mercoledì 16 maggio 2018

Parafrasando Shakespeare, siamo fatti della stessa sostanza dei ricordi. Ma i ricordi di preciso di cosa sono fatti?
Corriere 16.5.18
I ricordi? Si trasferiscono
Il test con una molecola di Rna: memorie trasmesse tra due cavie
«La loro sede nelle cellule nervose»
di Anna Meldolesi


Parafrasando Shakespeare, siamo fatti della stessa sostanza dei ricordi. Ma i ricordi di preciso di cosa sono fatti? La rivista della Society for Neuroscience (eNeuro) ha provato a rispondere, scommettendo sull’Rna. Insomma su quelle piccole molecole che parlano lo stesso linguaggio del Dna, senza possederne la tipica struttura a doppia elica. L’ipotesi sta già agitando le acque della scienza e se venisse confermata da gruppi indipendenti scatenerebbe una tempesta. Se la memoria si affida a molecole trasportabili, anziché alle connessioni tra i neuroni del cervello, diventerà più semplice risvegliare nei malati i ricordi perduti o cancellare quelli traumatici?
Scioccante, sconvolgente, incredibile. Questi sono gli aggettivi usati dalla comunità dei neuroscienziati per i primi commenti a caldo. L’autore del lavoro è David Glanzman, un ex allievo del padre degli studi sulla memoria, il grande Eric Kandel. Protagonista è ancora una volta l’Aplysia, la lumaca di mare che, nonostante l’aspetto poco seducente, è una stella delle neuroscienze. Si può dire che il Nobel vinto da Kandel spetti in parte a lei. Una creatura grossa quanto il palmo di una mano, violacea e suscettibile. Se viene disturbata si difende spruzzando un liquido purpureo, che tinge l’acqua tutto intorno.
Come modello animale è entrata di diritto nel XXI secolo, grazie alle sue doti di semplicità e reattività. Perché è possibile imprimerle dei ricordi negativi e poi verificare dal suo comportamento per quanto tempo resta sulla difensiva.
Nel suo laboratorio di Los Angeles, all’Università della California, Glanzman ha indotto un riflesso di contrazione stimolando la coda di alcuni esemplari con degli choc elettrici, senza far loro del male. Una scarica ogni venti minuti, per cinque volte, ripetendo lo schema 24 ore dopo. A questo punto basta sfiorarli e il ricordo dei dispetti subiti si fa subito sentire: gli animali già infastiditi reagiscono restando contratti quasi un minuto, mentre i compagni più fortunati si rilassano nel giro di un secondo.
Nella speranza di decifrare il codice di questa memoria, i ricercatori si sono concentrati sull’Rna, una classe di molecole multiformi e versatili, capaci di veicolare messaggi chimici. L’idea era che potessero funzionare come una chiavetta, salvando file mnemonici per poi trasportarli da un computer all’altro. Pardon, da una lumaca all’altra. Per verificare l’ipotesi l’Rna è stato estratto dal sistema nervoso delle lumache ansiose e iniettato in esemplari indisturbati. Questi ultimi hanno preso a comportarsi come se avessero subito lo choc, insomma come se la memoria si fosse trasferita insieme alle molecole. L’Rna delle lumache tranquille, invece, non ha sortito alcun effetto. Il lavoro è stato accolto dagli esperti con un mix di cautela e di stupore, Glanzman del resto sapeva a cosa andava incontro.
La teoria classica colloca la memoria in corrispondenza delle connessioni tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. L’ultimo esperimento invece la porta fin dentro il nucleo delle cellule nervose. Qui le molecole messaggere modulerebbero l’attività dei geni, anche se è presto per ipotizzare come. Una lumaca dotata di 20.000 neuroni non può certo riprodurre fedelmente ciò che succede in un cervello umano da 100 miliardi di elementi. Ma l’organismo che ora prova a scardinare il dogma sinaptico è lo stesso che ha contribuito a fondarlo. Una bella responsabilità per questo mollusco di mare simile a una melanzana. Insegnarci a dire: io sono le mie sinapsi. E poi instillare amleticamente il dubbio. Oltre alle sinapsi, forse, c’è di più.

Corriere 16.5.18
l padre evaporato nel «Lessico famigliare» di Recalcati
di Aldo Grasso


«Quando parla Recalcati fa così ueee/e sui fianchi ben piantati resta lì ueee/nello sguardo scanzonato come un lampo fa brillar/e agitando sempre l’indice elevato s’ode un canto che somiglia a un miagolar». Quando parla Recalcati, in total black, tutti in religioso silenzio, pom pom pom pom. «Lessico famigliare» (povera Ginzburg) è il programma che Massimo Recalcati, psicoanalista, scrittore e guru del Ceto Medio Riflessivo, conduce su Raitre per parlarci degli archetipi su cui si fonda la nostra società (lunedì, ore 23.13). Non perdetela! Sostiene Recalcati che la figura paterna è evaporata. Colpa, forse, del global warming o della desertificazione delle coscienze ma, signora mia, non ci sono più i padri di una volta. Sostiene Recalcati che il padre è il contrario del Grande Fratello (e qui siamo in territorio dursiano), che il padre non è lo spermatozoo, che il padre è la Legge: il divieto dell’incesto è freno al desiderio anarchico, è il limite del godere del tutto (prima di Freud e di Lacan, il Limite era figura svelata e venerata in Grecia). Sostiene Recalcati, nelle sue ovvietà in salsa lacaniana, che il desiderio anarchico è desiderio di morte, come direbbe Pasolini; che è desiderio di evaporazione del padre, come direbbe Lacan; che viviamo nel tempo del post-padre, come direbbe Michele Serra. E giù citazioni di film, più veltroniano di Veltroni: Habemus papam e Caro Diario di Moretti (la scena girata a Salina, con i piccoli figli che non mollano mai il telefono), La vita è bella di Benigni. E poi Alessio Boni legge rapito alcune pagine de La strada di Cormac McCarthy, come direbbe Baricco. Sostiene il post-Crepet che la paternità è soprattutto un gesto simbolico, e in una sola frase umilia le Concite, gli Augias, le ultime sentinelle del sapere «republicones» e intervista Michele Serra. Lo sventurato rispose.

il manifesto 16.5.18
L’appello: «Tacciano le armi in Medio Oriente»
Dopo la strage di Gaza. L'appello urgente contro la violenza in Palestina di un gruppo di personalità della cultura italiana
Primi firmatari: David Calef, Bruno Contini, Roberto Della Seta, Anna Foa, Lisa Ginzburg, Wlodek Goldkorn, Giorgio Gomel, Helena Janeczek, Gad Lerner, Simon Levis Sullam, Laura Mincer, Michele Sarfatti, Roberto Saviano, Susanna Terracina, Alessandro Treves

«Israele oggi assomiglia più a una fortezza che non a una casa», ha detto David Grossman aprendo, tre settimane fa, una cerimonia congiunta di commemorazione delle vittime del conflitto, israeliane e palestinesi, a Tel Aviv, in ebraico e in arabo.
In queste ore a Gaza sangue si aggiunge su sangue. Condividiamo il dolore delle vittime palestinesi.
Noi sottoscritti, sostenitori del diritto di Israele ad esistere come stato entro confini legittimi, sicuri e riconosciuti, e ugualmente di quello dei palestinesi ad uno stato indipendente, guardiamo con estrema preoccupazione alle prime conseguenze, letali per le prospettive della pace, dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme da parte dell’amministrazione Trump.
Non possiamo tacere di fronte all’uso sproporzionato della forza da parte di Israele. L’uso di armi da fuoco contro civili è ammissibile soltanto se detti civili partecipano direttamente ad azioni ostili, non se varcano o cercano di superare la frontiera con Israele. Vi sono mezzi non letali per contenere e disperdere proteste anche di massa.
Condanniamo  la retorica fondamentalista di Hamas che non abbandona il rifiuto di Israele né desiste da una guerra di guerriglia che espone la gente di Gaza alla rappresaglia di Israele.
Chiediamo, soprattutto, che tacciano le armi e si cerchino ora e per il futuro, da parte di tutti, le vie politiche del dialogo, della conoscenza reciproca e della pace in tutta la regione.
Per adesioni: taccianoarmiMO@gmail.com

Repubblica 16.5.18
L’appello
Da Saviano a Foa “Tacciano le armi prevalga il dialogo”

«Israele oggi assomiglia più a una fortezza che non a una casa», ha detto David Grossman aprendo, tre settimane fa, una cerimonia congiunta di commemorazione delle vittime del conflitto, israeliane e palestinesi, a Tel Aviv, in ebraico e in arabo.
In queste ore a Gaza sangue si aggiunge su sangue.
Condividiamo il dolore delle vittime palestinesi.
Noi sottoscritti, sostenitori del diritto di Israele ad esistere come stato entro confini legittimi, sicuri e riconosciuti, e ugualmente di quello dei palestinesi ad uno stato indipendente, guardiamo con estrema preoccupazione alle prime conseguenze, letali per le prospettive della pace, dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme da parte dell’amministrazione Trump.
Non possiamo tacere di fronte all’uso sproporzionato della forza da parte di Israele. L’uso di armi da fuoco contro civili è ammissibile soltanto se detti civili partecipano direttamente ad azioni ostili, non se varcano o cercano di superare la frontiera con Israele. Vi sono mezzi non letali per contenere e disperdere proteste anche di massa.
Condanniamo la retorica fondamentalista di Hamas che non abbandona il rifiuto di Israele né desiste da una guerra di guerriglia che espone la gente di Gaza alla rappresaglia di Israele.
Chiediamo, soprattutto, che tacciano le armi e si cerchino ora e per il futuro, da parte di tutti, le vie politiche del dialogo, della conoscenza reciproca e della pace in tutta la regione.

Roberto Della Seta, David Calef, Bruno Contini, Anna Foa, Lisa Ginzburg, Wlodek Goldkorn, Giorgio Gomel, Helena Janeczek, Simon Levis Sullam, Laura Mincer, Michele Sarfatti, Roberto Saviano, Susanna Terracina, Alessandro Treves
Gli intellettuali
Nei ritratti qui sopra, dall’alto, tre firmatari dell’appello: Roberto Saviano, Helena Janeczek e Wlodek Goldkorn

Corriere 16.5.18
Parla il palestinese, Nikki Haley se ne va


L’ambasciatrice statunitense all’Onu Nikki Haley ha lasciato la sala del Consiglio di sicurezza Onu subito dopo che il collega palestinese, Ryad Mansour, ha iniziato a parlare sulla situazione a Gaza. Mansour nel suo discorso ha detto: «Quanti palestinesi devono morire prima che facciate qualcosa? Questi bambini meritano di morire? Perché avviene questo massacro e l’Onu non fa nulla? Perché siamo l’eccezione?». Parole cui hanno fatto seguito quelle del coordinatore Onu per il processo di pace in Medio Oriente, Nikolay Mladenov «Israele deve calibrare l’uso della forza, deve proteggere i suoi confini ma farlo in modo proporzionato, mentre Hamas non deve usare le proteste per mettere bombe e compiere atti provocatori».

il manifesto 16.5.18
Suad Amiry: «Israele ha paura, non può vincere sulla non violenza»
Gaza. Intervista alla scrittrice palestinese: «Li stiamo mettendo in difficoltà: le proteste di famiglie, donne, ragazzi sono resistenza popolare. Settant'anni dopo non dobbiamo restare dei numeri: quando scrivo della perdita della mia scuola, del mio quartiere, del mio tinello, racconto cosa vuol dire Nakba per ognuno di noi»
di Chiara Cruciati

«Se domani Milano, Roma, Napoli venissero messe sotto assedio, come reagireste?». Così Suad Amiry risponde a chi in questi giorni (governi e stampa occidentale) pare incapace di descrivere per quel che è la Grande Marcia del Ritorno di Gaza. Architetto, tra le più note scrittrici palestinesi, era ieri a Firenze per un incontro organizzato dall’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese.
Oggi i palestinesi, nella diaspora e nella Palestina storica, commemorano la Nakba mentre a Gaza è in corso una strage. La Nakba continua, ma continua anche la lotta palestinese per il ritorno.
Israele va ripetendo bugie: il responsabile delle violenze è Hamas. Per cosa esattamente è responsabile? Da tre anni non usa armi. Partiamo da questo: è impensabile mettere due milioni di persone dentro una prigione per 11 anni, impedendogli di studiare, muoversi, curarsi, uscire. La gente è disperata, davvero disperata. Se succedesse a voi? Oggi siamo a 70 anni dalla Nakba, quando siamo stati cacciati dalle nostre terre. La mia famiglia è stata cacciata da Gerusalemme, so che significa essere un profugo che non può tornare a casa. La Nakba continua: confiscano le nostre terre, costruiscono colonie. E ora gli Stati uniti si comportano come cent’anni fa fece la Gran Bretagna: Trump ha promesso Gerusalemme agli israeliani come Balfour promise la Palestina al movimento sionista. Eppure stiamo mettendo in difficoltà Israele: queste manifestazioni sono resistenza non violenta e popolare. Famiglie, donne, ragazzi preoccupano Israele perché è una resistenza che non può battere.
Da generazioni i palestinesi vivono la cacciata dalle proprie terre come un fatto temporaneo. Quanto questo senso di temporaneità, ma allo stesso tempo di precarietà, ha plasmato il popolo palestinese?
Per lungo tempo i palestinesi hanno provato in ogni modo a mantenere viva la speranza, anche con l’accettazione di Israele e della soluzione a due Stati, senza ottenere nulla. In mancanza di una soluzione il sentimento di instabilità, precarietà, preverrà impedendo la formazione di una società normale. L’altro elemento di cui tener conto è quello dell’assenza, un concetto che mi ossessiona: Israele ci considera assenti anche se siamo lì, a pochi chilometri. Assenti significa inesistenti.
Nonostante l’uso israeliano di forza letale senza alcuna giustificazione, la narrazione prevalente è quella della legittima «difesa dei confini». Il reale contesto di deprivazione e di lotta per la libertà dei palestinesi scompaiono. È una novità nel panorama internazionale o una narrativa consolidata a Occidente?
La narrativa israeliana è diventata quella europea e americana. La cultura occidentale ha fatto propria quella visione. Non esiste più una contro-narrativa, ma una mera accettazione delle politiche di Israele.
Nei suoi libri, da «Golda ha dormito qui» all’ultima opera «Damasco», sono centrali i concetti della perdita e della nostalgia, accanto a quello della memoria. Quanto ritrova di quei sentimenti nelle mobilitazioni di queste settimane?
Uno dei limiti che noi palestinesi abbiamo è il non parlare delle perdite personali subite. Non siamo stati capaci di raccontare le storie personali. Allora come oggi. Cosa significa per una famiglia aver perso lunedì un figlio o un marito, non vederlo tornare a casa, non trovarlo più nella sua stanza? Qualche anno fa durante le manifestazioni in Libano per la Nakba, un amico, Munib al-Masri, fu colpito dai proiettili israeliani e rimase paralizzato. Ho seguito la sua storia, cosa ha significato l’aver abbandonato la scuola, aver viaggiato all’estero sperando di tornare in piedi. Noi palestinesi siamo rimasti dei numeri. Nei miei racconti provo a fare questo: raccontare le storie individuali, non solo quella collettiva. Quando scrivo della perdita della mia scuola, del mio quartiere, del mio tinello, racconto cosa vuol dire Nakba per ognuno di noi. E dunque per l’intera società, per tutto il popolo.

