il manifesto 15.5.18
L’anima più concreta dello strutturalismo
Ritratti.
La scomparsa di Gérard Genette, all'età di 87 anni, chiude la stagione
più alta della teoria letteraria novecentesca. Dalla narratologia alla
filosofia analitica, il suo è stato un percorso speculare a quello del
coetaneo Derrida
di Pierluigi Pellini
C’è tutto
Genette, con la sua sferzante (auto-)ironia, nella definizione scherzosa
che ha dato, una decina d’anni fa, della narratologia, la disciplina
che più di ogni altro ha contribuito a fondare negli anni d’oro della
teoria letteraria, intorno al 1970: «una pseudo-scienza perniciosa», il
cui «gergo ha indotto disgusto per la letteratura in tutta una
generazione di analfabeti». Dove il sarcasmo colpisce in modo equanime
le pedisseque applicazioni scolastiche del suo metodo di analisi
strutturale del testo narrativo e i pigri pregiudizi di studenti di per
sé poco inclini ai piaceri della lettura.
L’AUTORE DI «FIGURE
III», il libro che per almeno tre decenni è stato la bibbia di ogni
matricola in lettere (oggi sta scomparendo dai programmi universitari),
era il primo a farsi beffe del narratologically correct imposto dalle
sue stesse opere e sciaguratamente diffuso, in Francia come in Italia,
nelle scuole di ogni ordine e grado: parlando con libertà e passione
della Recherche, l’opera su cui più assiduamente ha lavorato, gli
capitava di dire Proust e non Marcel, confondendo autore e narratore, e
lasciando di stucco interlocutori tanto ottusi da trasformare, come i
manuali scolastici, le sue distinzioni teoriche e le sue categorie
operative in soggetti di un’ontologia fantasma.
Gérard Genette,
scomparso a ottantasette anni lo scorso 11 maggio, è stato innanzitutto
un maestro di metodo. In tutta la sua opera, altro non ha fatto che
insegnare l’arte del distinguo: proprio per questo sapeva che è più
importante evitare di confondere un saggio critico con una
conversazione, o un adolescente con un dottorando, piuttosto che una
sillessi con una metalessi, o un racconto eterodiegetico con uno
omodiegetico. Del resto, il gusto del paradosso, sempre ricondotto, in
un lampo d’intelligenza, alla più limpida razionalità, non è peculiare
dei soli scritti della vecchiaia: dell’impresa ciclopica che si era
proposto, quella di mappare «la totalità del virtuale letterario»,
conosceva il fascino utopico ma anche la smisurata aleatorietà.
Esattezza e ironia: questo il binomio, solo in apparenza ossimorico, che
informa la scrittura, svelta e elegante nonostante i tecnicismi, di
tutti i suoi libri. Nei quali voleva descrivere non solo i testi
storicamente esistenti, ma anche quelli logicamente immaginabili:
esattamente come Claude Lévi-Strauss ambiva a censire le forme di tutte
le possibili società umane.
INSIEME AL GRANDE antropologo, Genette
ha incarnato, dello strutturalismo, l’anima più concreta e razionale;
Roland Barthes quella più inquieta e creativa. Forse c’entra il fatto
che era figlio di un operaio tessile (l’autore dei Miti d’oggi, invece,
di un capitano della marina mercantile); e se è un luogo comune, oggi,
ripetere che le opere di Barthes invecchiano meglio, di certo sono gli
strumenti di laboratorio messi a punto da Genette a rimanere
indispensabili per chi è ancora convinto che la critica, come la
letteratura, sia innanzitutto nobile artigianato.
L’officina
nomenclatoria di Genette, al tempo stesso pedante e ludica, ha lavorato
senza sosta per mezzo secolo, producendo un’inflazione terminologica che
accanto a categorie imprescindibili (anacronie, fenomeni di durata e
frequenza, modi del racconto, voce narrativa: impensabile farne a meno),
ne ha diffuse di inutili o infelici, destinate a precoce obsolescenza:
così i suoi «ipertesti», che nel 1981 indicavano testi derivati, in modo
più o meno palese, da altri testi, si sono arresi alla fortuna che il
termine ha avuto, in altra accezione, nel linguaggio del web. E
tuttavia, nel momento in cui la scomparsa di Genette (si può ben dirlo
senza retorica) chiude definitivamente la stagione più alta della teoria
letteraria novecentesca, l’onestà intellettuale dei posteri impone di
riconoscere che la voga attuale della narratologia anglosassone (i
nipotini James, Forster e Booth) e delle sue approssimazioni
impressioniste, o di quella austriaca (gli allievi di Stanzel) e della
sua duttilità, o peggio di quella cognitivista (la cosiddetta
neuronarratologia), risponde a esigenze prettamente accademiche di (vero
o presunto) rinnovamento dei metodi, se non di mera produzione di carta
da concorsi. Chi vuole capire come funziona un romanzo, usa e
continuerà a usare Figure III (1972) e il Nuovo discorso del racconto
(1983).
