il manifesto 17.5.18
Caso Uva, chiesti 89 anni di carcere per poliziotti e carabinieri
Giustizia.
Il pg della Corte d’Assise d’Appello di Milano confuta la sentenza di
primo grado. Morte provocata dalla «violenta manomissione» nel
«trasferimento coatto in caserma»
di Eleonora Martini
C’è
un procuratore, a Milano. Che per la prima volta vede ciò che finora
sembrava invisibile. Ed è l’unica consolazione per la famiglia di
Giuseppe Uva, il gruista 43enne morto il 14 giugno 2008 dopo essere
stato trattenuto per una notte all’interno della caserma di via Saffi a
Varese, che chiede da dieci anni verità e giustizia.
«Anche a
prescindere dalle eventuali percosse subite e dalle lesioni riscontrate
sul suo corpo», Giuseppe Uva è morto «a causa di un’aritmia provocata
dalla violenta manomissione sulla sua persona col trasferimento coatto
in caserma». È quanto ha sostenuto ieri durante la requisitoria, davanti
alla Corte d’Assise d’Appello, il pg di Milano Massimo Gaballo che, in
opposizione alla sentenza di primo grado che ha assolto tutti gli
imputati, ha chiesto di condannare a 13 anni di reclusione i due
carabinieri, e a 10 anni e 6 mesi i sei agenti di polizia accusati di
omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato.
A
prescindere dalla loro colpevolezza – il processo riprenderà il prossimo
23 maggio e la sentenza è prevista per fine mese – è comunque la prima
volta che la magistratura inquirente non assume su questo caso solo il
punto di vista di polizia e carabinieri. A cominciare dall’illegittimità
di quel trasferimento in caserma per identificare due persone già note
alle forze dell’ordine cittadine: la vittima e il suo amico Alberto
Bigioggero che quella notte, ubriachi, stavano trascinando alcune
transenne al centro di una strada.
Diverso il giudizio anche sulla
testimonianza di Bigioggero, cui la Corte d’Assise di Varese non ha
dato alcuna credibilità. L’uomo, che ha problemi psichiatrici, aveva
riferito le parole che sarebbero state pronunciate da uno dei due
carabinieri nel momento in cui, scendendo dall’auto di servizio,
riconobbe Giuseppe Uva: «Proprio te stavamo cercando, questa non te la
faccio passare». Parole che secondo il pg Gaballo erano dettate dalla
«presunta storia di Uva con la moglie di un carabiniere». «Lui si
vantava di questa relazione – ricostruisce il sostituto procuratore –
Una vanteria che era più che sufficiente per una punizione, per persone
che non si fanno nessuno scrupolo a piegare i propri poteri
istituzionali a interessi personali». E invece di ascoltare il
testimone, secondo il Pg, i pm interrogarono Biggioggero «con modalità
barbare», «in violazione del codice penale e del rispetto della libertà
di auto-determinazione».
Ma soprattutto, il procuratore generale
di Milano cerca una spiegazione a quella serie di ferite riscontrate sul
corpo di Uva sulle quali la sentenza di primo grado sorvolava: «Ematomi
che non possono essere il frutto di autolesionismo, così come affermato
dagli imputati nel tentativo di giustificarsi». («Il collega frapponeva
il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che
questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del
pavimento», riferivano i militari per giustificare il Trattamento
sanitario obbligatorio con il quale venne ricoverato quella notte
Giuseppe Uva, poco prima di morire).
Una vicenda, questa, che ha
alcune similitudini con la morte di Aldo Bianzino, avvenuta il 14
ottobre 2007 nel carcere di Perugia Capanne e in relazione alla quale è
stato condannato in via definitiva, per omissione di soccorso, un
poliziotto penitenziario. Secondo la ricostruzione processuale, la morte
del falegname arrestato per qualche piantina di marijuana sarebbe stata
causata da un aneurisma. Questa mattina però, nella sala Nassirya del
Senato, il figlio Rudra, l’associazione A buon diritto e i senatori
Zanda e Manconi presenteranno la nuova perizia medico legale autorizzata
dal Gip che potrebbe riaprire il caso.