il manifesto 17.5.18
L’esperimento americano fa i conti con i propri fantasmi
«Trumpland», di Luca Celada per manifestolibri
di Guido Caldiron
L’immagine
è semplice nella sua drammaticità. Un interno di famiglia che annuncia
la possibile catastrofe collettiva. Bambini, istruiti da genitori
infervorati, che bruciano sghignazzando la maglia con il nome di Colin
Kaepernick, una stella del football già quarterback dei San Francisco
49ers.
KAEPERNICK ha lanciato una nuova forma di protesta, poi
ripresa da decine di altri sportivi: invece di alzarsi in piedi e
portare la mano al cuore al suono dell’inno nazionale durante l’omaggio
alla bandiera, rito con cui si aprono le partite, si è inginocchiato per
ricordare le vittime delle violenze poliziesche, spiegando di non
sentirsi orgoglioso «di un paese che opprime i neri e la gente di
colore». Dopo la sua elezione, Donald Trump si è chiesto pubblicamente
se non fosse il caso di cacciare dalla Nfl, la lega professionisti,
certi «figli di puttana di giocatori che mancano di rispetto alla nostra
bandiera», mentre in rete sono diventati virali i «piccoli roghi» di
magliette: «l’immagine di bambini a scuola di odio che racchiude in un
fotogramma il triste autunno trumpista». Quale che sia il destino dell’
attuale amministrazione – che potrebbe dipendere dai progressi
nell’inchiesta sul «russiagate» più che dal voto di mid-term -, è già
certo che «l’esperimento americano rimarrà per sempre segnato dall’aver
prodotto un Presidente come Trump».
Nel definire i contorni
dell’«America nazional-populista» nel suo Trumpland (manifestolibri, pp.
128, euro 15), Luca Celada non sottovaluta le scelte scellerate in
politica internazionale, come sul tema dell’energia e dell’ambiente,
assunte nell’ultimo anno e mezzo dalla Casa Bianca, ma concentra la sua
attenzione su cosa il fenomeno Trump ci dica degli Stati Uniti, dei
conflitti e delle fratture che ne hanno caratterizzato la storia, della
natura complessa e contraddittoria, ma anche evidentemente straordinaria
nella sua unicità, dell’esperienza americana.
L’INDAGINE sul
«citizen Trump», sui contorni e il significato della sua vittoria e sul
profilo della sua presidenza, si traduce così in una riflessione ampia e
coinvolgente che ha il timbro del reportage pur avendo il respiro del
saggio storico.
Ben al di là della «rivoluzione conservatrice» di
Nixon e Reagan, alla cui eredità non soltanto simbolica ha comunque
attinto, oltre i confini del governo dei super-ricchi di George W. Bush,
malgrado abbia ricondotto le banche d’affari responsabili della
peggiore crisi dal ’29 alla guida del paese, con Trump l’immaginario del
nuovo suprematismo bianco, intriso della paranoia del «declino», si è
mescolato con un progetto di ristrutturazione sociale senza precedenti.
Prima con il Tax Plan, la riforma fiscale che produce enormi vantaggi
per l’élite economica, e, a cascata, grazie ad una serie di tagli
previsti all’intervento pubblico in materia sociale, ad essere rimessa
in discussione sembra essere la stessa eredità, già malconcia, del New
Deal rooseveltiano che ha definito per molti versi l’America
contemporanea.
IN QUESTO SENSO, il «trumpismo» potrebbe rivelarsi
tutt’altro che un epifenomeno, rimescolando invece in profondità le
carte della storia americana. Così, se il razzismo su cui Trump ha
puntato fin dalla propria «discesa in campo», quando evocò per la prima
volta il «muro» con il Messico, rimanda ad un «implicito progetto
eugenetico», quello di estendere il predominio razziale bianco ben oltre
il 2044, data entro la quale avverrà il sorpasso delle minoranze sui
«bianchi», la «decostruzione amministrativa», annunciata da Steve
Bannon, già ideologo trumpiano e alfiere della Alt-right, si traduce in
ciò che il New York Times ha definito come «l’abrogazione del patto
sociale» americano degli ultimi cento anni.
IL «TIRANNO POPULISTA»
che prima di correre per la Casa Bianca ha plasmato la propria immagine
pop attraverso il reality The Apprentice, sorta di
«esaltazionedell’avidità come stato naturale», sta perciò contribuendo
non solo a portare le correnti fasciste americane là dove non erano mai
giunte – come se Wallace o Goldwater fossero diventati presidenti negli
anni Sessanta, suggerisce Celada -, ma a fare del paese il principale
laboratorio politico della nuova destra internazionale. L’inquitante
simbolo del nazional-populismo dell’intero Occidente in una terra che fu
schiavista ma dove è comunque cresciuto un efficace seppur complesso
melting pot.
*
Il volume di Luca Celada sarà presentato oggi
pomeriggio alle 18 a Roma, presso l’hub culturale Moby Dick (via
Edgardo Ferrati 3), nel quartiere Garbatella.
Con l’autore si
confronteranno Ida Dominijanni, giornalista e filosofa, Mattia Diletti,
docente di Scienza politica a La Sapienza, studioso del sistema politico
Usa e il giornalista Martino Mazzonis, esperto di politica americana
che ha seguito la campagna presidenziale del 2016 che ha portato Donald
Trump alla Casa Bianca.