il manifesto 20.5.18
Vegetti, inattualità di Platone e del comunismo
Filosofia
antica. La città perfetta del filosofo greco letta come utopia
progettuale: un ritratto di Mario Vegetti a due mesi dalla morte, mentre
esce da Carocci l’ultimo libro
di Franco Ferrari
L’imminente
uscita dell’ultimo libro di Mario Vegetti, dal titolo Il potere della
verità Saggi platonici (Carocci «Frecce», pp. 284, € 24,00), revisionato
in bozze dall’autore poche settimane prima della scomparsa avvenuta
l’11 marzo scorso, rappresenta un’eccellente occasione per stilare un
profilo, per forza di cose parziale, di uno studioso che ha
rappresentato un punto di riferimento fondamentale per intere
generazioni di antichisti, ma che ha esercitato un’influenza
significativa anche nel dibattito culturale della sinistra italiana (tra
la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta fu vicino sul
piano intellettuale e politico al gruppo del manifesto e alla sinistra
radicale fu sempre legato, come testimonia anche la direzione della
rivista «Marxismo oggi»).
Vegetti, che era nato a Milano nel 1937,
insegnò per quasi quattro decenni Storia della filosofia antica
all’Università di Pavia, dove aveva studiato, in qualità di alunno del
prestigioso Collegio Ghislieri, nella seconda metà degli anni cinquanta.
Fin dai suoi primi lavori seppe innovare in maniera incisiva il
panorama degli studi sul pensiero antico, includendovi ambiti e testi
fino ad allora collocati ai margini. Basti pensare che a lui si deve,
nel lontano 1964, la traduzione degli scritti del Corpus Hippocraticum,
un insieme di testi di argomento medico che contengono importantissime
riflessioni di ordine epistemologico. Nel corso degli anni Vegetti si è
imposto come uno dei massimi specialisti internazionali di storia della
medicina antica; alla pubblicazione delle opere ippocratiche ha fatto
seguito, nel 1978, un volume che raccoglie i principali scritti di
Galeno, l’altro grande medico dell’antichità. Le indagini di Vegetti sui
testi medici antichi, che trovarono un significativo momento di sintesi
nello splendido Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e
donne all’origine della razionalità scientifica (Il Saggiatore, 1979),
inaugurarono una stagione di studi vivacissima, che ancora oggi a
distanza di tanti anni costituisce uno dei settori più interessanti e
innovativi della ricerca sul pensiero antico. Vegetti ha ricostruito i
metodi e le forme di conoscenza che hanno segnato l’origine di una nuova
forma di razionalità, un pensiero di tipo congetturale e semeiotico,
che si è progressivamente affrancato dal modello sapienziale e
semi-religioso praticato dalla cultura tradizionale.
L’apporto di
Vegetti all’innovazione degli studi sul pensiero antico non si è
limitato alla medicina. A lui e al suo collega «pavese» Diego Lanza,
amico di una vita, si deve la traduzione delle opere biologiche di
Aristotele, fino ad allora trascurate dagli studiosi. La «scoperta» di
questi scritti ha permesso di allargare notevolmente la nostra
conoscenza del pensiero di Aristotele, consentendo di superare le
ristrettezze di un approccio scolastico e banalizzante. Ad Aristotele
Vegetti ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, scritto in collaborazione
con Francesco Ademollo, Incontro con Aristotele (Einaudi, 2016),
un’opera nella quale la profondità del pensiero del grande filosofo
antico viene valorizzata in tutte le sue componenti.
Il sodalizio con Diego Lanza
Al
sodalizio con Diego Lanza si deve anche un’innovativa stagione di
studi, dedicati ai meccanismi economici, sociali, istituzionali,
politici e ideologici che agiscono alle spalle della costruzione della
democrazia ateniese del V secolo. Il libro L’ideologia della città
(Liguori, 1977) si serve dei raffinati strumenti analitici forniti
dall’antropologia e dal neo-marxismo di quegli anni per indagare le
dinamiche intorno alle quali si viene a costituire appunto l’ideologia
di Atene (sempre nel 1977 esce per Feltrinelli anche il volume, curato
da Vegetti, Marxismo e società antica, dedicato alla questione
dell’applicabilità di categorie marxiane, come classe, mercato,
sfruttamento, ideologia ecc., al mondo antico).
La democrazia
ateniese nasce attraverso un complesso sistema di inclusioni ed
esclusioni, che mette ai margini i poveri, gli schiavi, le donne e gli
stranieri. Ma la città si dota anche di formidabili strumenti di
autorappresentazione, che ne cementano l’identità (basti pensare al
teatro, prima tragico e poi anche comico). Non c’è però dubbio che lo
strumento più forte per mezzo del quale viene costruita l’ideologia
della città sia l’uguaglianza politica, la celebre isonomia, la quale
assegna pari dignità a ciascun cittadino, celando la profonda
diseguaglianza nella distribuzione della proprietà e delle ricchezze.