Repubblica 16.5.18
Intervista a Nathan Englander
“Con Trump e Bibi non c’è alcun futuro Giocano col fuoco”
di Antonello Guerrera


Come di recente altri scrittori ebreo-americani (Jonathan Safran Foer e Nicole Krauss), anche Nathan Englander ha ambientato il suo ultimo romanzo Una cena al centro della terra (ed. Einaudi) nel cuore del conflitto israelo-palestinese. E cioè l’occhio di una spirale impazzita e oramai a tratti inspiegabile che, come nel libro, somiglia sempre più a un girone infernale, le cui atrocità hanno un impatto devastante anche sulla psicologia degli individui.
Al telefono la voce di Englander è confusa, le parole ammassate dalle emozioni. «Non ce la faccio più a leggere il bilancio dei morti al confine con Gaza che aumentano, a decine e decine, non ce la faccio». Englander, 48 anni, è residente a Brooklyn, ma in passato ha vissuto a lungo (dal 1996 al 2001) a Gerusalemme e le cicatrici di quell’illusione di pace lo hanno reso estremamente sensibile a ciò che accade in Terra Santa: «Quel periodo mi ha spezzato il cuore. Allora, dopo gli accordi di Oslo, la pace sembrava incredibilmente vicina, inarrestabile, fulminea, era lì, tanto che temevo di perdermela, che divenisse realtà prima che arrivassi a Gerusalemme. Poi è stato ucciso Rabin, è esplosa la Seconda Intifada, tutte le speranze si sono infrante e io sono andato via».
Oggi, dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la pace sembra incredibilmente lontana.
«La cosa che mi fa più rabbia è che una massa di precipitosi incompetenti come quelli scelti da Trump sta infiammando inutilmente le tensioni, portando Israele, i palestinesi e tutto il Medio Oriente verso il disastro.
Tutto per una scelta assolutamente simbolica e per nulla concreta. Il che, unito ai piani di questa amministrazione americana con i sauditi, innescherà presto un catastrofico effetto domino nella regione. Stanno bruciando in pochi giorni gli ultimi vent’anni di fragili sforzi per la pace».
Ma l’Amministrazione Trump sostiene che questo è un primo passo verso un accordo più generale, e cita il cosiddetto “piano di pace Kushner”.
«Trump, nel caso dell’ambasciata, si rivolge soltanto a una sua base specifica, come gli evangelici americani. Per il resto, lo abbiamo visto anche nell’uscita dall’accordo nucleare con l’Iran, Trump gioca con il fuoco e questo è la perfetta conseguenza del mix di astio e ignoranza che lo contraddistingue. La mossa di spostare l’ambasciata a Gerusalemme non è un’assurdità in sé: dico solo che se Trump tenesse davvero a Israele e alla pace avrebbe inserito questa mossa nel contesto dei negoziati di pace. Invece, niente, i colloqui sono morti oramai».
E Netanyahu?
«Lui è il partner ideale di Trump, perché a differenza sua è scaltro e razionale, ha un piano per mantenere il potere e lo status quo. Il problema è che questo status quo è insostenibile e la posizione del primo ministro israeliano è ridicola e stupida. Con Trump e Netanyahu non c’è futuro, abbiamo oramai perso persino la sua nozione, spesso legata alla speranza. Viviamo soltanto in un terribile presente».
Lei crede ancora nella pace?
«E qual è l’alternativa? È sempre più lontana e nessuno ci crede più, lo so, ma due decenni fa era lì, stava diventando realtà. Vivere a Gerusalemme ti fa capire come due popoli possano coesistere in due mondi diversi nonostante condividano lo stesso spazio fisico. Ma, contemporaneamente, a Gerusalemme capisci che quando esplode la violenza, questa coinvolge tutti, israeliani e palestinesi, e che dunque c’è pace solo se vincono entrambi i popoli, non solo uno. Anche per questo credo che la soluzione dei due Stati sia tuttora l’unica possibile, anche dopo lo spostamento dell’ambasciata. Oggi dovremmo essere a festeggiare la meravigliosa vittoria di Israele all’Eurovision, invece contiamo i morti di Gaza uccisi al confine, mentre l’antisemitismo nel mondo cresce paurosamente».

Repubblica 16.5.18
Le proteste per la sede diplomatica Usa a Gerusalemme
Morire a otto mesi il destino di Leila nella strage di Gaza
Soffocata dai lacrimogeni. Otto ragazzi morti al confine con Israele
di Marco Ansaldo


GERUSALEMME Si muore anche all’età di 8 mesi a Gaza. Come la piccola Leila, riccioli biondi, soffocata dai gas lacrimogeni vicino alla barriera di separazione con Israele. Per responsabilità degli uni o idiozia degli altri ora poco importa. Quando sua madre, vicina al movimento Hamas, è uscita per manifestare contro l’occupazione della Striscia, a casa la piccola ha cominciato a piangere, a lungo. Lo zio ha deciso di portarla dalla mamma. E Leila al- Ghandour, inalando i fumi tossici nel campo della mattanza che è diventata in questi giorni l’enclave, è spirata ed è stata subito sepolta.
Non è l’unica minore, purtroppo, dei due giorni di caos sulla Striscia che ieri hanno alzato la conta dei morti a 63. Almeno 8 sono bambini, ragazzi, uno di 12 anni e tutti gli altri di 16. Vittime di un confronto che ieri si è allargato pericolosamente alla Cisgiordania. Mentre i caccia israeliani attaccavano sull’enclave postazioni di Hamas — l’organizzazione paga i manifestanti per partecipare, e dopo aiuta le famiglie dei morti — i suoi leader hanno lanciato un appello a «una nuova intifada, araba e islamica ». Gli scontri sono così cominciati in molte città, nel momento in cui a Gaza venivano celebrati i funerali. La giornata della Nakba, cioè la “ catastrofe”, anniversario del colossale esodo di 700 mila arabi dopo la fondazione dello Stato ebraico nel 1948, ha visto manifestazioni a Betlemme e Ramallah, con scontri a Hebron, Nablus e al checkpoint di Qalandiya. Gerusalemme Est per ora è stata risparmiata, ma l’atmosfera della parte araba è spettrale, per la serrata dei negozi e il giorno di lutto.
Una tensione che per l’intera giornata si è riflessa sul fronte diplomatico, con una vera e propria crisi fra Israele e Turchia. Ankara, attivissima sul fronte internazionale, è stata la più veloce a reagire fra i Paesi musulmani. Come nei mesi scorsi, quando dopo la decisione di Donald Trump di aprire l’ambasciata Usa a Gerusalemme, il presidente Recep Tayyip Erdogan si era fatto ricevere da Papa Francesco, ergendosi a rappresentante del mondo islamico. Ieri il leader turco ha deciso di richiamare i suoi ambasciatori a Washington e Tel Aviv « per consultazioni » . Poi ha espulso da Ankara il rappresentante diplomatico israeliano. « Sarebbe appropriato — recitava la formula del ministero degli Esteri turco — che tornasse nel suo Paese per un po’ di tempo » . Poche ore dopo, la risposta israeliana, con la simmetrica cacciata del console turco da Gerusalemme.
Parole forti sono allora volate ancora una volta fra Erdogan e Benjamin Netanyahu («terrorista», «macellaio », si erano detti qualche mese fa). Ieri il capo di Stato turco ha alzato il tiro: « Netanyahu è il primo ministro di uno Stato di apartheid che ha occupato la terra di un popolo indifeso per più di 60 anni, violando le risoluzioni delle Nazioni Unite. Ha le mani sporche del sangue dei palestinesi e non può nascondere i suoi crimini attaccando la Turchia. Netanyahu, vuoi una lezione di umanità? Leggi i 10 comandamenti». E il premier israeliano non si è fatto pregare nel rispondere: «Erdogan è fra i maggiori sostenitori di Hamas e di conseguenza non c’è dubbio che sia un grande intenditore di terrorismo e di stragi. Gli suggerisco di non farci prediche morali » . Il Sultano ha quindi proclamato tre giorni di lutto nazionale ad Ankara «per le vittime palestinesi » . Poi ha convocato per venerdì a Istanbul un vertice straordinario dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oic), di cui è presidente di turno. Il suo premier ha invitato i Paesi musulmani a rivedere le relazioni con Gerusalemme. In Turchia si vota il 24 giugno, e le critiche a Israele creano consenso nell’elettorato islamico conservatore.

Corriere 16.5.18
Gaza seppellisce i suoi 60 morti
Scontri, accuse, lacrime, il giorno del dolore
di Davide Frattini


Nel giorno della Nakba (l’esodo palestinese), del dolore per i 60 morti di Gaza e dei funerali, ancora scontri, ancora due vittime e accuse reciproche. Erdogan ritira l’ambasciatore: «Genocidio e terrorismo di Stato». E Israele: «Non ci dia lezioni». Proteste anche dall’Europa, mentre gli Usa mettono il veto all’inchiesta.
A bu Mohammed sta seduto a casa e aspetta di essere chiamato. Sperando che non succeda, sapendo che succederà. Al buio perché l’elettricità a Gaza più va che viene, al buio perché è stanco delle luci fluorescenti negli obitori. Da 45 anni ripete gli stessi gesti, da quando ha deciso di volersi dedicare ai morti. Le mani ancora forti diventano delicate mentre avvolge i corpi nel lenzuolo di lino bianco.
In queste sei settimane di proteste ha preparato per la sepoltura — senza detergerli «perché gli ammazzati devono raggiungere Dio con il loro sangue» — tanti dei palestinesi uccisi, i caduti sono 108, oltre 60 solo lunedì. Racconta di aver partecipato ai cortei della Grande marcia del ritorno, lui che è 9 anni più vecchio dello Stato d’Israele, arrivato al campo rifugiati di Jabalya da bambino, la famiglia è originaria di Ashdod, pochi chilometri più a nord sulla costa. Dall’altra parte di quella barriera che i dimostranti hanno cercato di abbattere e l’esercito israeliano — come aveva minacciato Avigdor Liberman, il ministro della Difesa — «ha protetto con ogni mezzo», i tiratori scelti appostati sui terrapieni.
Ieri avrebbe dovuto essere la giornata più importante, i palestinesi commemorano la Nakba, la catastrofe, così chiamano la nascita di Israele settant’anni fa, quando Abu Mohammed ha dovuto lasciare il suo villaggio. È stata invece la giornata dei funerali, poche centinaia di persone arrivano agli accampamenti vicino al confine, dove gli elettricisti smontano gli altoparlanti che in questi giorni hanno incitato i gruppi a marciare contro il reticolato. Ma ieri ci sono stati comunque due morti e il presidio va avanti. La prossima data chiave dovrebbe essere il 5 giugno: lo stesso giorno del 1967 gli israeliani hanno catturato la Striscia allora controllata dagli egiziani.
Adesso i tedeschi e i britannici pretendono «un’inchiesta indipendente». La stessa richiesta al Consiglio di sicurezza dell’Onu è stata bloccata dal veto degli americani, che riconoscono agli israeliani «il diritto di difendere il loro confine». Le proteste di lunedì sono coincise con l’inaugurazione dell’ambasciata a Gerusalemme, Nikki Haley, l’ambasciatrice all’Onu, dice «non c’è nessun legame, Hamas incita alle violenze da anni». L’Autorità palestinese, che ormai non considera più la Casa Bianca un mediatore imparziale, ha così deciso di richiamare l’ambasciatore da Washington .
I portavoce dell’esercito rispondono alle accuse — Amnesty International ha definito «aberrante l’uso sproporzionato della forza militare contro civili disarmati» — spiegando che dei 60 palestinesi uccisi 14 stavano cercando di assaltare la barriera o lanciare molotov e ordigni improvvisati contro i soldati, altri 24 appartenevano alle brigate fondamentaliste: considerano Hamas responsabile e un ministro israeliano minaccia di eliminarne i capi. Riprendono le fonti mediche a Gaza per smentire che la piccola Layla, 9 mesi, sia morta dopo aver respirato i gas lacrimogeni, avrebbe avuto una malattia congenita.
Le violenze riaprono la frattura diplomatica tra Israele e la Turchia, che espelle l’ambasciatore da Ankara. Il governo di Benjamin Netanyahu risponde fermando le importazioni di prodotti agricoli turchi e rimandando a casa il console a Gerusalemme. Il battibecco è anche tra il presidente Erdogan che accusa gli israeliani di «terrorismo» e «genocidio» e il premier Netanyahu: «Non ci venga a dare lezioni di morale».
Che Guevara, come lo chiamano, è rimasto nella sua stanza a studiare gli scritti di Nelson Mandela perché i nove giorni in cella, i cappelli rasati dalla polizia non gli hanno tosato via la convinzione che il problema sia Hamas. Per questo non è andato alle manifestazioni e ha organizzato una rete che — assicura — raccoglie 11 mila giovani, lui di anni ne ha 25: «Non andiamo a farci ammazzare per i fondamentalisti — spiega Mohammed al Tauli, il suo vero nome —. Sono responsabili della miseria in cui viviamo» .

il manifesto 16.5.18
Territori Occupati, è sciopero generale
Negozi chiusi nella Città Vecchia di Nablus per lo sciopero generale


Decine di feriti e di arresti: anche in Cisgiordania e a Gerusalemme est ieri è stata giornata di tensione. L’Olp aveva chiamato allo sciopero generale, rispettato in tutti i Territori Occupati: scuole, uffici pubblici e negozi sono rimasti chiusi, mentre migliaia di persone manifestavano nelle piazze di Ramallah, Hebron, Nablus, Betlemme. Alle 12 ha suonato la sirena, a commemorazione della Nakba e della strage a Gaza di lunedì.
Manifestazioni anche nelle comunità palestinesi in Israele, nel Naqab, ad Haifa, Wadi Ara. E oggi, su proposta dell’Alto Comitato per i cittadini arabi di Israele, sarà sciopero generale tra i palestinesi cittadini israeliani.
A Umm al-Fahem era presente il deputato palestinese Ayman Odeh, leader della Lista araba unita: «Mentre bevono champagne a Gerusalemme e celebrano ‘l’accettazione dell’altro’ in Piazza Rabin, dei genitori perdono i loro figli. Dobbiamo fornire un’alternativa morale a chi nell’attuale governo incita alla violenza».

il manifesto 16.5.18
Nakba, la catastrofe infinita
di Tommaso Di Francesco


I settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo sembiante, altro che il nostro sangue».
Invece sulla descrizione in atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».
Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul «diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva di Stato ebraico.
Ai palestinesi al contrario è permesso solo di vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel ghetto della Striscia di Gaza. Questa è la condizione palestinese, con il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane; lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina. Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato». E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e tecnologia, e con patti militari – come l’Italia – con Israele, che è da settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.
Allora o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti – come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste – oppure sarà troppo tardi. Il nodo mai sciolto – Rabin a parte, non a caso assassinato da un integralista ebreo – da tutti i governi israeliani resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato, fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano. Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche. O si avvia una trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.
Scriveva Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere». Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo del 1949 Khirbet Khiza – significativamente un titolo in arabo, conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle basi etiche del nuovo Stato – racconta la storia di una brigata dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi.
Il romanzo finisce con queste parole di dolore e rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (…) Finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».

