il manifesto 13.5.18
Suprematismo, scuola di provincia
A
Parigi, Centre Pompidou, "Chagall, Lissitzky, Malévitch… L’avant-garde
russe a Vitebsk, 1918-1922". In mostra il cruciale incontro-scontro,
nella cittadina della periferia russa, tra Chagall da una parte,
Malévitch e Lissitsky dall’altra, tutti impegnati come insegnanti
di Davide Racca
PARIGI
Nel novembre 1919 Kasimir Malévitch si lascia alle spalle Mosca,
esacerbata dalla guerra civile, per raggiungere la più tranquilla città
di provincia di Vitebsk, all’epoca periferia della Federezione Russa,
oggi in area bielorussa. Ad attenderlo c’è un atelier e le iscrizioni
aperte al suo nuovo corso di pittura presso la Scuola Popolare d’Arte da
un anno inaugurata e diretta da Marc Chagall. Il trait d’union tra
Malévitch e Chagall è l’artista, architetto di formazione, Lazar
Lissitzky (detto El Lissitzky), che è impegnato a insegnare
architettura, disegno e stampa nella stessa scuola. Benché influenzato
della poetica chagalliana, Lissitzky è da tempo interessato al lavoro di
Malévitch, con cui intrattiene una fitta corrispondenza già da diversi
mesi. Lo incontra a Mosca, in missione per recuperare dei materiali
didattici. Malévitch versa in condizioni difficili, vive in una dacia
non riscaldata fuori della capitale che può raggiungere solo a piedi. La
moglie è incinta ma anche l’astrazione pura suprematista è gravida di
futuro. Lissitzky lo invita a raggiungere la più tranquilla e meglio
vettovagliata città di provincia, dove la neonata Scuola di Chagall,
aperta a tutti i fronti dell’arte, è pronta ad accoglierlo. Malévitch si
lascia convincere e con la moglie segue Lissitzky che si offre di
aiutarli nel penoso ma necessario trasbordo.
Ad attendere il
maestro suprematista non è tanto il lavoro al cavalletto, quanto
l’elaborazione didattica e teorica della nuova prassi artistica forte
degli esiti astratti raggiunti e dell’esperienza a Mosca come professore
di pittura presso il Secondo Atelier Nazionale d’Arte Libera. Ben
accolto a Vitebsk, già nell’autunno del 1919, insieme all’attività di
divulgazione e di didattica Malévitch prepara la sua prima esposizione
personale che vedrà la luce nel marzo del 1920 sotto il titolo: Kasimir
Malévitch: il suo percorso dall’impressionismo al suprematismo.
L’artista fa un bilancio della sua carriera dove mostra come dalla
figurazione «per impressioni» delle prime opere, alle tele alogiche e
neoprimitiviste dal lucido taglio razionale, sia passato alla
frammentazione cubista e cubo-futurista, per arrivare alla forma pura e
senza oggetto del suprematismo. Quest’ultimo viene presentato nelle sue
tre tappe fondamentali: nero-e-bianco, colore, bianco-su-bianco. Ma
l’autopresentazione si mostra ancora più escatologica e radicale
nell’ultima opera esposta, che si dà assolutamente bianca, vuota.
Malévitch parla della fine della pittura.
Convinto delle solide
fondamenta estetiche del suo sistema artistico, che principia con il
grado zero della forma (il Quadrato nero), sempre nel 1920 Malévitch,
non senza accenti di esaltazione, scrive al critico moscovita Pavel
Ettinger: «Il suprematismo è giunto al senza-oggetto per costruire un
nuovo mondo fatto di spirito e prassi. Possiamo creare a tale proposito
una formidabile storia, e dovremo farlo, perché contiene in sé lo
sviluppo del Nuovo Testamento del mondo». Questa affermazione tasta il
polso del clima rivoluzionario, utopico e mitopoietico che attraversa
non solo il maestro ma anche altri professori delle Scuola di Chagall,
come Lissitzky, Vera Ermolaeva, Nina Kogan, e lo scultore David
Iakerson, che insieme ai loro allievi formano il collettivo denominato
Outverditeli novogo iskousstva (Assertori del nuovo in arte) abbreviato
in Ounovis. Nella Scuola viene creata una classe unificata del
collettivo, dove si discute del nuovo modo di creare forme inedite
attraverso l’assimilazione dei fondamenti della realtà fisica: lo
spazio, il piano, la linea, il colore, il volume e il peso. Metodi
precisi, rigorose impostazioni didattiche, ragionamenti sui movimenti
rivoluzionari in arte e voglia di invadere tutti gli spazi della vita
sociale, fanno di questo collettivo un grande attrattore di studenti,
che poco alla volta lasciano i corsi di Chagall.