NON È TUTTAVIA IL TESTO, nella sua singolarità, a essere
al centro delle preoccupazioni di Genette: che per questo non può essere
considerato tout court un formalista, né semplicemente un narratologo,
anche se ha indubbiamente contribuito a quello sbilanciamento dei valori
che oggi induce il senso comune a identificare la letteratura con i
soli generi narrativi.
La disciplina cui ha dedicato i suoi sforzi
più costanti è la poetica (perciò il titolo della rivista fondata nel
1970 con Hélène Cixous e Tzvetan Todorov, «Poétique»): lo studio, cioè,
dell’«insieme delle categorie generali e trascendenti – tipi di
discorso, modi d’enunciazione, generi letterari, ecc. – cui appartiene
ogni singolo testo». Di qui l’interesse per la riscrittura (parodia,
pastiche, imitazione) e per i «dintorni del testo», studiati
rispettivamente in due grandi libri come Palinsesti (1982) e Soglie
(1987); e la costante riflessione sulla natura stessa del fatto
letterario, affrontata con uno scetticismo mai rinunciatario. Esemplare
l’incipit di Finzione e dizione (1991): «avrei potuto gratificare questo
saggio di un titolo ch’è stato grossolanamente usato: Che cos’è la
letteratura?». Dove la stoccata a Sartre si capovolge prontamente in
autoironia («a domanda sciocca, nessuna risposta»), mentre il saggio
imposta l’analisi di quei rapporti fra fiction e non fiction che
diventeranno di attualità, anche militante, nel nuovo secolo. Non a
caso, esaurita la stagione strutturalista, Genette scriverà un saggio di
estetica in due volumi, L’opera dell’arte (1994 e 1997), fedele al
partito preso di un pragmatismo razionalista che lo porta a scegliere
come interlocutore privilegiato Nelson Goodman.
È la conclusione
di un percorso – dalla letteratura alla filosofia analitica – per certi
versi speculare a quello seguito dal coetaneo Jacques Derrida, che di
Genette era stato collega e sodale nel 1959, quando entrambi insegnavano
in un oscuro liceo di provincia, a Le Mans: due ‘vite parallele’ forse
solo in apparenza antitetiche (strutturalismo e post-strutturalismo,
tecnicismo scientista e decostruzione), emblematiche della cultura
europea del secondo Novecento.
UNA PARABOLA fin troppo esemplare
dell’ascesa e del declino non solo dello strutturalismo, ma della teoria
letteraria tout court, è disegnata invece dalla ricezione dell’opera di
Genette in Italia: il suo primo libro, Figure, del 1966, è stato
tempestivamente tradotto tre anni dopo da Einaudi, che ha più o meno
prontamente pubblicato anche i principali volumi degli anni successivi,
fino a Soglie. I due libri di estetica, invece, sono usciti per i tipi
di un piccolo editore universitario (Clueb di Bologna); le opere
successive non sono mai state tradotte.
Dell’ultima fase di
Genette, aperta nel 2006 con Bardadrac – ancora un neologismo, che
allude giocosamente alla confusione di oggetti eterocliti buttati alla
rinfusa in un sacco –, e proseguita a cadenze quasi regolari con
Codicille (2009), Apostille (2012), Epilogue (2014) e Postscript (2016),
nulla è pervenuto al lettore italiano: ed è un vero peccato, perché
l’understatement dei titoli, che annunciano null’altro che codicilli,
postille, epiloghi e poscritti, nasconde la ricchezza e la complessità
di un moderno zibaldone, nato sotto il segno di Montaigne e
misuratissimo nel mescolare con apparente nonchalance riflessioni
filosofiche, ricordi autobiografici, giudizi fulminanti sulla
letteratura e sul mondo. Perché Genette è stato, dagli anni Sessanta
fino a ieri, non solo un teorico, ma anche un grandissimo critico: la
finezza di tante sue osservazioni – su Proust, su Flaubert, su molti
altri classici non solo francesi – smentisce ogni sospetto di arido
tecnicismo; e come Barthes è stato, sia pure in modi diversissimi, anche
uno scrittore: che in Italia quasi nessuno conosce.