il manifesto 16.5.18
Leila, simbolo del dolore di Gaza
Gaza. I genitori di Leila Ghandur, la bimba di otto mesi soffocata lunedì dai gas lacrimogeni, negano di aver portato la figlia sotto le barriere con Israele. Ieri, giorno della Nakba, altri due palestinesi uccisi dall'esercito israeliano mentre Gaza piange ancora le 60 vittime della strage di lunedì
di Michele Giorgio


GAZA Il dolore muto di Anwar Ghandur contrasta con il clamore e lo sdegno che ha ‎suscitato nel mondo la morte della figlioletta di otto mesi, Leila, soffocata lunedì ‎dai gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani. Sotto la tenda del lutto nel ‎quartiere di Zeitun, a Gaza city, siedono parenti e amici. Si alzano tutti in piedi per ‎stringere la mano a chi porta vicinanza e condoglianze. Un ragazzo serve ai ‎presenti caffè amaro. Anwar ha 27 anni e il volto di un adolescente. Sua moglie ‎Maryam ne ha appena 19. ‎«È stato un colpo duro, per me e soprattutto per mia ‎moglie» dice ‎«già un anno fa avevamo perduto il nostro primo bimbo, Salim, di ‎un anno. La sera si era addormentato tranquillo ma non si è più svegliato, è morto ‎nel sonno». Arrivano altre persone, tra queste Jamal Khudari, fino a qualche anno ‎fa presidente del Comitato contro l’assedio di Gaza. Anwar va a salutarlo. Una ‎stretta di mano veloce, Khudari sussurra qualche parola di conforto. Il giovane ‎padre torna da noi. ‎«Maryam aveva ritrovato la serenità quando ha partorito Leila. ‎Abbiamo perduto anche lei e mia moglie è devastata». La giovane mamma resta in ‎casa, non solo per la tradizione che separa i sessi nelle occasioni pubbliche di ‎lutto. Semplicemente non ce la fa a parlare, ci spiega Anwar.
 Sui social infuria lo scontro ‎tra chi denuncia l’orribile morte di una bimba a ‎causa dei lacrimogeni e chi difende Israele sempre e comunque, contro ogni ‎evidenza, non mancando di accusare i Ghandur di imprudenza se non addirittura ‎di aver lucidamente portato la figlia fino alle barriere di demarcazione, sotto il ‎fuoco dei soldati isreliani e nel fumo dei lacrimogeni per provocarne la morte e ‎mettere sotto accusa Israele. Anwar non sa di questa insana battaglia in internet. Le ‎ultime ore le ha passate a piangere Leila e a confortare la moglie. ‎«La mia bimba ‎era molto lontana dalle barriere» ci racconta ‎«era con la mamma, la nonna e la zia ‎in una tenda (ad est di Shajayie,ndr) dell’accampamento». Tutto è accaduto in ‎pochi attimi. ‎«Mia moglie – prosegue – mi ha detto che ad un certo punto sopra ed ‎intorno alla tenda sono caduti diversi candelotti lacrimogeni sganciati da un drone ‎israeliano. La tenda è stata avvolta in una nuvola di fumo, sono scappate ma Leila ‎nel frattempo aveva inalato molto gas. Ha perduto i sensi subito, all’ospedale è ‎arrivata morta». Per Israele e la descrizione che ne danno molti mezzi ‎d’informazione gli accampamenti di tende eretti per la “Grande Marcia del ‎Ritorno” cominciata il 30 marzo nella fascia orientale di Gaza non sarebbero altro ‎che delle “basi di lancio” di attacchi alle barriere e di preparazione di attentati. ‎Piuttosto sono punti di riunione per migliaia di civili, per le famiglie, situati a ‎parecchie centinaia di metri dalle recinzioni. In alcuni di essi spesso organizzati ‎momenti di intrattenimento e dibattiti.
Ciò che non viene riferito a sufficienza è ‎che l’esercito israeliano ha a disposizione nuovi “mezzi di dispersione” delle ‎manifestazioni, come i cannoncini che sparano in pochi secondi decine di ‎candelotti a grande distanza e anche droni che dall’alto sganciano i lacrimogeni ‎sui ‎manifestanti che si avvicinano alle barriere e anche su quelli fermi molto più ‎indietro. Proprio i lacrimogeni sparati da un drone hanno provocato la morte di ‎Leila, secondo il racconto che ci ha fatto il padre. Le autorità di Gaza hanno aperto ‎una indagine per accertare le cause della morte della bimba. Così come quella di ‎altri otto ragazzi, con meno di 16 anni, che figurano tra le 60 vittime della strage di ‎lunedì.‎
 L’accampamento di Abu Safieh a Est di Jabaliya ieri ha cominciato ad ‎affollarsi dopo le 15. E così tutti gli altri lungo la fascia orientale di Gaza. Si ‎diceva che dopo il massacro avvenuto il giorno prima, i palestinesi sarebbero ‎rimasti a casa, per paura e per il lutto. Ma il 15 maggio, il giorno della Nakba, la ‎‎”catastrofe” del 1948 e i suoi profughi ancora in esilio e ai quali Israele non ‎permette il ritorno, sono motivi che più di altri spingono i palestinesi in qualsiasi ‎punto del pianeta a ricordare e a protestare. ‎«Gli israeliani dovranno ucciderci tutti ‎ma non ci arrendiamo, non ci faranno dimenticare i nostri diritti», ci dice Husan al ‎Sheikh, parente di una delle vittime di lunedì. ‎«Siamo qui per dire che non ‎accetteremo un’altra Nakba», aggiunge. Il fuoco dei soldati israeliani ieri ha fatto ‎nuove vittime: un uomo di 51 anni e un giovane. I feriti sono stati oltre 250.
 Ghassan Abu Sitta è un chirurgo ortopedico di origine palestinese che lavora ‎nel più prestigioso e meglio attrezzato degli ospedali libanesi, quello che fa capo ‎all’università americana. A fine mese guadagna quanto gli stipendi messi insieme ‎di una dozzina di colleghi di Gaza. Però non dimentica la sua terra e tutte le volte ‎che può corre a Gaza da volontario. ‎«Questa è la mia gente, ogni palestinese ha il ‎dovere di dare un contributo, siamo ad un momento di svolta. Israele e gli Usa ‎vogliono cancellare la questione palestinese». In questi giorni Abu Sitta è ‎impegnato all’ospedale al Awda nel nord di Gaza. ‎«L’afflusso di feriti è ‎incessante» ci dice il chirurgo ‎«e il tipo di ferite mi sconvolge, perché questi ‎proiettili si spezzano quando entrano nel corpo e i frammenti corrono verso punti ‎diversi distruggendo vasi sanguigni, muscoli, ossa. Ad un paziente ho estretto ‎pezzi di uno stesso proettile nelle gambe, nei genitali e nell’addome. Con i miei ‎colleghi facciamo il possibile ma tanti di questi feriti saranno disabili per sempre». ‎Mentre torniamo verso Gaza city, scorgiamo nelle strade più affollate alcuni ‎giovani con una gamba fasciata che avanzano lentamente aiutondosi con le ‎stampelle. Altri con un braccio fasciato e legato al collo. Ne contiamo nove fino ‎all’arrivo. Sono solo una frazione delle migliaia di feriti di queste ultime ‎settimane. I funerali che ieri hanno attraversato Gaza si sono portati via per sempre ‎di giovani e ragazzi, i disabili ci ricorderanno per anni l’orrore di questi giorni. ‎

Il Fatto 16.5.18
Feste e pallottole, Bibi ride ma perde la sfida mediatica
The day after - La strage dei palestinesi al confine ha conseguenze diplomatiche per Tel Aviv, espulsioni di ambasciatori con la Turchia
di Fabio Scuto


Si piangono i morti nelle strade di Gaza e si spara ancora lungo la Barriera di confine. In qualche migliaio sono tornati ieri a sfidare i cecchini israeliani appostati lungo tutta la frontiera, certamente non era la folla di lunedì. Due palestinesi sono stati uccisi lungo il confine, 250 feriti. La strage dei manifestanti – 60 morti ieri, fra loro sette minorenni e una ragazzina di otto mesi soffocata dai gas lacrimogeni – ha lasciato scioccati anche gli abitanti di Gaza, che pure negli ultimi dieci anni hanno conosciuto quattro guerre. Non tutti erano civili inermi – accusa Israele – 24 morti erano miliziani delle Brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas.
Nel giorno della Nakba, sono scesi in piazza anche i palestinesi della Cisgiordania, freddi nelle settimane passate nei confronti delle proteste a Gaza. Manifestazioni e scontri ci sono stati a macchia d’olio, a Betlemme, a Ramallah, Hebron, Nablus e Jenin. Nella Striscia è anche il momento dell’emergenza per gli ospedali. I 2.700 feriti di ieri hanno svuotato le farmacie degli ospedali, mancano 75 tipi di medicinali e 190 tipi di dispositivi monouso per assistere i feriti.
La mattanza di Gaza e l’uso sproporzionato della forza contro i manifestanti hanno provocato anche una tempesta diplomatica. Quando un esercito moderno, sofisticato e ben armato come l’Idf affronta masse di civili disarmate con aquiloni e pietre la débâcle mediatica e diplomatica è certa. Turchia e Sudafrica hanno ritirato ieri il loro ambasciatore – e quello israeliano nei due Paesi è stato invitato a partire – l’Irlanda e il Belgio hanno convocato i diplomatici dello Stato ebraico per chiarimenti. L’Italia, sollecitata da 40 Ong che operano nei Territori palestinesi a condannare l’accaduto, non è ancora pervenuta. Parole dure sono state espresse invece da Gran Bretagna e Francia, persino dalla Germania che è il miglior alleato di Israele in Europa. La battaglia, dalle sabbie della Striscia di Gaza, si è allargata anche ai corridoi del Palazzo di Vetro a New York, dove ieri il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha rispettato un minuto di silenzio in ricordo delle vittime palestinesi. L’inviato di pace dell’Onu per il Medio Oriente, Nikolay Mladenov, riferendo sugli scontri ai 15 membri del Consiglio, ha affermato che “non ci sono giustificazioni” per le violenze che si sono consumate. “La comunità internazionale deve intervenire e prevenire una guerra”, ha aggiunto definendo la situazione nella Striscia “disperata”. Il Kuwait – membro non permanente del Consiglio di Sicurezza – sta redigendo una risoluzione per “fornire protezione internazionale ai civili palestinesi” che dovrebbe andare in votazione oggi.
Sarà certamente bloccata dal veto degli Usa, che ieri per voce dell’ambasciatrice Nikki Haley hanno sostenuto che “lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme è un riconoscimento dello stato di fatto” e che “Israele ha usato moderazione nel difendersi dalle masse palestinesi”.
Sia che si accetti la narrativa palestinese di masse affamate che dimostrano per dignità, sia la versione israeliana di un cinico sfruttamento di Hamas di vite umane come copertura per intenti omicidi, non c’è dubbio che il numero dei morti abbia rovinato la festa a Benjamin Netanyahu e Donald Trump. Più le vittime a Gaza salivano, più gli ospiti alla festa della nuova ambasciata americana a Gerusalemme sembravano arroganti, distaccati e privi di compassione. Tutto questo probabilmente non disturba affatto Netanyahu. Il primo ministro israeliano sta cavalcando un’ondata di sostegno pubblico senza precedenti per quello che è visto come un inarrestabile flusso di successi, dalla decisione di Trump di abbandonare l’accordo nucleare iraniano fino alla vittoria della cantante Netta Barzilai nella gara dell’Eurovision di sabato scorso.

Corriere 16.5.18
I simboli
L’illusione di scrivere la storia
di Khaled Diab


«Ricordatevi di questo momento, stiamo scrivendo la storia». Con queste parole il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accolto il pubblico di politici e funzionari che ha assistito all’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme, mentre a meno di cento chilometri di distanza i cecchini israeliani colpivano a morte decine di palestinesi disarmati che protestavano a Gaza, ferendone altre centinaia. «Presidente Trump, nel riconoscere la realtà della storia, lei ha scritto la storia».
Evidentemente Netanyahu ha fissato l’asticella della storia molto in basso. Donald Trump si è limitato a far installare una nuova targa con sopra scritto «ambasciata» al consolato americano di Arnona, a Gerusalemme Ovest, farla svelare dalla figlia Ivanka e — voilà! — «la storia» è fatta.
Il modus operandi ricorda da vicino le tecniche di Trump in veste di imprenditore: sbatti giù un cartello con il tuo nome su un grattacielo o un casinò, e subito creerai l’illusione, come fanno i prestigiatori, di aver operato un cambiamento. Con Trump, che si tratti di affari o di politica, è solo una questione di marchio.
L’illusione che Trump abbia scritto la storia è alimentata non solo dai suoi sostenitori, ma anche dai suoi avversari. Questo è dovuto in parte al fatto che «The Donald» è un uomo pericolosamente irresponsabile, e irresponsabilmente pericoloso, ma anche al fatto che offre ai suoi predecessori l’occasione unica di mascherare i propri fallimenti scaricandoli su di lui. Ma non era Trump il presidente americano che è rimasto a guardare mentre Israele si annetteva la città vecchia di Gerusalemme, assieme a larga parte della Cisgiordania, per farne la propria capitale. Né la costruzione degli insediamenti né quella del muro, né la demolizione delle case dei palestinesi e l’espulsione dei suoi abitanti a Gerusalemme Est sono iniziati sotto gli occhi di Trump. Non dimentichiamo inoltre che gli Usa hanno riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele da un quarto di secolo, dal Jerusalem Embassy Act del ’95. Pertanto il gesto di Trump non rappresenta una notizia.
Questo spiega come mai l’inaugurazione dell’ambasciata Usa non abbia sollevato particolari reazioni da parte degli abitanti palestinesi della città, non per indifferenza davanti alla loro tragica situazione, quanto piuttosto perché questo simbolo minore non va a incidere, se non in modo simbolico, sullo stato di fatto.
Persino quella che è stata definita la Grande marcia del ritorno a Gaza, per commemorare sette decenni di espropriazione e oppressione, anche se è stata rifocalizzata su Gerusalemme questa settimana, riguarda solo visivamente e simbolicamente la Città santa. Le manifestazioni di lunedì, durante le quali gli israeliani hanno ucciso 60 palestinesi disarmati e ferito altre centinaia, avevano come obiettivo il blocco israeliano di Gaza e le indicibili sofferenze da esso causate alla popolazione palestinese. Ed è questo massacro di manifestanti e l’incarcerazione di un intero popolo che dovrebbero essere oggetto della nostra indignazione.
Mentre il trasferimento dell’ambasciata non cambia nulla di sostanziale, la presenza di Donald Trump alla Casa Bianca e la fine della finzione che l’America possa ergersi a mediatore della crisi, tantomeno a mediatore imparziale, hanno galvanizzato il governo di estrema destra e i suoi sostenitori in Israele, che si sentivano le mani legate sotto il suo predecessore.
Malgrado tutto, persino durante queste ore oscure e travagliate, molti palestinesi di Gerusalemme si aggrappano a uno spiraglio di speranza, che li risollevi dalla disperazione in cui vivono.
«Abbiate speranza, e fiducia, non nei governi, ma nella gente», auspica dalla sua pagina Facebook Mahmoud Muna, della celebre libreria Educational Bookshop a Gerusalemme Est. «La nostra libertà non aspetta il permesso da nessuno, arriverà senza bussare alla porta, e un giorno sarà qui».
Da anni invoco anch’io la pace tra i popoli da raggiungere attraverso la lotta per i diritti civili e l’uguaglianza, perché la soluzione dei due stati è stata ormai scartata e l’America non porterà certo la fine del conflitto, il governo israeliano non porterà la pace e né Fatah né Hamas porteranno la pace. Porteranno la pace solo coloro che amano la pace in Israele e in Palestina, quando sapranno unire le loro forze. Solo allora ci sarà una possibilità.
(traduzione di Rita Baldassarre)