La «rivoluzione»
di Malévitch mette nell’angolo, fino a estrometterla, la «rivoluzione»
di Chagall a Vitebsk. Quest’ultimo guarderà sempre con rancore a
Malévitch, e considererà Lissitzky alla stregua di un traditore,
sospettando entrambi di aver manipolato gli studenti della Scuola.
Scuola che dopo la dipartita per Mosca di Chagall, avvenuta nel giugno
del 1920, cambia nome in Atelier d’Arte Superiore Nazionale di Vitebsk.
Tuttavia resta vero che Chagall, durante la sua direzione, aveva fatto
diversi tentativi di abbandonare gli obblighi burocratici per dedicarsi
interamente alla sua arte. Tentativi più volte ostacolati dagli stessi
studenti che poi sposeranno le tesi malevitchiane. Ma in fondo quanto
accaduto è ampiamente giustificato dalla libertà di iscrizione ai corsi
da parte degli allievi e dal complessivo fermento artistico
rivoluzionario nella Russia di allora, non ancora sedimentato nel rigido
realismo sociale come unica arte conforme al potere. Inoltre la sete di
riconoscimenti ufficiali e la lotta per l’egemonia culturale sono da
sempre stati dei fattori impliciti delle avanguardie artistiche. La
programmaticità di Malévitch e dell’Ounovis, che ripensa radicalmente il
rapporto con il passato e si proietta nel futuro attraverso una pratica
collettiva di cambiamento del mondo, non può che trovare più consenso
rispetto a un lavoro, quello di Chagall, che invece agisce sulla sfera
individuale, sognante, metaforica, anche se teso a riconoscere pari
dignità a tutte le manifestazioni d’arte.
Nelle sue memorie,
redatte in età avanzata, Chagall ritornerà ancora su quell’esperienza, e
rivolto al collettivo Ounovis scrive: «Io commissario per le Belle Arti
della provincia di Vitebsk, direttore e professore dell’Accademia,
dicevo loro che un quadrato su tela è un oggetto al pari di una sedia e
di un comodino. Pensavano di impadronirsi della mia accademia e dei miei
studenti, e che un quadrato nero potesse essere un simbolo di vittoria…
Ma una vittoria su cosa? Nel quadrato nero sul fondo miserabile della
tela, io non vedevo assolutamente l’incantesimo dei colori». Attento ai
nuovi linguaggi artistici, ma sempre pronto a rielaborarli nel suo
personale basculamento onirico, Chagall in quel semplice quadrato non
vede che una sterile astrazione. Ed è proprio qui che in fondo giace la
radicale differenza tra la poetica figurativa di Chagall e il puro
razionalismo tendente alla mistica di Malévitch. Tra i due è impensabile
un compromesso.
Sotto la direzione di Angela Lampe, il Centre
Pompidou di Parigi oggi ci racconta di queste dinamiche di avanguardia
ma anche delle straordinarie elaborazioni artistiche di insegnanti e
allievi avvenute nel breve volgere di un quadriennio in quella piccola
realtà di provincia. Attraverso la mostra Chagall, Lissitzky, Malévitch…
L’avant-garde russe a Vitebsk, 1918-1922 (catalogo Centre Pompidou, pp.
288, € 45,00), aperta fino al 16 giugno prossimo, una raccolta di
duecentocinquanta opere e documenti dal valore altamente scientifico
testimonia di un importante capitolo della storia dell’arte scritto al
di fuori dalle grandi metropoli. Chagall, che dopo i successi di Parigi
rientra nella natia Vitebsk per sposare Bella Rosenfeld, intraprende
un’impresa plurale, che a differenza della fusione delle arti pensata
nella coeva esperienza del Bauhaus di Gropius a Weimar, vuole aprire
l’insegnamento di tutte le arti, anche le più contrastanti tra loro.
«Noi possiamo permetterci il lusso di giocare col fuoco», ha detto in
uno dei primi discorsi di inaugurazione accademica. E con quel «lusso»
Chagall si è bruciato, per poi continuare il suo «gioco» altrove…
lontano da Vitebsk.