Lanza e Vegetti scrivevano che «gratificante e consolatoria, l’ideologia
assicura ciascuno della propria identità», facendo sì che l’individuo
si senta parte di una comunità omogenea. Sulla funzione mediatrice e
unificante del nomos, ossia della legge, Vegetti è tornato numerose
volte nel corso degli anni, soffermandosi sulle voci critiche
provenienti da coloro che misero in luce il carattere illusorio (si
direbbe «ideologico») di questa pretesa. La più radicale di queste voci è
senz’altro quella del sofista Trasimaco, il quale viene descritto da
Platone nell’atto di sferrare un attacco formidabile alla pretesa di
neutralità e universalità della legge e dei sistemi normativi che
regolano la vita della città: la giustizia, proclama con forza
Trasimaco, non è altro che «l’utile del più forte».
I sistemi
normativi nei quali la giustizia si sostanzia smarriscono ogni ambizione
«oggettiva», diventando l’espressione di rapporti di forza che si
collocano alle loro spalle: chi ha la forza – si tratti dei più ricchi o
della maggioranza – impone il rispetto di leggi il cui unico obiettivo è
quello di perpetuare questo potere. Vegetti, che non ha mai nascosto la
sua ammirazione per la radicalità e la potenza teorica di una simile
tesi, è arrivato ad attribuire a Trasimaco la formulazione di un vero e
proprio «teorema del potere», ormai indifferente alla natura
«costituzionale» del governo: si tratti di un regime monarchico,
aristocratico oppure democratico, il suo assetto legislativo dipende
unicamente dalla forza, la quale finisce per rappresentare, contro ogni
pretesa di universalità e neutralità, l’unica autentica fonte della
legge e dunque della giustizia.
Fine dell’età dell’innocenza
Lo
smascheramento della natura della legge e delle norme di giustizia
operato dal Trasimaco platonico rappresenta per Vegetti tanto la fine
dell’«età dell’innocenza» della città, quanto il punto di partenza per
il grandioso progetto di rifondazione antropologica e politica messo in
campo da Platone. A questi temi Vegetti dedicò sia la monumentale
edizione commentata della Repubblica (uscita in 7 volumi per
Bibliopolis, 1998-2007), sia numerosi altri contributi, tra i quali lo
splendido Un paradigma in cielo (Carocci, 2009) e il recentissimo Chi
comanda nella città. I Greci e il potere (Carocci, 2017). Il senso della
lettura che Vegetti propone del progetto politico platonico è chiaro,
sorretto da una straordinaria conoscenza dei testi e da una solida
competenza filologica, ma soprattutto animato da una inequivoca «scelta
di campo». Polemizzando tanto con le interpretazioni «liberali» quanto
con quelle schiettamente «conservatrici», entrambe volte a depotenziare
il messaggio «politico» contenuto nella Repubblica, concepito o come un
documento di morale individuale oppure come un gioco letterario, Vegetti
ha coraggiosamente affermato l’«inattualità» di Platone sia rispetto
alla cultura individualistica e proprietaria della modernità, sia
rispetto alla presunta unità «cristiana» dell’occidente: Platone non fu
né liberale, né cristiano, fu anzi convinto che i provvedimenti intorno
ai quali dovrebbe sostanziarsi la «città bella» (kallipolis), ossia a)
l’uguaglianza dei generi rispetto ai compiti di governo, b) la
soppressione della famiglia e della proprietà, cioè l’abolizione della
componente privata sia sul piano patrimoniale sia sul piano affettivo, e
c) il governo dei filosofi, non risultano solo desiderabili, ma anche,
in qualche misura, «possibili», ossia realizzabili. La città perfetta
immaginata da Platone non rappresenta dunque un «castello in aria»,
un’utopia letteraria priva di significato politico, ma, come Vegetti ha
sostenuto numerose volte, un’utopia progettuale, vale a dire un modello
normativo che svolge la funzione di paradeigma dei comportamenti
pubblici e privati degli individui. L’ultimo libro di Vegetti, al quale
si faceva riferimento in apertura, tratta con la consueta limpidezza
molti dei temi ora richiamati.
In un divertissement pubblicato in
una collana di «falsi d’autore» (Platone, Repubblica, libro XI, Guida,
2004), Vegetti immagina che nel 1937 in un convento dell’Armenia uno
studioso sovietico dal non casuale nome di Josiph Vissarionovich
annunciò il ritrovamento di un manoscritto contenente il libro XI della
Repubblica di Platone. Il protagonista di questo libro, colui che
intende superare le tesi di Trasimaco e di Socrate, è «uno straniero
piuttosto tozzo e tarchiato, con una gran testa, un’incolta barba grigia
e lo sguardo penetrante, cui faceva da seguito una piccola folla di
manovali o di schiavi da poco liberati dalle loro catene». Questo Marx
che dialoga con Socrate, delineando i contorni di una società senza
sfruttati né sfruttatori, senza ricchi né poveri, rappresenta l’estrema
concessione – ironica e divertente, – di Vegetti alla passione politica,
alla sua fiducia in un comunismo aperto e libertario, tanto «inattuale»
quanto ineludibile, almeno per una riflessione che non si accontenti di
registrare passivamente il presente, ma si proponga di immaginare
criticamente il futuro.