Il Fatto 16.5.18
Il senso di Hamas per il confine col filo spinato
Non solo rabbia - Tattiche studiate e modificate in otto settimane per sfondare la barriera
di Valerio Cattano


Sassi contro carabine non è mai uno scontro equo. Ma pensare che i cortei di protesta in occasione delle “Marce del ritorno” sponsorizzate da Hamas – organizzazione che Unione europea, Stati Uniti, Canada, Egitto, Giappone e, manco a dirlo, Israele considerano terrorista, al contrario di altre nazioni come Iran, Qatar, Russia, Cina, Norvegia – siano state mere manifestazioni di rabbia spontanea, sarebbe un errore.
Una delle tesi è che i dirigenti di Hamas abbiano pianificato nel dettaglio la rivolta, modificando le attività di avvicinamento al confine con Israele ogni venerdì per portarle al culmine nello scontro del 14 maggio, quello più sanguinoso. A evidenziare questo particolare è stato il Jerusalem Post che ha sfruttato proprie fonti sul campo. I leader palestinesi sapevano che Israele avrebbe reagito sparando? Di certo erano stati avvisati, ma una risposta affermativa significherebbe che in nome della lotta politica Hamas ha mandato al massacro degli inermi, e su questo non vi possono essere certezze.
I fatti però evidenziano un crescendo nelle manovre per sfondare la barriera, eventualità che Tel Aviv vive come un incubo. Le otto settimane in cui ogni venerdì si è svolta una “Marcia del ritorno” mostrano una sequenza: il 6 aprile i manifestanti iniziano a incendiare copertoni per coprire il confine di fumo nero; poi è stata la volta degli aquiloni – alcuni con le svastiche – per incendiare i campi israeliani; il 27 aprile viene abbattuta una porzione di recinzione del confine. Hamas non lascia nulla al caso: i protagonisti delle proteste vengono portati al confine con i bus dell’organizzazione; a centinaia di metri dalla barriera del confine si montano le tende sanitarie per curare i feriti, e gli spazi per le famiglie e le aree di preghiera. Ci sono persone addette alla vendita di cibo, e chi si unisce alla protesta mangia prima di diventare shahid, ovvero un “martire al fronte”.
In queste aree, prima che inizino gli scontri con l’esercito israeliano si presentano al mattino i leader di Hamas che tengono discorsi incitando alla rivolta.
C’è poi la fase vera e propria dell’assalto alla barriera: un compito affidato ai più giovani che utilizzano tronchesi per rompere il filo spinato. A separare i palestinesi di Gaza dal confine c’è una zona-cuscinetto: Hamas manda i ragazzi in quel settore sebbene Israele già da marzo aveva avvisato che chiunque si sarebbe avvicinato alla zona sarebbe stato colpito. I leader del movimento coordinano queste azioni da posizioni privilegiate o con rapidi spostamenti in moto: non appena si intravede un punto debole, i capi di Hamas spediscono le squadre che si buttano sul filo spinato come soldati nella prima guerra mondiale per sfondare le linee nemiche. Perchè questo è l’obiettivo dichiarato, come ha raccontato Joe Dyke, il corrispondente dell’Afp a Gaza in un articolo uscito giovedì scorso: “I dirigenti di Hamas nel briefing con i media stranieri dicono che martedì migliaia di palestinesi sfonderanno il muro di confine”. È finita come il mondo ha visto.

il manifesto 16.5.18
Ankara e Tel Aviv si cacciano a vicenda gli ambasciatori
Gaza. Scontro diplomatico tra Turchia e Israele. La Gran Bretagna chiede l'apertura di un'indagine indipendente, la Lega araba fa appello alla Corte Penale: ora inchiesta sui crimini dell'occupazione
di Chiara Cruciati


Un minuto di silenzio per le vittime palestinesi di lunedì: così si è aperto, in modo piuttosto insolito, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Se lunedì gli Stati uniti avevano prontamente posto il veto alla richiesta di indagine indipendente sui fatti di Gaza, ieri il Consiglio ha discusso la bozza di risoluzione del Kuwait che chiede «protezione internazionale per i civili palestinesi».
Mentre in tutta la Palestina storica scioperi generali e manifestazioni commemoravano la Nakba e il massacro di lunedì, al Palazzo di Vetro Israele riproponeva la propria narrativa: «Non sono manifestanti, hanno esplosivi – ha detto l’ambasciatore Danon – Ogni vittima è una vittima di crimini di guerra di Hamas».
Identica la posizione Usa: per l’ambasciatrice Nikki Haley (che con «eleganza» ha lasciato il meeting quando ha parlato il rappresentante palestinese Riad Mansour), «nessun altro paese avrebbe potuto usare più moderazione di Israele». Risponde il presidente palestinese Abu Mazen: ieri sera ha richiamato il suo rappresentante negli Stati uniti.
Condanne però sono giunte anche da alleati storici di Israele: la Gran Bretagna ha chiesto un’inchiesta dell’Onu e l’allentamento delle restrizioni al movimento imposte dalle autorità israeliane sulla popolazione palestinese; la Francia ha avvertito del pericolo di una guerra scatenata da «un ingiustificato livello di violenza» da parte israeliana.
Dura la reazione del Belgio, che ieri ha convocato l’ambasciatrice israeliana, ma soprattutto del Sudafrica (dove ieri in migliaia hanno manifestato in solidarietà con la Palestina) che ha ritirato l’ambasciatore in Israele.
E poi c’è la Turchia: il governo di Ankara ha prima ritirato i propri rappresentanti diplomatici da Washington e Tel Aviv e poi invitato quello israeliano ad andarsene «temporaneamente» da Ankara. La risposta israeliana è arrivata a stretto giro: il console turco è stato espulso e il ministro dell’agricoltura Ariel ha sospeso le importazioni di beni agricoli dalla Turchia.
Si fa viva la Lega Araba con un appello alla Corte Penale internazionale a indagare «i crimini dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese». La Corte risponde: il procuratore Bensouda fa sapere che prenderà «tutte le misure appropriate» e che sta già esaminando «tutti i presunti crimini e le eventuali responsabilità».

Il Sole 16.5.18
Medio Oriente. Condanna e critiche dalla Francia mentre la Turchia espelle l’ambasciatore
Gaza, gli alleati Usa contro l’azione d’Israele
di Roberto Bongorni


Ieri è stato il giorno del lutto. I palestinesi di Gaza hanno seppellito i loro 60 morti (tra cui 8 adolescenti e una bimba di 8 mesi morta per i gas lacrimogeni ), uccisi venerdì dalle forze israeliane durante una violenta manifestazione contro l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.
Le proteste - molto più contenute - sono continuate ieri. Altri due dimostranti palestinesi sono stati uccisi. I Paesi europei hanno condannato - senza toni troppo forti - l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele, esprimendo la loro preoccupazione. Il ministro francese degli Esteri ha parlato di «violenza inaccettabile» da parte di Israele, mentre la premier britannica Theresa May ha definito i fatti di Gaza «tragici». Ma, al pari del cancelliere tedesco Angela Merkel, anche il presidente francese Emmanuel Macron ha ammesso il diritto di Israele a difendersi, seppur con moderazione. Belgio e Irlanda hanno richiamato gli ambasciatori di Israele. Durante una riunione di emergenza al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, gli Usa hanno bloccato una risoluzione di condanna che chiedeva un’indagine indipendente sui fatti di Gaza, risoluzione su cui però insistono molti paesi, arabi ma anche europei, tra cui Gran Bretagna e Germania.
Ma lo scontro diplomatico più duro è stato ancora una volta quello tra Turchia e Israele. L’ambasciatore israeliano è stato convocato al ministero degli Affari esteri turco, che gli ha chiesto di lasciare il paese. Iniziativa a cui è seguita un’analoga richiesta del Governo israeliano al console turco. Lunedì il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, aveva aperto le “ostilità”: «Israele è uno Stato terrorista che sta compiendo un genocidio». Dura la replica, ieri, del premier israeliano Benjamin Netanyahu: «Erdogan è fra i maggiori sostenitori di Hamas e di conseguenza non c’è dubbio che sia un grande intenditore di terrorismo e di stragi. Gli suggerisco di non farci prediche morali». Un botta e risposta a cui è seguito un tweet di Erdogan: «Netanyahu è il primo ministro di una Stato di apartheid che ha occupato la terra di un popolo indifeso per più di 60 anni, in violazione delle risoluzioni dell’Onu. Ha le mani sporche del sangue dei palestinesi e non può nascondere i suoi crimini attaccando la Turchia». Quella tra Turchia e Israele, un tempo alleati, è la storia di una relazione difficile, costellata di crisi, tiepidi riavvicinamenti, e nuove crisi. Erdogan è da tempo ai ferri corti anche con gli Stati Uniti. Dopo averli accusati di essere «corresponsabili» per i fatti di Gaza, il Governo turco ha richiamato il proprio ambasciatore per consultazioni.
Ma gli Usa sono irremovibili. Nikki Haley, ambasciatore americano all’Onu, ha precisato: «Spostare l’ambasciata era la cosa giusta da fare», aggiungendo: «In questa stanza nessun Paese agirebbe con più moderazione di Israele».

Il Fatto 16.5.18
“L’Europa si opponga agli Usa o dimostrerà di non esistere”
Massimo D’Alema. L’ex ministro degli Esteri e la paralisi della Ue nei confronti della politica di Netanyahu e Trump in Medio Oriente
di Stefano Citati


Scontri? Non c’è stato nessuno scontro. È stato un barbaro eccidio di ragazzi disarmati. Da una parte c’è l’imperdonabile cinismo di Hamas che manda ragazzi al massacro, dall’altra soldati israeliani che prendono di mira anche i bambini e poi festeggiano postando su Facebook i video dei colpi andati a segno. Le notizie da Gaza sono orribili, e innanzitutto colpisce il modo con cui vengono date sui media. Ogni volta che si tratta di Israele scatta una forma di autocensura. Nutro rispetto e amicizia verso Israele: il paese di Amos Oz, di David Grossman, Yitzhak Rabin. Ci si domanda come si è potuti arrivare ad un tale punto di orrore; come abbia potuto prendere il sopravvento la classe dirigente di Lieberman e Netanyahu.
Come si è arrivati a questo punto? E perché le reazioni europee sono state a dir poco blande?
Prima di tutto, va considerato che qualsiasi altro Paese al mondo avesse fatto una cosa del genere sarebbe stato messo sotto accusa. Perché lo scopo dell’esercito è solo quello di umiliare e terrorizzare la popolazione di Gaza, non certo di difendere Israele. E dall’altra c’è la disperazione di un popolo usato come massa di manovra da Hamas.
Un’impasse insuperabile?
Bisogna innanzi tutto fermare questo massacro. È necessario che la comunità internazionale, l’Europa usino parole chiare. È una situazione senza via d’uscita: la politica israeliana, con l’appoggio degli Usa, ha spazzato via ogni possibilità di uno stato Palestinese. Mi domando se non bisogna anche smettere di ripetere ipocritamente la formula ‘Due popoli, due Stati’. Lo stato Palestinese non c’è più, è stato occupato, colonizzato. I territori palestinesi sono ormai come riserve indiane. Il vero problema che si pone è quello dei diritti umani e civili della popolazione. Uno Stato palestinese non c’è più, c’è solo uno scenario sudafricano, in cui i palestinesi vivono in una forma di apartheid. L’Europa pare non voler capire che questa situazione rappresenta una minaccia diretta: l’odio che Israele e Usa attirano verso tutto l’occidente potrà portare a nuove reclute per il terrorismo, a nuove ondate di rifugiati, e saremo noi europei a pagare il prezzo di questa ferita aperta. Sicurezza e sviluppo economico del nostro continente sono legati in modo vitale alla pacificazione del Medio Oriente.
Quella americana è strategia o soltanto disinteresse?
Invece di pacificare gli Usa, in tutto lo scenario Medio Orientale, soffiano sul fuoco, alimentano i conflitti, incoraggiano la politica aggressiva saudita e quella espansiva israeliana. Ma allarghiamo il quadro: l’Amministrazione Trump non solo è uscita dall’accordo nucleare con l’Iran, ma addirittura minaccia di colpire con sanzioni le aziende europee che commerciano con Teheran sulla base dell’accordo recepito da una risoluzione dell’Onu e approvato dagli stessi Usa. Il nostro più grande alleato minaccia di colpire le nostre aziende: è il punto più basso di affidabilità raggiunto da Washington, ed è la violazione dei principi. Ora, capisco che i diritti fondamentali non vadano più di moda, nonostante costituiscano il nostro patrimonio di idealità e valori, ma l’Unione europea è minacciata direttamente nei suoi interessi. In questo momento non bastano rituali appelli alla moderazione delle parti come detto dalla Mogherini. Se l’Europa non è in grado di reagire, vuol dire che non esiste più.
E dunque cosa dovrebbero fare i vertici di Bruxelles?
Hanno l’occasione fin dai prossimi giorni di dimostrare di contare ancora qualcosa. Facciamo un parallelo tra Medio Oriente e Corea del Nord: l’accordo sul nucleare con l’Iran è sotto controllo da parte dell’agenzia dell’Onu per il nucleare, l’Aiea; mentre l’impegno coreano è ancora tutto da verificare. Ciò nonostante, gli americani vogliono un cambio di regime a Teheran, ma non a PyongYang, che non mi pare più democratico degli ayatollah. Il perché di questa diversità di comportamento? Perché gli Usa rispettano la Cina molto più di quanto fanno con l’Europa.
Quali sono gli atout di Pechino che l’Europa potrebbe “copiare”?
Il regime di Pechino ha mosso le leve in suo possesso nello stile felpato che gli è caratteristico: per esempio invitando a pranzo Kim Jong-un e ricordandogli i costanti aiuti che la Corea del Nord riceve e grazie ai quali sopravvive. Come ha probabilmente fatto notare a Trump che detiene buona parte del debito pubblico americano. Una dimostrazione di leadership e visione. L’Europa è ancora potentissima, ma non vuole farsi rispettare; Israele vive dei rapporti anche commerciali con l’Europa e questo potere va usato con discrezione, ma fermezza. Se vogliamo difendere l’accordo sul nucleare e evitare che in Iran prenda il sopravvento la parte più conservatrice e fondamentalista, bisogna offrire al governo di Teheran una sponda per la realizzazione dell’accordo, soprattutto sul piano della cooperazione economica. L’Occidente deve smettere di essere oscillante. Questo atteggiamento che ha lasciato il campo alla Russia che appare sempre più come la potenza coerente e affidabile, capace di dialogare con Siria e Iran e, al contempo, di ricevere Netanyahu. Di fronte alle scelte sconcertanti di Trump tocca all’Europa recuperare un ruolo centrale.
Fino a pochi anni fa la questione palestinese era un caposaldo dei partiti e della società civile in Europa: perché questo tema si è completamente liquefatto?
La crescente percezione della minaccia islamica ha corroso il sostegno sulla questione palestinese, che è divenuto marginale. Ora si tratta di recuperare anche questa emergenza umanitaria; in passato l’Italia fu in grado di proporre un piano efficace per ridurre la tensione in Libano, mettendosi a capo di una missione internazionale; ora, per di più senza governo, non credo abbia più la stessa capacità di leadership, ma penso sia necessario proporre l’invio di una missione di osservatori internazionali a Gaza che permetta di fermare questa tragedia.

