22,00) il
punto decisivo messo a fuoco dal filosofo di Treviri è la
visualizzazione del capitale come valore in movimento; un processo che
tocca il suo apice nel capitale produttivo di interesse, dove il
feticismo raggiunge il suo culmine in quanto al capitale sembra
appartenere il misterioso potere di autovalorizzarsi.
Verso un’altra strategia
Certamente,
il fine di tutta la ricerca di Marx era proprio quello di dissipare
questa apparenza feticistica, mostrando come la fonte occulta della
valorizzazione del capitale non potesse essere altro se non lo
sfruttamento del lavoro. Ma ancora oggi, a un secolo e mezzo dalla
pubblicazione del Capitale, il feticismo, inveratosi nel consumismo e
nella società dello spettacolo, costituisce una sorta di orizzonte
onnicomprensivo del nostro mondo vitale, più pervasivo di quanto Marx
non avesse potuto prevedere.
«Entro le coordinate del capitalismo
globale – scrive infatti Màdera – la tendenza a consumare si accoppia
con quella a spettacolarizzare ogni aspetto della vita (come aveva
cominciato a teorizzarla Debord), sia perché attraverso lo spettacolo la
tendenza al consumo colonizza un’altra rilevante parte della vita,
mettendo al lavoro il tempo di non-lavoro, sia perché lo spettacolo (…)
tende a sganciare il valore di scambio da un uso qualsiasi, ampliando la
scala dello scambio a ogni virtualità immaginabile e, parallelamente,
vendendo il necessario non per le sua qualità intrinseche, ma per l’aura
che la sua presentazione riesce a evocare». Insomma, da un lato si
afferma senza residui il primato del valore di scambio sul valore d’uso,
dall’altro la sostanza di questo valore di scambio svapora anch’essa
lasciando sussistere solo la sua natura immaginaria e spettacolare.
La lezione di Jung
Ma
se Marx si è inverato così bene, dove sta il problema? Paradossalmente,
sta nel fatto che aveva troppo ragione: se le dinamiche feticistiche
sono ancora più pervasive di quanto a Marx non fossero apparse, allora
la conclusione che Màdera trae è che dal filosofo di Treviri non si
ricava tanto una teoria del necessario rovesciamento del capitalismo,
quanto una visione della sua insuperabilità. O meglio, della sua
insuperabilità finché si resta sul terreno di una contestazione
economico-politica degli assetti vigenti.
La strada del
cambiamento passerà, allora, da un’altra parte: da una rivoluzione che
deve investire innanzitutto il rapporto con se stessi e con gli altri.
Il contributo della psicoanalisi junghiana si combina – nel testo di
Màdera – con quello della ricerca spirituale intesa nel senso più ampio,
aperta a ciò che si può imparare dalle grandi religioni, dalla
spiritualità buddhista, dalla pratica classica degli esercizi
spirituali. E così, per il filosofo-psicanalista, l’auto-trasformazione
di noi stessi diventa «la continuazione della politica con altri mezzi».