il manifesto 12.5.18
Burg: «Europa assente e Casa bianca folle: Israele ha mano libera»
Medio
Oriente. Intervista a Avraham Burg, politico e scrittore israeliano, ex
presidente della Knesset: «La società israeliana si è radicalizzata
perché, come nel resto del mondo, il welfare è stato demolito dalla
filosofia neoliberista e la solidarietà sociale da politiche
identitarie»
di Chiara Cruciati
Bombe israeliane
su Damasco (ormai di una frequenza inquietante), missili siriani sul
Golan, decisioni unilaterali dell’amministrazione Usa stanno conducendo
la regione verso una pericolosa escalation bellica.
Ne abbiamo
discusso con Avraham Burh, «Avrum», politico e scrittore israeliano, già
presidente della Knesset, ex membro del Partito laburista e oggi della
formazione di sinistra Hadash.
Il conflitto che Israele sta costruendo contro l’Iran si fa concreto. Quali sono gli obiettivi del governo Netanyahu?
Sono
diversi. La prima ragione delle manovre tra due dei principali attori
regionali, Israele e Iran, è l’immediato futuro della Siria, una lotta
tattica e strategica. Spostandoci sul medio termine, la motivazione di
Israele è evitare la libanizzazione della Siria, con milizie in stile
Hezbollah, e dunque evitare che proxy dell’Iran si stabilizzino ai
confini israeliani. La motivazione iraniana è opposta: una striscia di
terra che dall’Iran passi per le zone sciite irachene, la Siria fino al
Libano. Il terzo elemento, quello di lungo periodo, è la creazione da
parte israeliana di una zona di influenza, in contrasto con quella
iraniana: una coalizione Usa, Israele, Egitto e Arabia saudita, dove i
sauditi giochinno da pivot della coalizione.
Di nuovo giovedì il
ministro della difesa israeliano Lieberman ha lanciato un appello ai
paesi del Golfo per la creazione di un asse anti-Teheran.
Non sono
però così certo che una tale alleanza possa reggere. Il Medio Oriente
non è quello che si vede, è luogo pieno di specchi: non sai mai qual è
l’oggetto reale e quale il suo riflesso. Di base, se si vuole dividerlo
tra sciiti e sunniti, è chiaro che Israele ha scelto il secondo fronte.
Ma se si va a vedere in profondità non è così semplice. Un esempio:
l’Iran sostiene Hamas che è una formazione sunnita. Il Medio Oriente è
come il caffè arabo: bisogna aspettare che la polvere si posi in fondo
alla tazzina per capire. Per questo non sono affatto sicuro che una
simile alleanza possa davvero realizzarsi: in mezzo ci sono diversi
elementi che potrebbero interferire, a partire dal ruolo della Turchia.
In
tale contesto la società israeliana ha vissuto una polarizzazione
ulteriore, dagli anni ’90 si è spostata a destra, si è radicalizzata. Un
effetto delle politiche dei governi post-laburisti o la trasformazione è
avvenuta alla base?
Se si guarda al processo vissuto dall’Italia
negli ultimi 20 anni è piuttosto simile a quello in Israele: le
politiche di Berlusconi e Netanyahu sono entrambe state fondate
sull’apparenza mediatica, mentre il welfare veniva demolito dalla
filosofia neoliberista e la solidarietà sociale distrutta da politiche
identitarie. Il processo è identico, globale. La differenza sta nella
presenza, in Israele, di un conflitto con i palestinesi che si sviluppa
nell’ambito di dinamiche di trasformazione delle società e
frammentazione della solidarietà interna.
Il nemico interno
collante di una società frammentata sul piano socio-economico: i
palestinesi sono lo strumento per evitare l’esplosione di conflitti
interni?
Oggi assistiamo alla combinazione tra la divisione
interna israeliana e la radicalizzazione dell’attitudine verso i
palestinesi. Questo ha fatto venir meno qualsiasi spinta verso una
soluzione. Abbiamo una leadership palestinese debole, una leadership
israeliana priva di interesse verso il dialogo, una diversità di
interessi da parte dei paesi vicini, un presidente pazzo alla Casa
bianca e un’Europa invisibile. Non ci sono più attori, come successo con
Oslo, che sostengano l’apertura di un dialogo.
Viene meno anche
la legalità internazionale: il trasferimento dell’ambasciata Usa a
Gerusalemme, lunedì, è un atto simbolico o il preludio a cambiamenti
strutturali?
Trump non ha una politica chiara, è impossibile
definirlo e comprenderlo. È possibile che oggi ripaghi i suoi amici
conservatori in America e in Israele e che domani invece «ricatti»
Israele: ho spostato l’ambasciata, ho creato un conflitto con l’Iran,
ora dovete accordarvi con i palestinesi. Chissà. Di certo l’Occidente ha
perso il controllo su tutto e Israele fa quel che vuole. A muovere i
fili in Medio Oriente sono i vari imperi e i loro alleati locali,
l’impero americano, il russo, il persiano e quello neo-ottomano.
Israele,
allo stesso tempo, gode ancora di appoggio in Europa per la crescente
islamofobia e perché visto come modello di sicurezza.
Non esiste
un’Europa sola, ma due: un’Europa dell’est che d’improvviso si scopre
«giudeofila» per giustificare la sua islamofobia; e poi un’Europa
dell’ovest preda di poteri nuovi come in Italia i 5stelle, che non hanno
idea della questione. In tale caos dominato dalla paura, in nome di una
falsa sicurezza si sacrificano i diritti. E il modello è Israele.