il manifesto 16.5.18
«Massacrato dai carabinieri»: la verità al processo Cucchi
Nove anni dopo la morte. Parlano i due testimoni in divisa, Riccardo e Maria, che nel frattempo si sono sposati
di Rachele Gonnelli


Due carabinieri, un uomo e una donna, condividono la consapevolezza di un segreto terribile: i loro superiori hanno massacrato di botte un giovane e scaricato la colpa del pestaggio sulla polizia penitenziaria, poi il ragazzo è morto. L’uomo e la donna sono estranei al massacro e parlandone si riconoscono nella reciproca umanità, alla fine si innamorano e si sposano. Ma non finisce come nelle favole. Vengono minacciati, insultati, impauriti affinché non parlino con quella sorella che continua imperterrita a esibire la foto del ragazzo pestato a morte, che non si dà per vinta davanti al potere in divisa che uccide sicuro di rimanere impunito.
È QUESTA LA NUOVA STORIA, un po’ rosa e molto nera, che è emersa ieri platealmente all’udienza per la morte di Stefano Cucchi, processo bis davanti alla I corte d’Assise del Tribunale di Roma che vede questa volta imputati non i poliziotti della penitenziaria, scagionati nel primo processo, ma cinque carabinieri allora in forza alla stazione di Tor Vergata, tre dei quali sono ora accusati di omicidio preterintenzionale. I due carabinieri che hanno testimoniato ieri contro i loro superiori di allora si chiamano Riccardo Casamassima e Maria Rosati e sono in effetti i due testimoni chiave che hanno consentito ai pm di riaprire il caso Cucchi.
«All’inizio la vicenda Cucchi non mi aveva coinvolto in prima persona – ha spiega Casamassima disfacendosi d’un colpo dell’aura di eroe – ma troppe cose fatte dai miei superiori non mi erano piaciute, come l’abitudine di falsificare i verbali e di coprire gli autori di illeciti. E vergognandomi di ciò che sentivo e vedevo, ho deciso di testimoniare». In realtà gli ci sono voluti anni di angherie e, si immagina, di notti insonni e tormentate. Ieri ha però deciso di «vuotare il sacco», come suol dirsi, di rompere una volta e per sempre la congiura del silenzio durata anni, la paura di ritorsioni, che del resto erano già state usate per metterlo alle strette, screditarlo, impedirgli di parlare ai magistrati.
QUELLA SERA di metà ottobre 2009 – ha raccontato – il maresciallo Roberto Mandolini entrò nella caserma di Tor Vergata, e prima di andare a rapporto dal comandante Enrico Mastronardi disse «che c’era stato un casino, un ragazzo era stato massacrato di botte dai ragazzi». Il ragazzo massacrato era il 32enne Stefano Cucchi, mentre per i massacratori il termine «ragazzi» sta ad indicare, spiega, che si trattava «dei nostri», carabinieri dunque. Questo sentì il carabiniere Casamassima. Poi Maria Rosati, all’epoca appuntato gli raccontò di una conversazione ascoltata da lei tra il comandante della stazione e il maresciallo Mandolini. «Maria – ha raccontato Riccardo Casamassima – mi rivelò che Mandolini e Mastronardi stavano cercando di scaricare le responsabilità dei carabinieri sulla polizia penitenziaria. Lei stava lì perché fungeva da autista del comandante e capì il nome “Cucchi” ma visto che la vicenda non era ancora nota, deduco che quando ci fu questo colloquio il ragazzo fosse ancora vivo».
Stefano morì il 22 ottobre 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo l’arresto e le botte. Casamassima ebbe poi un’ulteriore conferma di ciò che era successo parlando con il figlio del comandante Mastronardi, Sabatino, maresciallo anche lui e suo amico. «Sabatino venne in caserma, si portò la mano sulla testa e, parlando della morte di Cucchi, disse che non aveva mai visto una persona così messa male. Lo aveva visto la notte dell’arresto quando Cucchi venne portato a Tor Vergata».
ILARIA CUCCHI, dopo l’udienza, punta il dito senza più timore verso il maresciallo Mandolini. «è lui il principale responsabile – dice – e ricordo bene quando venne in aula nel primo processo, quello sbagliato, a raccontarci la storiella che quella era stata una serata piacevole e che Stefano era stato anche simpatico. Adesso è il processo giusto e si parla di pestaggio. Ogni volta in quest’aula ho la pelle d’oca».

Il Fatto 16.15.18
Cucchi, l’accusa ai carabinieri confermata da due colleghi
In aula Casamassima e la moglie, che hanno fatto riaprire il caso “Sentii il comandante dire: ‘I ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato”
di Antonella Mascali


Nessuna incertezza. Nessuna contraddizione. Hanno confermato le accuse i testimoni chiave del processo bis ai 5 carabinieri imputati, a vario titolo, per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre 2009, a pochi giorni dal suo arresto, la notte tra il 15 e il 16. Il maresciallo dei carabinieri Riccardo Casamassima e l’appuntato Maria Rosati hanno ribadito in aula di aver saputo del ragazzo “massacrato” e del tentativo di insabbiare tutto. A testimoniare per primo è stato il maresciallo. Incerto fino all’ultimo, tanto che la settimana scorsa in un’intervista al Fatto Quotidiano aveva detto di essere impaurito per le ritorsioni che stava subendo (diversi procedimenti disciplinari). Ad ascoltarlo c’era Roberto Mandolini, il maresciallo dei carabinieri imputato di calunnia e falso in atto pubblico (per aver falsificato, secondo l’accusa, il verbale sull’arresto e per aver scaricato il pestaggio sulla polizia giudiziaria). Finora non si era mai presentato in aula, così come i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale.
Casamassima ripete quanto verbalizzato nel maggio 2015: “Con il maresciallo Mandolini nell’ottobre 2009 ho avuto uno scambio di battute nella caserma di Tor Vergata. Era agitato, si mise le mani sulla fronte e mi disse ‘È successo un casino, i ragazzi hanno menato un arrestato”’. Nel 2015 aveva detto “massacrato”, ha ricordato il pm Giovanni Musarò e Casamassima ha confermato: “Massacrato”. Ha poi aggiunto che vide Mandolini andare verso l’ufficio del comandante, il maresciallo Enrico Mastronardi. Dopo, seppe da Maria Rosati che Bertolini era andato da Mastronardi per parlare di Stefano. “La mia attuale compagna, allora solo una collega, mi disse che Mastronardi aveva fatto il nome Cucchi e che le era rimasto impresso perché quando aveva lavorato al Nord (a Ortisei, ndr) “crucchi” era un termine dispregiativo.
Casamassima ha pure confermato di aver incontrato il maresciallo Sabatino Mastronardi, figlio del comandante, dopo la morte di Cucchi. Gli avrebbe detto: “Non ho mai visto una persona messa così male”. Inoltre, ha parlato di un incontro casuale con Mandolini nell’ottobre 2016, dopo averlo accusato: “Cercai di aiutarlo, gli consigliai di andare dal pm a dire le cose come andarono anche perché la procura stava avanti (aveva già in mano intercettazioni, ndr) e lui non aveva partecipato al pestaggio. E Mandolini mi rispose: ‘Il pm ce l’ha a morte con me’”. L’avvocato Naso, difensore di Mandolini ha provato a far cadere in contraddizione il teste, senza riuscirci: “Non siamo da Barbara D’Urso, questa è una cosa seria”, si è spazientito il legale e Casamassima: “Avvocato i miei arrestati sono tutti vivi, non morti”.
Subito dopo tocca a Maria Rosati, che fa una premessa: “Sono un carabiniere, confermerò sempre quello che ho detto”. Il giorno dopo l’arresto “in tarda mattinata mi trovavo a fare fotocopie di fronte all’ufficio del maresciallo Mastronardi che, per rispetto, chiamavamo ‘Il Cavaliere’. Per noi era un guru e io per lui ero come una figlia. Arrivò un uomo in borghese e mi fu presentato dal Cavaliere come il maresciallo Mandolini”. Mastronardi dopo averlo rassicurato che poteva parlare davanti alla Rosati disse, secondo la testimone: “I miei ragazzi hanno massacrato un ragazzo che si chiama Cucchi”. E Rosati conferma di ricordare quel cognome per via della storia dei crucchi. Sempre Mandolini, in corridoio, davanti a lei (prima di chiudersi nell’ufficio di Mastronardi) avrebbe aggiunto: “Il ragazzo non se lo vuole prendere nessuno” e Rosati ha dichiarato che si voleva scaricare su altri la responsabilità del pestaggio. Cosa che poi avvenne, tanto che sono stati accusati e poi prosciolti alcuni agenti della polizia penitenziaria. Rappresentati dall’avvocato Fabio Anselmo c’erano in aula i genitori di Stefano Cucchi e la sorella Ilaria, visibilmente commossa: “Ritengo il maresciallo Mandolini – ha dichiarato – il principale responsabile morale di questi anni di attesa della verità” e ricorda che aveva parlato del momento dell’arresto come di “un’allegra serata. Oggi ascolto tutta un’altra storia”.

Il Fatto 16.5.18
M5S, non si tratta con la lega fascista
di Tomaso Montanari


Caro direttore, se davvero finirà con il Movimento 5 Stelle che porta al governo un partito lepenista, allora sarà finita nel peggiore dei modi. Anche ammesso che la Lega si pieghi ad accettare alcuni punti sacrosanti del contratto di governo proposti dal Movimento (chiusura del folle Tav in Val di Susa; attuazione del referendum sull’acqua pubblica; accoglimento di una significativa parte dei 10 punti fissati dal Fatto Quotidiano), questo non cancellerebbe la sua identità. Che è quella di un partito guidato da un leader che, parlando di migranti, ha dichiarato (febbraio 2017): “Ci vuole una pulizia di massa anche in Italia… via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti se serve”. Che pensa che “il fascismo ha fatto tante cose buone” (gennaio 2018). Che vuole “un cittadino su due armato” (febbraio 2018). Che si è fatto fotografare mentre dà la mano a un candidato della Lega con una croce celtica tatuata sul braccio: un candidato che poi tutta Italia conoscerà come il terrorista fascista di Macerata.
D’accordo. Se finisce così è anche colpa di Matteo Renzi, che tiene in ostaggio il suo partito e il Paese, e che ha scommesso tutto proprio su questo esito, sperando nel suicidio morale e politico del Movimento. Ed è anche colpa di Sergio Mattarella, che avrebbe dovuto mettere il Pd di fronte all’alternativa secca tra governo con i 5Stelle ed elezioni, invece di prospettare la garanzia di un improbabile governo neutrale. E, più profondamente, è colpa di una classe dirigente che, a partire dai primi anni Novanta fino all’abisso renziano, ha scientificamente distrutto la Sinistra, fino a ridurla allo stato attuale: macerie senza speranza. Ed è colpa anche mia, e di tutti coloro che, da sinistra, abbiamo dialogato con il Movimento senza riuscire a far capire che il sistema si poteva ribaltare solo garantendo più democrazia, e non già inseguendo sogni autoritari e abbracciando i nuovi fascisti.
È vero, il mondo si è rovesciato. La Lega e il Movimento 5 Stelle hanno in comune la rappresentanza dei più poveri, dei precari e degli sfruttati: mentre Forza Italia e Pd rappresentano chi ha interesse a non cambiare nulla. Ed è per questo che Lega e Movimento provano a mettere in discussione ciò che va messo in discussione, da questa Europa alla Nato (ammesso che il sistema lo permetta). Ed è vero: il Pd di Minniti sta trattando la più grande questione del nostro tempo, quella delle migrazioni, con metodi e orientamenti che sono già fascisti. Si potrebbe continuare a lungo: per questo milioni di italiani di sinistra hanno votato 5 Stelle, avendo come unica reale alternativa l’astensione (a cui ricorreranno al prossimo giro elettorale).
Tutto questo è drammaticamente vero. Ma la Lega non è la soluzione.
Non lo è perché dove governa non è affatto antisistema, e anzi costruisce un sistema di potere indistinguibile da quello del Pd (si legga, per esempio, il bellissimo Il disobbediente di Andrea Franzoso). Non lo è perché è al guinzaglio di quello che Beppe Grillo chiama lo Psiconano: che sarà il padrino, il socio occulto e il massimo beneficiario di un eventuale governo Salvini-Di Maio. Non lo è perché è un partito che non offre la speranza, come invece fa tra mille contraddizioni il Movimento, ma alimenta invece la paura. Non lo è perché è un partito in cui i militanti di Casa Pound dichiarano di riconoscersi.
Di fronte a questo futuro nero io chiedo: nessuno nel Movimento 5 Stelle ha il coraggio di dire pubblicamente che non è d’accordo? È evidente che la questione della democrazia interna del Movimento non può più essere rinviata: sta succedendo che un gruppo ristretto lo sta portando alla rovina con una scelta che è suicida per le ragioni evidenti che Marco Travaglio si sgola a spiegare da settimane.
Si dice che non c’è alternativa. È un errore: in democrazia c’è sempre un’alternativa, e il moto There Is No Alternative di Margaret Thatcher è stato e resta la pietra tombale su ogni possibile cambiamento in Occidente. Si può rivotare. Si può aspettare ancora e si possono costruire le condizioni per un’evoluzione del Pd. Perché tra il Pd e la Lega c’è una differenza fondamentale: il Pd è diventato quello che è, e fa quello che fa, ribaltando radicalmente la propria stessa ragione di essere. Mentre la Lega è serenamente fedele a se stessa. E dunque mentre si può sperare in una palingenesi di un Pd che accetti di governare con i 5 Stelle, non si può certo aspettarsi nulla del genere dalla Lega.
È una porta stretta: ma nulla, davvero nulla, sarebbe peggio di mettere l’energia pulita del Movimento al servizio di un’idea di Italia che è il contrario esatto della Costituzione.
Norberto Bobbio diceva che dobbiamo essere “democratici sempre in allarme”. E davvero è il momento di suonare l’allarme. Davvero persone come Roberto Fico, Nicola Morra, Michela Montevecchi, Gianluca Perilli, Margherita Corrado (per non fare che qualche nome) sono disposti a rendersi corresponsabili di una scelta che farà perdere al Movimento milioni di voti, consegnandolo alla Destra estrema, e resuscitando dall’altra parte la destra finanzcapitalista di Renzi? Davvero tutte queste persone oneste e serie, che non sognano certo un’Italia nera con la pistola, tradiranno i loro principi e perderanno la faccia fino a legare per sempre il loro nome a una svolta alla Orban?
La Costituzione dice che, come tutti gli altri parlamentari, anche quelli a 5 Stelle non rappresentano il loro movimento, ma la nazione. E la stragrande maggioranza della nazione non vuole al governo l’estremismo nero della Lega.

