il manifesto 17.5.18
Gaza, Ramadan di sangue
Reportage. Il
mese più importante per i musulmani arriva dopo la strage di lunedì e
trova una popolazione sempre più povera che non potrà festeggiare.
Israele continua a rifiutare ogni responsabilità e rivolge nuove accuse
ad Hamas
di Michele Giorgio
GAZA Nel mercato
popolare di Jabaliya i banchi dei commercianti sono colmi di merci.
Verdure, dolci, pesci, giocattoli, frutta fresca e secca. Il clima però
è cupo. Si sono appena conclusi i funerali delle decine di palestinesi
uccisi lunedì dal fuoco dei tiratori scelti israeliani e i prossimi
giorni potrebbero portare altri lutti e dolori alla gente di Gaza resta
stretta nel blocco israeliano. Oggi comincia il Ramadan e ogni
famiglia vorrebbe acquistare quanto serve per l’iftar, il pasto serale
che interrompe il digiuno dei musulmani in questo mese. Rafiq Abu Saad
si aggira tra i banchi colorati ma si limita ad osservare. «Non ho
soldi» ci dice «da Ramallah non mi versano più lo stipendio e sono
indebitato con amici e parenti». Rafiq è uno delle migliaia di
palestinesi dipendenti dell’Autorità Nazionale vittime dello scontro tra
il presidente Abu Mazen in Cisgiordania e il movimento islamico Hamas.
Scontro che ha un impatto diretto sulla popolazione di Gaza e che si
aggiunge al blocco praticato da Israele. Il governo di Ramallah ha
congelato i versamenti nelle banche di Gaza convinto di mettere la
popolazione contro gli islamisti decisi a non cedere il controllo di
Gaza. «Lo stipendio non lo ricevono neanche i dipendenti del governo
di Hamas perché (il movimento islamico) ha le casse vuote. Perciò
nessuno ha a soldi per il Ramadan», aggiunge Rafiq.
A Gaza è
tutto fermo, l’economia è paralizzata, i commercianti hanno merci che
venderanno con grande fatica e difficilmente potranno pagare i
fornitori. Decine di migliaia di famiglie vivono indebitandosi e grazie
agli aiuti umanitari. Dall’altra parte delle linee di demarcazione
decide tutto Israele, su cosa e chi entra o esce dalla Striscia. E le
proteste popolari contro il blocco sono disperse con il fuoco dei
tiratori scelti. Per Israele e per gli Stati uniti la responsabilità è
solo di Hamas e gli oltre cento palestinesi uccisi dai cecchini sulle
barriere di demarcazione in un mese e mezzo, erano in buona parte dei
“terroristi”. «Hamas è un mucchio di cannibali che usa i bambini come
munizioni…Cosa sarebbe successo se quella marmaglia fosse riuscita a
violare la sovranità e irrompere in una sola comunità (ebraica)? I
nostri soldati hanno agito in conformità con le norme etiche», ha
commentato ieri il ministro della difesa israeliano Liebermam
rispondendo alle critiche e condanne internazionali piovute sul governo
Netanyahu dopo la strage di lunedì. Israele respinge l’accusa di aver
reso insostenibile, con la chiusura, da oltre 11 anni, dei valichi e le
forti restrizioni ai movimenti delle persone, la condizione di oltre
due milioni di civili a Gaza. Il Cogat, il suo coordimento militare per
gli affari civili nei territori occupati, ripete nella Striscia non
manca nulla di essenziale, dai farmaci al cibo. E punta il dito contro
gli attivisti palestinesi che ieri hanno respinto, in segno di protesta
per la strage di lunedì, due autocarri con aiuti israeliani destinati
agli ospedali della Striscia da giorni in stato d’emergenza per il
numero di feriti gravi.
Non condivide le rassicurazioni israeliane
l’Ong internazionale Oxfam che ieri, attraverso il suo portavoce Paolo
Pezzati, ieri ha avvertito che l’ostacolo più serio al miglioramento
delle condizioni di vita a Gaza resta la chiusura dei valichi, in
particolare quello commerciale di Kerem Shalom, non ancora operativo
dopo i danni subiti durante le proteste palestinesi di alcuni giorni
fa. «Andando avanti così – ha detto Pezzati – la popolazione rimarrà
presto senza carburante, vitale per l’irrigazione dei pochi campi
rimasti, che possono permettere alla popolazione di non morire di fame,
così come per la desalinizzazione dell’acqua marina, da cui dipende
l’accesso all’acqua potabile del 90% della popolazione di Gaza». La
situazione umanitaria è disperata, ha sottolineato Pennati, «quasi la
metà della popolazione non ha cibo a sufficienza, il tasso di
disoccupazione è arrivato oltre il 40% e circa 23.550 persone ancora
senza casa dalla guerra del 2014».
Non è destinato a portare
particolare sollievo la decisione del Cairo di tenere aperto, ancora
per qualche giorno il valico di Rafah, a sud di Gaza, in modo da
consentire anche il trasferimento in ospedali egiziani di alcuni dei
palestinesi feriti dal fuoco dei soldati israeliani in questi ultimi
giorni. «Quel transito dovrebbe restare aperto, sempre» protesta
Khalil Shahin, vice direttore del Centro per i diritti umani, «solo
così potrà dare un aiuto importante alla popolazione di Gaza, di fatto
tenuta prigioniera». Tuttavia, aggiunge Shahin, «è Israele, la potenza
occupante, che più di ogni altro soggetto coinvolto deve dare la
libertà di movimento alla popolazione occupata. Lo sancisce il diritto
internazionale».