Il Fatto 16.5.18
La sinistra che “Però, Salvini…”
Reazioni - L’elettore gauchiste dei 5 Stelle ormai ha più paura di Renzi che dei leghisti
di Andrea Scanzi

Ci avete fatto caso? I delusi di sinistra, avvicinatisi negli anni al Movimento 5 Stelle, sono così sgomenti che ormai non riescono neanche più ad aver paura di Matteo Salvini. Certo, qualche elettore illustre che già si pente d’aver votato i grillini c’è. Per esempio Ivano Marescotti, che subito dopo il voto compariva in ogni studio televisivo per mazzolare con sommo gaudio centrodestra e centrosinistra.
Marescotti sperava in due cose diversamente probabili, ovvero che Renzi facesse autocritica e che il Pd sapesse andare oltre Renzi. Figurarsi. Così, ora che i 5 Stelle si sono definitivamente avvicinati alla Lega, l’attore si duole di aver dato il voto a chi lo usa adesso “per fare un governo con fascisti e razzisti”.
La pensa così anche Paolo Flores d’Arcais, così utopico da credere ancora agli appelli (per giunta di sinistra). E la pensano così anche non pochi lettori del Fatto
. Eppure, se solo vi guardate attorno e parlate con chi ha votato M5S venendo da sinistra, la sensazione dominante non è quella del terrore per governare (forse) con Borghezio e Calderoli, bensì quella del “prima vediamo cosa succede”.
C’è persino la voglia, e forse persino il gusto, di credere all’entusiasmo surreale di Luigi Di Maio, che finge di essere sempre d’accordo con la Lega (come se poi fosse un pregio) e ripete ogni minuto che l’accordo è vicino, le sintonie infinite e “faremo la storia” (come no). Viviamo tempi così stravolti e capovolti che, a un elettore di sinistra che col Pd ha chiuso da un pezzo, Salvini fa ormai molta meno paura di Renzi. A tratti sembra persino condivisibile.
Ovviamente è un’illusione. Lo sanno tutti (tranne Di Maio, o almeno così pare) che Salvini non strapperà mai con Berlusconi. Lo ricordano tutti (tranne Di Maio, o almeno così pare) che Salvini è sempre quello che i 5 Stelle chiamavano fino a ieri “cazzaro” (quando andava bene).
Ciò nonostante, in questo presente dove la continua anomalia è divenuta normalità sdoganata, il Salvimaio non pare poi così indigesto. Fai un giro in centro città, o in Rete, e leggi cose tipo “Magari qualcosa di buono la fanno”, “Tutto sommato Borghi non è male”, “Fedriga se lo guardi bene sembra quasi Richard Gere”. E lo scrivono persone di sinistra, convinte evidentemente che c’è stata nel frattempo una desertificazione tale che persino un (non) governo giallo-verde potrebbe rivelarsi migliore di tutti i disastri succedutisi dal 1994 a oggi (tranne forse il Prodi I).
Se ieri gli ex berlusconiani si sono adattati con preoccupante naturalezza ai patti del Nazareno e agli inciuci basso-renziani, oggi tanti elettori di sinistra paiono guardare a Salvini come a uno che le spara sempre grosse, sì, “ma in fondo ora che ci penso sai che non è così male?”.
È tutto così incredibilmente illogico da essere, a ben pensarci, pienamente italiano: comunque vada, sarà un insuccesso.

Corriere 16.5.18
Prodi: i partiti populisti sono una via di fuga
L’intervista a 7 : «La sinistra non è stata capace di difendere i deboli»
di Irene Soave


«Per la gente questi nuovi partiti populisti sono una via di fuga. È da vedere se poi saranno un’alternativa all’altezza». L’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, intervistato nel numero di 7 in edicola domani con il Corriere della Sera, premette subito che della cronaca politica corrente «non voglio parlare, e tacerò molto a lungo»: appena un anno fa si diceva chiuso «in una tenda vicino al Pd» e oggi persegue un isolamento politico ancora più radicale. Eppure il suo commento sul successo elettorale dei «partiti populisti» — «l’elettorato ha votato per chi gli sembrava in grado di proteggerlo» — si accompagna a un’analisi sulla crisi del centrosinistra. Che ha smesso di essere un punto di riferimento per le categorie vulnerabili, spiega il professore, perché «non è stato capace di difenderle. Non ne ha avuto la coscienza. Ma soprattutto non ne ha avuto la forza, di fronte a un potere che era più grande, quello del corso dell’economia, della tecnologia».
Prodi, classe 1939, di governi ne ha guidati due, è stato presidente della Commissione Europea, dell’Iri e ministro dell’Industria del governo Andreotti. Negli ultimi 12 mesi — oltre a correre «per un’ora a mattine alterne» e a dedicarsi, racconta, «all’anticipazione della vecchiaia, che va prevenuta vivendo da incoscienti, come se si avessero 10 anni di meno» — ha presieduto una commissione dell’Elti, l’associazione che riunisce le casse depositi e prestiti e le banche pubbliche europee, per progettare un piano di investimenti in scuola, sanità, edilizia popolare. «C’è bisogno — ha spiegato — di invertire la tendenza all’arretramento dello stato sociale. La gente pensa con risentimento alla cosiddetta “Europa dei banchieri”. Questo piano è l’opposto».
Tuttavia, rendere l’Unione meno impopolare tra i suoi abitanti sembra al momento un’impresa difficile: «Vent’anni fa, ma nemmeno cinque anni fa, non avrei previsto un tale sentimento antieuropeo. Il punto di rottura è stato la bocciatura della Costituzione europea. Di lì è partito tutto: la critica all’euro, all’allargamento dell’Unione. Ma quando queste cose furono decise erano radicate positivamente nelle nostre coscienze». L’Europa di oggi, spiega Prodi, «è un pane mezzo cotto: cattivo, indigesto, ma non si può tornare alla farina e all’acqua. Bisogna finire di cuocerlo». Il problema principale: che il motore dell’Europa, l’asse franco-tedesco,«non va in modo armonico. La Francia si è appaltata la politica estera. La Germania, di contrappeso, la politica economica. Kohl e Mitterrand, tra i padri dell’Europa, si erano messi nei panni di tutti gli europei. Oggi Francia e Germania sono nei panni di se stesse, e nemmeno più l’una dell’altra. Ognun per sé».
E se già in una battuta riportata dal Corriere giorni fa, alla vigilia dell’annuncio che Lega e Movimento 5 Stelle avrebbero accettato di formare un governo assieme, l’ex presidente si definiva «spaventato», nell’intervista a 7 si dice «allarmato» come mai prima d’ora.
«Viviamo in un momento di incertezza totale. Un tempo si era certi che alcuni parametri — quelli per stare in Europa, il rapporto debito/Pil, le alleanze internazionali — sarebbero stati comunque rispettati. Invece oggi sembra saltare tutto. È normale che Trump ripudi il trattato sul nucleare iraniano, un patto che ha richiesto 12 anni per arrivare alla firma, con altri sei Paesi? Io non dico che così si arrivi a una guerra, per carità. Ma l’allarme è la sola reazione logica».

il manifesto 16.5.18
Zingaretti: «Il Lazio farà una legge regionale per i riders»
di Roberto Ciccarelli


Gig Economy. Nel «foglio dei diritti primari del lavoro digitale» il salario minimo per i ciclo-fattorini. Il governatore della regione Lazio Nicola Zingaretti: «Questa è una legislazione di competenza del parlamento. Però credo che sia un atto da compiere ugualmente per mettere in campo una provocazione politica»
Diventati simboli della nuova condizione del lavoro digitale da ieri i ciclo-fattorini delle consegne a domicilio via app sono diventati anche l’oggetto di una proposta di legge della Regione Lazio. Come ha spiegato su Il Manifesto il 9 maggio scorso, il governatore Nicola Zingaretti (Pd) ha presentato ieri un «Foglio dei diritti primari del lavoro digitale» approvato in una memoria di giunta. Entro l’estate sarà trasformato in un provvedimento legislativo. Il testo sarà sottoposto a una consultazione online e coinvolgerà le piattaforme digitali, i sindacati (Cgil, Cisl e Uil hanno garantito il loro sostegno), le forze politiche, i cittadini. E, c’è da augurarselo, i protagonisti: i «riders». A Roma il 10 maggio scorso è stata organizzata un’assemblea.
IL «FOGLIO» CHE DARÀ vita a un «Piano regionale per la tutela, il contrasto alle diseguaglianze e la lotta allo sfruttamento dei “riders”» prevede: tutele compatibili con le norme nazionali di natura assicurativa, previdenziale e di salute e sicurezza; un salario minimo individuato in sede di contrattazione collettiva; il rifiuto del cottimo; la manutenzione dei mezzi; indennità in casi di infortuni e incidenti; diritto alla formazione. Previsti strumenti di confronto tra le parti sociali e il coinvolgimento della rete regionale dei Centri per l’Impiego. Annunciata la creazione di un «Portale del lavoro digitale»: un’anagrafe elettronica per imprese e lavoratori ai quali la regione promette di riconoscere tutele aggiuntive rispetto a quelle contrattuali di natura sanitaria, previdenziale e assicurativa. L’assessore al lavoro, già ex segretario Cgil Roma e Lazio, Claudio Di Bernardino ha assicurato che la «legge non sarà “punitiva” per le imprese. È interesse di tutti rafforzare i diritti e la trasparenza». Saranno coinvolti anche «studiosi». «Ci aspettiamo suggerimenti utili – ha spiegato Di Bernardino – così avremo la possibilità di definire la proposta in modo partecipato, con chi sta fuori dalle istituzioni e ha a che fare con queste realtà o vi lavora».
ZINGARETTI NON HA NASCOSTO il problema, già emerso in un’intervista del 7 maggio al giuslavorista e consigliere comunale di «Coalizione Civica per Bologna» Federico Martelloni, ribadito dallo stesso in un intervento su Il Manifesto del 12 maggio: «Ci auguriamo – ha detto Zingaretti – che l’approvazione di una legge nel Lazio spinga la nuova maggioranza o il nuovo eventuale governo a farla propria e a modificare la legislazione nazionale». Zingaretti teme che l’esecutivo voglia invece impugnarla. «Questa è materia nazionale ed è sottoposta a una legislazione di competenza del parlamento – ha aggiunto – Però credo che sia un atto da compiere ugualmente per mettere in campo una provocazione politica. Sarà divertente vedere un governo che cancella diritti che riguardano tantissimi ragazzi, e non solo». Lo sarà meno per gli interessati se, nel caos giallo-verde del post-4 marzo o per il fronte aperto nella già intensa conflittualità tra Stato e Regioni, ciò accadesse sul serio.
L’INIZIATIVA LAZIALE arriva pochi giorni dopo le motivazioni della sentenza di Torino che ha negato lo status da lavoratori subordinati per i rider. Ma nella «gig economy» sta emergendo un nuovo protagonismo del sindacalismo sociale auto-organizzato che, tra l’altro, ha permesso ai ciclo-fattorini della «Riders Union Bologna» di negoziare una «carta dei diritti digitali» con il comune guidato dal sindaco Virginio Merola (Pd), i sindacati e Coalizione Civica. Il 9 maggio scorso l’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna ha approvato all’unanimità una risoluzione presentata da Sinistra Italiana, Altra Emilia Romagna, Mdp e Pd che chiede al governatore Bonaccini (Pd) di inserire la carta tra gli impegni presi nel Patto per il lavoro. Di iniziative simili si parlerà il prossimo 4 giugno a Firenze nella regione Toscana guidata da Enrico Rossi (Mdp).

Il Fatto 16.5.18
Krimsky, il ponte di Putin unisce Crimea e Caucaso alla faccia dell’Ucraina
Ritmi stakanovisti, 10 mila operai hanno concluso l’opera con 6 mesi d’anticipo
di Michela G. Iaccarino


Il primo camion che ieri ha attraversato lo stretto di Kerch era un kamaz arancione. Alla guida c’era il presidente della Federazione russa. Sotto le sue ruote c’era il nuovo ponte Krimsky, una metafora dei suoi 18 anni di governo, simbolo della sua era. Sopra le onde dell’Azov da ieri sorge il ponte di Vladimir Putin, una lingua di ferro e cemento che unisce la regione di Krasnodar e la Crimea, che fotografano perfino i cosmonauti di Mosca nello spazio. “È la costruzione senza precedenti che durerà per secoli”, “la strada del futuro”, ha scritto la stampa russa: 19 km, “il ponte più lungo d’Europa ora è russo”.
Cronaca breve di una storia lunghissima. Putin promise di costruire il ponte Krimsky subito dopo la rivolta di Maidan e il referendum in Crimea.
Il ponte era “un progetto a cui pensava già lo zar Nicola II, oggi abbiamo compiuto una missione storica, unendo Crimea e Caucaso”. Se ha riguadagnato consenso tra il suo popolo con l’annessione della penisola nel 2014, con questo ponte, Putin l’ha definitivamente cementificato quattro anni dopo. La costruzione è da record sovietico, primato stakanovista: terminata con sei mesi d’anticipo, è durata in totale 816 giorni, ovvero 2 anni e tre mesi. Alle 4 corsie hanno lavorato 10.000 persone senza pause. Traffico previsto: 40 mila auto, 14 milioni di passeggeri e 13 tonnellate di merci l’anno. È costato 6,9 miliardi di rubli e molte sanzioni americane verso i proprietari delle ditte costruttrici, tra cui c’è la Stroygazmontazg di Arkady Rotenberg, amico d’infanzia ed ex judoka che si allenava con il presidente, che aveva già ricevuto 7 miliardi di dollari per i giochi di Sochi. Il Krimsky è il fil di ferro con cui Putin ha cucito la mappa della Russia senza il consenso dalla comunità internazionale, un ponte che unisce due coste, ma che sembra un muro dai distanti binocoli ucraini. La Crimea, considerata “territorio temporaneamente occupato”, è sempre più lontana per Kiev. Il premier ucraino Groysman ha dichiarato il ponte palese “violazione del diritto internazionale”, Putin invece pensa già al prossimo: una costruzione che unisca Sakhalin, estremo est russo, con Hokkaido.

Il Sole 16.5.18
A Budapest leggi contro le ong
Soros lascia l’Ungheria: da Orban attacchi mai visti


George Soros ha deciso di chiudere il quartier generale della Open society foundations a Budapest a causa «del contesto politico e legislativo sempre più repressivo» in Ungheria. Il premier Viktor Orban ha infatti introdotto nel Paese due leggi note come Stop-Soros, sulle quali la Commissione Ue ha aperto una procedura: una sull’università e una sulle organizzazioni non governative, per ostacolare le attività della Central european university e delle organizzazioni umanitarie, soprattutto in soccorso dei migranti. Per il premier nazionalista ungherese - che ha trionfato nelle ultime elezioni di aprile - «quella dei migranti è una questione di sicurezza nazionale», «George Soros ha un esercito che si muove nell’ombra», «è un nemico della patria». Soros, finanziere e filantropo americano di origini ungheresi, continuerà a sostenere le attività in Ungheria ma trasferirà a Berlino tutto lo staff e le attività internazionali. «Il governo ungherese scredita il nostro lavoro, soffoca la società civile per ottenere vantaggi politici, utilizzando strumenti che non si erano mai visti nella storia dell’Unione europea», ha affermato Patrick Gaspard, presidente dell’Open society foundations.

Repubblica 16.5.18
“L’universo? Mai avuto un inizio”
Gabriele Veneziano 50 anni fa ideò la teoria delle stringhe. Ora vuole capire cosa c’era prima del Big Bang
di Elena Dusi


Quando Gabriele Veneziano guarda il cielo, nei suoi occhi azzurri si riflette molto più di un tappeto di stelle. Fiorentino, 75 anni, capelli candidi, il “ babbo” della teoria delle stringhe che quest’anno compie 50 anni spiega che « in quel che vediamo è scritto anche ciò che è accaduto prima del Big Bang. Che non è un punto di inizio. Perché l’universo, probabilmente, un inizio non lo ha mai avuto » . Lo spazio è popolato da minuscoli filamenti che, vibrando, generano le particelle mattoni della materia. « Quel che sembra un cosmo liscio e omogeneo potrebbe avere una struttura a frattale, con ciascun apice corrispondente all’inizio di un universo diverso, con le proprie leggi, il proprio spettro di particelle e un numero peculiare di dimensioni», racconta, come se con la mano stesse tracciando il disegno del cosmo. A Firenze oggi Gabriele Veneziano è tornato. L’università in cui nel 1965 si è laureato ha organizzato il compleanno delle stringhe insieme al Galileo Galilei Institute, nuovo centro di fisica teorica dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Qui vicino, a Pisa, nel 1855 fu fondato Il Nuovo Cimento su cui Veneziano pubblicò l’articolo che segnava la nascita della teoria delle stringhe. Era il 1968. « Ero un giovane scatenato » , sorride. «Diciamo che non avevo il timore di andar contro l’ortodossia ». Non certo perché il 25enne fisico teorico frequentasse le piazze dell’epoca, ma perché con una manciata di colleghi diede vita a una delle teorie più visionarie degli ultimi decenni. « Lavoravo all’Istituto Weizmann in Israele. Preparavo il dottorato in un’atmosfera ovattata».
La teoria fu accolta « tiepidamente, per non dire ostile. Un establishment conservatore ci rese la vita difficile. Ma tre o quattro illuminati, fisici affermati, si interessarono all’idea». Da allora le stringhe hanno vissuto alti e bassi. Hanno ricevuto alcune smentite dai dati sperimentali. Sono state criticate per essere impossibili da verificare. Ma sono diventate parte del nostro modo di immaginare, diventando protagoniste anche di un film di Woody Allen. Veneziano è diventato uno degli scienziati più affermati al mondo. Ha lavorato al Mit, è stato capo del gruppo di fisica teorica al Cern di Ginevra, è membro dei Lincei a Roma e dell’Académie des Sciences a Parigi, ha insegnato al Collège de France. «Oggi sono in pensione. Vivo fra Ginevra e Parigi. Ma non smetto di fare ricerca». In una comunità – quella dei fisici teorici – nota per accalorarsi per le proprie idee, Veneziano è limpido nel riconoscere pregi e difetti delle sue stringhe. «La teoria era nata per spiegare le interazioni forti». Quelle che tengono insieme le particelle nei nuclei. «Ma i dati ci fecero capire che non eravamo sulla strada giusta». Dopo alcuni anni le stringhe divennero, più ambiziosamente, uno strumento per spiegare l’universo ( o gli universi) anziché il nucleo dell’atomo. Puntarono all’ambito traguardo di unificare la relatività di Einstein con la meccanica quantistica. «La matematica che sta dietro alle stringhe è molto sofisticata » spiega Veneziano. « Non sono mancati i matematici che hanno apprezzato la teoria». Pur essendo solida ed elegante, la costruzione teorica che sorregge le corde vibranti ha ancora bisogno di lavoro di lima. « Prevede molte particelle di massa nulla di cui faremmo volentieri a meno » , sorride Veneziano. «Ma i calcoli possono essere migliorati. Può darsi che allora i problemi scompaiano». Il futuro è affidato ad altri “ giovani scatenati”. « A patto che non si innamorino dei formalismi, facendosi trascinare dalla bellezza della matematica » , avverte Veneziano. Lui intanto preferisce alzare gli occhi al cielo e guardare al di là delle corde vibranti. « Oggi mi affascina lo studio dell’universo su larga scala. Mi occupo di collisioni fra stringhe a energie impossibili da raggiungere sulla Terra. Sono quelli che i tedeschi chiamano “ gedanken”: esperimenti fatti col pensiero. E cerco di capire cosa è successo prima del Big Bang». A chi continua a sostenere che le stringhe non diventeranno mai “vere” perché nessun esperimento ne potrà dimostrare la realtà, lui cita le onde gravitazionali. «Chi l’avrebbe mai detto? Io ero fra i più scettici. Eppure le hanno osservate. E ora, anche grazie a loro, la fisica ha in serbo un futuro brillante».

Repubblica 16.5.18
Mar Morto
E la Nasa cerca i Rotoli perduti
Una tecnologia spaziale aiuta a svelare i contenuti dei preziosi manoscritti
di  Rosita Rijtano


Un Rotolo del Mar Morto, non ancora ritrovato, si nasconde tra le grotte di Qumran, nel deserto della Giudea che da più di mezzo secolo non smette di stupire. L’indizio sta in un nuovo frammento scoperto dai ricercatori e studiato grazie a una tecnologia Nasa sviluppata per analizzare la composizione dell’atmosfera dei pianeti.
«Noi invece l’abbiamo adattata allo scopo di digitalizzare i manoscritti ad altissima risoluzione », racconta a RLab Oren Ableman, studioso della Hebrew University of Jerusalem e autore dell’analisi.
Inizialmente pensato per monitorare le condizioni fisiche dei codici, il sistema è stato adottato anche per setacciarne il contenuto quando ci si è resi conto che permetteva di rivelare parti di testo impossibili da vedere a occhio nudo. Usandolo, Ableman è stato in grado di comprendere quanto scritto sul materiale recuperato nell’undicesima grotta, quella in cui sono stati rinvenuti il rotolo del Tempio e quello dei Salmi. Uno dei frammenti ha attirato particolarmente la sua attenzione, perché probabilmente « appartiene a un manoscritto fino ad ora sconosciuto».
«Il testo è in paleo- ebraico, alfabeto in disuso quando vennero ricopiati i codici – spiega Ableman – Anche se nella caverna 11 ne abbiamo trovati altri due trascritti allo stesso modo, comparando la calligrafia non ho individuato alcuna corrispondenza. Questo mi fa pensare che la mano sia di un diverso amanuense e, quindi, che il brandello faccia capo a un altro rotolo».
Difficile dire se il resto sia andato distrutto o fare ipotesi sul contenuto, dato che al momento le lettere decifrate sono tre: «Potrebbe essere una copia dei primi cinque libri della Torah, come la maggior parte dei manoscritti del Mar Morto ricopiati usando il paleo-ebraico, però non posso escludere che si tratti di un testo totalmente nuovo ».

Repubblica 16.5.18
Il Codice delle parole mancanti
di Rosita Rijtano


Manoscritti che documentano 12 secoli di storia: sono migliaia quelli conservati nell’Archivio Segreto Vaticano, uno dei più importanti al mondo, con i suoi 85 chilometri lineari di scaffali. Un progetto dell’Università Roma Tre, chiamato In codice ratio, ambisce a trascriverli grazie a tecniche d’intelligenza artificiale che in futuro potranno aiutare gli storici a recuperare preziose informazioni e ricostruire il testo di eventuali codici danneggiati. Alla ricerca della lettera perduta.
Un’idea di Paolo Merialdo, docente d’ingegneria, che da anni lavora su tecnologie per l’estrazione di dati dai siti web. «Durante una passeggiata con un collega, ci siamo trovati davanti a un edificio del Vaticano e abbiamo pensato: chissà che cosa potremmo scoprire applicando gli stessi metodi che usiamo online ai documenti della Chiesa», racconta. Così ha iniziato a discuterne in ateneo, coinvolgendo il dipartimento di studi umanistici. « Follia », è stata la prima reazione. Ma lui non si è arreso. Fino a mettere in piedi la squadra composta da Donatella Firmani, Elena Nieddu e Serena Ammirati di Roma Tre, più un archivista e paleografo dell’Archivio Segreto Vaticano, Marco Maiorino.
Quando i ricercatori si sono messi a lavoro sulla rete neurale, hanno dovuto superare un problema. Oggi i programmi usati per digitalizzare i documenti cartacei suddividono le parole in lettere, riconoscendo gli spazi presenti: metodo che va bene per i libri di testo stampati, non per le copie digitali di fogli scritti a mano, per di più in latino medievale, dove le spaziature sono irregolari e i tratti delle lettere molto simili tra loro. A volte indistinguibili anche per l’occhio umano. «La macchina elabora il risultato finale valutando le combinazioni possibili e scegliendo la migliore – spiega Merialdo – ma l’unico modo per arrivarci era insegnarle a riconoscere ogni singolo carattere, come facciamo noi quando leggiamo. Ci siamo riusciti fornendole centinaia di esempi di lettere e abbreviazioni».
Il compito è toccato a 500 studenti delle scuole superiori che da gennaio 2017 a oggi hanno lavorato su un’app ad hoc in cui, selezionando le immagini considerate simili, hanno permesso alla rete neurale di imparare. I primi risultati sono stati promettenti: il software ha ricopiato in modo accurato alcuni registri papali inediti di Onorio III, pontefice dal 1216 al 1227. Un’applicazione su larga scala, auspicata dagli scienziati tra il 2019 e il 2020, «fornirebbe supporto non solo ai 1200 studiosi che ogni anno entrano in archivio per consultare i documenti antecedenti al 1939, ma permetterebbe di accedere alle trascrizioni dei manoscritti da ogni parte del mondo, senza ricorrere alla consultazione degli originali», dice Maiorino.
Il prossimo passo è organizzare le notizie recuperate grazie alle trascrizioni, mettendo in relazione personaggi, eventi, luoghi e fatti. Così basterà cercare su un computer, ad esempio, “ quante volte è stato scomunicato Federico II?” per ottenere risposta. In futuro, l’Archivio Vaticano sarà ancor meno segreto. A dispetto di Dan Brown.

il manifesto 16.5.18
Il male incurabile e quello che cova dentro di noi
Cannes 71. «Euforia» di Valeria Golino al Certain Regard, protagonisti due fratelli interpretati da Riccardo Scamarcio e Valerio Mastrandrea. Nel cast anche Isabella Ferrari e Jasmine Trinca
di Cristina Piccino


CANNES Ci sono due fratelli, uno è bello,irruento, pieno di allegria, ricco. L’altro parla poco, è scontroso, insegna in una scuola media e si è separato dalla moglie per una storia «importante» con una sua collega (Jasmine Trinca). Sono pianeti distanti, delle reciproche vite non sanno nulla, il fratello ricco è gay e dichiarato anche con l’amata mamma – ma da piccolo gli piacevano le ragazze ripete lei – una scelta che l’altro fatica a comprendere. Poi succede che uno dei due si ammala, tumore terminale, e l’altro decide di occuparsene prendendo su di sé il carico del dolore senza dire nulla al fratello ammalato e al resto della famiglia. Non è niente, una ciste, una cosa seria ma non gravissima ripete per tranquillizzarli e loro non vogliono altro che crederci… Euforia comincia da una storia vera, l’esperienza vissuta da un amico di Valeria Golino che lo ha scritto insieme a Valia Santella e Francesca Marciano, ed è il ritorno dell’attrice come regista al Certain Regard dopo Miele, ancora una storia di dolore pure se da quel bell’esordio questo film è molto diverso, meno eccentrico, forse più «costruito» seguendo riferimenti narrativi maggiormente riconoscibili.
Anche stavolta il centro è una relazione, quella appunto dei due fratelli, Matteo (Riccardo Scamarcio) e Ettore (Valerio Mastrandrea) che il caso (triste) porta a confrontarsi nella vita permettendo a ciascuno di loro di conoscere qualcosa nelle reciproche realtà che corrisponde anche a un modo di essere al mondo.
Ettore vive ancora nel paesino fuori Roma dove i due sono nati, è schivo, Matteo si è trasferito a Roma, si occupa di arte soprattutto negli ambienti vaticani, mentre tutto succede sta preparando il mega evento per la giornata dell’Immacolata, e intanto cerca di convincere gli alti prelati a affidare il restauro del dipinto antichissimo della Madonna a una ditta di make up giapponese: Bellezza che promuove bellezza è lo slogan vicente. È solo, circondato da molti amici e amiche, qualcuna (Valentina Cervi) tristissima col cuore infranto da storie finite male, Matteo non ha amori, non duraturi almeno, qualche uomo con cui fa sesso, poi coca, sigarette, nottate in bianco, chirurgia estetica. Da qualche parte c’è la tristezza che l’intensa socialite dissimula.
Dice Golino: «Effettivamente Miele e Euforia sono due film speculari e opposti, però lo sono col senno di poi. Quando ho deciso di fare Euforia non pensavo a questo, non è stata una scelta ragionata né tematica. Quando ho mandato il copione al mio direttore della fotografia, Gergely Poharnok, che è ungherese e vive a Berlino, mi ha detto: ’La morte qui è superstar’. Ma oggi mentre il pianeta è preso da cose importanti e terribili le uniche cose che mi sento di raccontare drammaturgicamente sono quelle legate alle tematiche esistenziali e alla morte, che è la regina del nostro pensiero».
Golino nella sua dimensione esistenziale guarda alla commedia, a cominciare dall’opposizione quasi classica tra i due protagonisti che sostengono l’intero film. Come fare fronte all’imbarazzo del dolore specie al maschile, perché poi tra gli uomini manca la dimensione della confidenza del femminile, almeno dal punto di vista letterario? Gesti goffi, uno slancio di troppo. È possibile ritrovarsi da adulti? Euforia, il titolo, rimanda nelle parole della regista a quella «bella e pericolosa sensazione sperimentata dai subacquei nelle grandi profondità: un sentimento di assoluta felicità e di libertà totale». In fondo è (anche) una storia d’amore, non sempre riuscita, forse perché un po’ troppo ordinata, senza quei punti di fuga sbilenchi che davano il respiro a Miele. Ma la sua scommessa è proprio nella materia che affronta: il dolore e i rapporti, la capacità di guardare l’altro e di mettersi talvolta in gioco, quel miracolo che avviene fugace, magari davanti allo specchio o sotto un cielo azzurro. Il limite è sottilissimo e rischioso, lei sa muoversi con grazia, senza retorica né eccessi, assecondando la sua «euforia».

Repubblica 16.5.18
Valeria Golino “Cercavo la gioia ma mi accontento dell’euforia”
intervista di Arianna Finos


CANNES Eterea e claudicante, Valeria Golino cammina con circospezione sulla terrazza del Marriott Hotel, al centro della Croisette. Sotto il vestito bianco e nero, la caviglia destra è fasciata: «Gli anglosassoni usano dire per buon augurio “break a leg”, ecco, io l’ho preso alla lettera. Sono caduta ieri.
Sono imbottita di antinfiammatori e pomate francesi. Funzionano, anche se non sono molto glamour».
Cinque anni dopo il successo di Miele torna da regista al Certain Regard con Euforia, storia di due fratelli, Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea, che si ritrovano attraversando il dolore e la malattia. I personaggi femminili sono affidati a Jasmine Trinca, Valentina Cervi e Isabella Ferrari, che passano a salutare la regista e ricevono le direttive: «Puntuali alle otto qui, poi si va in macchina al Palais. Non iniziate l’ammutinamento eh?».
Il delegato Frémaux l’ha abbracciata sulla Montée des Marches, come il Festival ha abbracciato il suo film.
«Per tanti motivi — tra cui le due Coppe Volpi che mi hanno cambiato la vita da piccolissima e alla mezz’età — sono affezionata a Venezia, mi porta bene e mi diverto. Qui a Cannes non mi diverto. Ma Frémaux ha preso il primo film, fatto all’arrembaggio.
E così volevo tornare qui».
In questo momento si sente più regista o attrice?
«Recitare è la mia seconda natura.
Lo faccio da quando avevo sedici anni. La regia mi ha dato varie cose. Innanzitutto il fatto che sono una giovane regista e non un’attrice di mezz’età. Da attrice ho fatto 63 film, la regia è una nuova avventura. Avrei dovuto iniziare a trent’anni, ma avevo troppo pudore, insicurezza».
Di nuovo un film sul tema della morte.
«Mi piace pensare che Miele
e Euforia siano opposti e speculari. Non era un intento deliberato, in questo momento in cui il mondo è preso da fatti importanti e terribili le uniche cose che mi sento di raccontare sono quelle esistenziali. La morte è la regina del nostro pensiero».
Perché il titolo “Euforia”?
«Rimanda a quella distrazione momentanea dalla paura e dal corpo. Volevo parlare di quell’euforia che non è gioia.
La gioia è un sentimento profondo e radicato. Che inseguo. Però poi mi ritrovo sempre con l’euforia, che è anche bella. Ma è quell’altra cosa, frizzante, a liberarti. Può essere nella tua natura ma anche qualcosa di indotto: in questo senso è pericolosa».
Nei salotti della borghesia che racconta si consuma molta droga.
«Ho fatto anche un film sulla droga. Volevo parlarne, ma non in modo diretto. La droga è molto presente però normalizzata, come succede in un certo milieu borghese, neo borghese e non solo. Non volevo raccontarla in modo dark, relegandola come spesso accade nel mondo criminale. Nel mio film il contesto è leggero, il pusher è buffo. Ma la droga pesa con forza sulle persone. Le decisioni del personaggio di Riccardo, quelle belle e quelle brutte, sono comunque di un tossico. Anche l’improvvisa mancanza di sentimento. Questa è l’euforia indotta».
È anche un film sulla famiglia.
«Volevo parlare di rapporti familiari, anche se diluiti dalla distanza, dalle vite diverse.
Il personaggio di Scamarcio, l’imprenditore che si è allontanato dalla famiglia, non vuole perdere i ricordi: il gioco con le mani del nonno, il ballo di Stanlio e Ollio che facevano da bambini.
Il personaggio di Valerio invece è rimasto in famiglia ma ha alzato un muro. Per proteggersi si è inaridito. È intelligente ma non vitale, giudicante ma fragile».
Che viaggio è stato questo film?
«Faticosissimo, decisamente più di Miele. C’erano coinvolte persone a cui voglio molto bene, mi sentivo ancora più responsabile. E parlavo di cose più elusive. In Miele c’era una tematica talmente forte che dovevo essere cauta per non diventare retorica. Stavolta dovevo far passare alcune cose sotto traccia. Mi sono anche molto incupita. Al montaggio mi dicevano “mamma mia come sei di cattivo umore”... In più c’è quella cosa meschina del secondo film: tutti a pronti a dire “eccola là, era un bluff”. Euforia può benissimo non piacere, ma ho fatto il film che volevo. Non volevo che fosse naturalistico, che diventasse tarallucci e vino, due camere e cucina. Volevo che ci fosse la realtà, ma anche sospensioni continue. La musica mi ha aiutato, la base melodica l’ha scritta mio fratello Sandro, che è un sassofonista. Sì, questo film è pieno di cose per me legate insieme. Faticoso, però anche euforico».

Repubblica 16.5.18
L’impresa leggendaria per salvare Abu Simbel
di Paolo Griseri


Una mostra alla Triennale racconta dighe, centrali elettriche e gallerie realizzate da Salini-Impregilo
C’è stato un tempo, anche in Occidente, in cui l’uomo era orgoglioso di modificare la natura.
Quando ponti, dighe, gallerie non erano opere da realizzare di nascosto, nottetempo, quasi vergognandosi di rompere la presunta purezza originaria di montagne, laghi, vallate. Era l’epoca dello Sviluppo con la maiuscola. La stagione in cui il popolo dei cantieri rifece l’Italia spalando le macerie della Seconda Guerra mondiale e tirando su spalle di ponti, carreggiate, ferrovie, trafori alpini. Questa è la storia che ripercorre Cyclopica, la mostra fotografica alla Triennale di Milano, sui 113 anni di vita di Salini- Impregilo. Partendo dalla sua radice più longeva, la Lodigiani, fondata a Piacenza nel 1905. Dell’anno successivo è la Girola costruzioni di Domodossola, nata per realizzare dighe di montagna e la vicina ferrovia del Sempione con quella che, all’epoca, fu la galleria ferroviaria più lunga del mondo. La Impresit, società di ingegneria civile del gruppo Fiat, si unì a Girola e Lodigiani per una delle prime imprese ciclopiche della storia fuori dall’Europa: la diga di Kariba, in Africa, sul fiume Zambesi.
Impre( sit). Gi( rola). Lo( digiani) nacque allora per togliere la sete e fornire elettricità a due Paesi ( Zambia e Zimbawe) creando un lago lungo 280 chilometri. Non fu un’opera facile. Nel cantiere morirono molti operai italiani. 60 mila persone furono trasferite e 6.000 animali vennero portati altrove per evitare l’annegamento.
Un manufatto gigantesco, uno dei tanti. Cyclopica consente al visitatore di entrare nel cantiere ricostruito di una diga, di trovarsi nel tunnel di scavo di un grande galleria, di vivere la vita del cantiere. Perché nei villaggi di container, sulle impalcature di tubi Dalmine, lungo le talpe snodate per centinaia di metri che scavano decine di chilometri di gallerie, vive e lavora una comunità di uomini e donne unita da un obiettivo collettivo. Anche 10 mila caschi possono avvicendarsi nel corso del tempo nello stesso cantiere. L’opera può essere entusiasmante. Le fotografie in bianco e nero raccontano lo smontaggio, in 1.030 blocchi, del tempio di Ramsete II ad Abu Simbel per salvarlo dalle acque del Lago Nasser creato con la costruzione della diga di Assuan.
Una storia emozionante, di cui andare orgogliosi. Non sempre va bene. Ci sono proteste anche cruente, opposizioni alle opere.
Fuori dall’Europa, soprattutto.
Ma l’idea che qualsiasi opera, per il solo fatto di modificare la Natura ( con la maiuscola ovviamente) sia di per sé negativa e da impedire, è un’acquisizione recente nel Vecchio Continente. Cyclopica restituisce al visitatore la possibilità di uno sguardo diverso, non apocalittico, si direbbe costruttivo in molti sensi. Grazie agli archivi fotografici di Salini ( costruttore romano a partire dagli anni Trenta) e delle società che hanno costituito Impregilo va in mostra lo sguardo di un’Italia che provava a progettare il futuro e non solo a difendersi dal presente.

Repubblica 16.5.18
La polemica
Elogio di un’istituzione incompresa
“Ragazzi, tornate a iscrivervi al classico”
di Raffaella De Santis


Da un po’ di anni il liceo classico è costretto a smarcarsi dalle accuse di chi lo considera poco adatto ai tempi.
Insegnanti e classicisti si ritrovano a dover difendere una scuola che ha avuto un ruolo di primo piano ma rischia di apparire ingiustamente poco appropriata alla vita di tutti i giorni. Non è così, dice oggi Federico Condello, professore di filologia greca e latina all’università di Bologna, perorando in un saggio ricco di dati la causa del classico ( La scuola giusta. In difesa del liceo classico, Mondadori).
Condello mostra come gli alunni del classico siano i più flessibili a sperimentare scelte universitarie disparate, iscrivendosi con successo a facoltà come ingegneria o matematica.
«Smettiamola di definire gli studi umanistici inutili e di accusare di nozionismo lo studio delle lingue antiche», dice. Non sono parole neutre, ma prese di distanza nette da importanti classicisti, da Maurizio Bettini a Nuccio Ordine e Nicola Gardini.
Crede che una difesa del liceo classico possa servire?
«Sul liceo classico si gioca una partita che va al di là. Non si tratta di difendere l’istruzione classica in sé ma di fare un ragionamento più ampio sullo stato della scuola pubblica italiana, sull’ambizioso progetto che l’ha animata in altri tempi e su quanto ora si va perdendo delle istanze di equità che ne erano alla base».
Un progetto nato nell’Italia risorgimentale.
«Quando si voleva innervare la nazione di una nuova classe media.
Si è trattato di un programmatico esperimento di ascensione sociale.
Una democratizzazione ampia di saperi strutturalmente d’élite».
Oggi però la crisi degli studi classici è innegabile.
«Siamo di fronte a un panorama che inquieta: il liceo classico rappresenta oggi il 6,7% delle iscrizioni contro il 25% dello scientifico, l’8,2 % delle scienze umane e il 9,3% del linguistico. La moltiplicazione dei licei della riforma Gelmini ha introdotto un’offerta formativa fumogena.
Assistiamo ad un’impressionante licealizzazione della scuola, abbiamo superato il 55% di iscrizioni al liceo, ma le scelte che si offrono sono ingannevoli».
Perché ingannevoli?
«Un dato importante è il numero di fallimenti universitari nelle scuole concorrenti del liceo classico. Il linguistico è nell’ordine del 35%, il liceo delle scienze umane sul 45%.
Dati drammatici, vuol dire che oltre un terzo e quasi la metà degli alunni di quelle scuole non è messo nelle condizioni di proseguire gli studi.
Eppure si vuole rendere il liceo classico sempre più di nicchia.
Attraverso il proliferare di indirizzi alternativi è stato ridotto a una scuola per bamboccioni di lusso».
Lei sostiene però che il classico sia ancora oggi un ascensore sociale.
«È la scuola che lascia più liberi nelle scelte universitarie successive e che garantisce successi anche a chi parte da condizioni non avvantaggiate. In questo senso è una scuola “giusta”, perché lascia aperte tante possibilità e non costringe un ragazzo di tredici anni a fare già una scelta che condizionerà tutta la sua vita».
Su cosa basa queste considerazioni?
«Sui dati. Gli studenti che escono dal classico compiono, in una fascia tra il 36% e il 46%, scelte universitarie molto difformi dal loro asse culturale, e hanno carriere eccellenti. Segno che il liceo classico è una scuola aperta. Alcuni esempi: il 7,4% dei suoi studenti si iscrive alla facoltà di medicina, quasi il 6% a ingegneria, più del 14% segue indirizzi di area politico-sociale».
Non è così per gli altri licei?
«Negli altri licei l’“incanalamento” precoce è più forte. Anche lo scientifico è meno flessibile: le scelte difformi rispetto all’asse scolastico sono intorno al 15% per l’opzione “scienze applicate”. Per non parlare degli istituti tecnici o professionali: trappole di classe, scuole nate con il progetto di riprodurre la diseguaglianza sociale di partenza».
Quanto pesano le origini familiari sulla scelta della scuola?
«È vero il classico è una scuola culturalmente e socialmente più omogenea di altre. In questo riflette la struttura della nostra società di classe. In una società di classe la scuola è di classe. Ma oggi in numeri assoluti le famiglie alto borghesi iscrivono più spesso i propri rampolli al liceo scientifico. Il mio è un invito ad utilizzare il classico per quello che può potenzialmente essere, un ascensore sociale straordinario. Non mi convince chi elogia le humanities come sapere “inutile”, disinteressato. Mi sembra una forma micidiale di elitismo».
Non è un’esortazione a coltivare il pensiero critico?
«Equivale a dire: fate il liceo classico solo se avete tempo da perdere. A ciò si aggiunge un’immagine caricaturale del classico con docenti impegnati a torturare con spietatezza di aguzzini gli studenti».
Nel libro prende le distanze dall’idea di umanismo di Nuccio Ordine e Nicola Gardini.
«Vedere riemergere le difese degli studi umanistici come studi anticapitalistici, antiaziendalistici, antiutilitaristici riporta il dibattito a fasi tardo ottocentesche o primo novecentesche».
Critica anche l’approccio antropologico di Maurizio Bettini, basato su orizzonti più vasti di un mero esercizio grammaticale sulle lingue antiche.
«Quello che non colgo è la novità.
Esiste il nozionismo della grammatica così come esiste il nozionismo della letteratura, dell’antropologia o della matematica. Inoltre esagerare sui contenuti classici rischia di rendere ancora più rigido in senso classicistico il corso di studi».
Una certa critica al nozionismo non è condivisibile?
«La vilipesa traduzione è per sua natura un’operazione che insegna competenze trasversali. Attraverso la traduzione non si imparano il greco e il latino ma procedure di pensiero. Nei Quaderni del carcere Gramsci è netto nel dire che greco e latino non sono materie in sé ma metodi formativi che insegnano a pensare, a problematizzare».
E il greco “geniale” di cui parla Andrea Marcolongo?
«Il greco non è più geniale del dialetto della bassa veneta dove sono cresciuto. Che il greco sia stato utilizzato da Platone o da Sofocle oltre che per comprare le acciughe al mercato, può dare la sensazione che sia una lingua geniale. Trovo preoccupante parlare dello spirito di una lingua, il passo successivo è parlare dello spirito di un popolo».
Lei insegna all’università.
Come sono i suoi studenti?
«Una generazione splendida. Chi dice che era meglio la precedente forse rimpiange solo la propria giovinezza».

Repubblica 16.5.18
Terra!
Se la felicità ha un prezzo
di Marco Tedesco


Ogni anno le Nazioni Unite pubblicano il ‘World Happiness Report’ (rapporto mondiale sulla felicità) sulla qualità della vita dei diversi paesi nel mondo e il ‘benessere’ dei cittadini. Le metriche utilizzate spaziano dall’assistenza sociale alla durata media della vita, fino alla libertà di compiere scelte e alla ‘percezione della corruzione’. Quest’anno la medaglia d’oro tocca alla Finlandia, seguita a ruota da Norvegia e Danimarca.
L’Italia occupa il 47mo posto (su un totale di 155 paesi). Ma qual è il prezzo di tale felicità da un punto di vista ambientale? Secondo uno studio che utilizza dati economici fino al 2007, l’emissione di gas serra (quali CO 2 ) delle abitazioni finlandesi è tra le più alte d’Europa, con valori che sono circa il doppio rispetto a quelli del sud Italia e 20% al di sopra di quelli relativi al Nord. Tuttavia, l’emissione di gas serra da parte della Finlandia è andata diminuendo sostanzialmente a partire dal 2010, con valori nel 2016 pari al 25% al di sotto rispetto a quelli degli anni 90. Ciò è fortemente dovuto alla riduzione dell’uso di carbone da parte dell’industria energetica. I dati per il 2017 non sono ancora disponibili ma, verosimilmente, non cresceranno di molto, a causa del “National Climate Change Act” entrato in vigore nel giugno del 2015 e che mira a ridurre l’emissione di gas serra di almeno l’80% rispetto ai valori del 1990 entro il 2050. I colleghi finlandesi concordano che sarebbe utile, o almeno interessante, da parte delle Nazioni Unite considerare un eventuale parametro aggiuntivo che riguardi l’impatto sul clima, così da includere anche l’impatto sui paesi circostanti e sul nostro pianeta in generale. Dopo tutto, come ci insegna Christopher McCandless, la felicità è vera solo se condivisa.