Il Fatto 12.5.18
“È falso che le pene alternative diminuiscano i casi di recidiva”
Riforma
penitenziaria. Un ricercatore smonta la tesi del governo: “Non provato
che chi sta in cella torni a commettere reati più spesso”
di Gianni Barbacetto
Le
pene alternative riducono la recidiva. Cioè chi sconta la sua pena
fuori dal carcere poi delinque meno di chi resta chiuso in cella. Questo
è l’assunto su cui poggia la riforma penitenziaria in corso
d’approvazione, ripetuto a gran voce dai suoi sostenitori, che
richiamano le ricerche e i dati forniti dalla amministrazione
penitenziaria.
Chi accede alle misure alternative, dicono i dati,
incorre nella recidiva solo nel 30 per cento dei casi, mentre chi sconta
l’intera pena in carcere è recidivo al 70 per cento: è un argomento
convincente per aprire il più possibile le celle. “Peccato che non sia
vero”, dice Roberto Russo, ricercatore e docente di Diritto, che si è
preso la briga di andare a controllare. “Si continua a ripetere che il
soggetto ammesso alle misure alternative compia altri reati tre volte
meno di un soggetto che non ha potuto accedere a questi benefici, ma mi
sono chiesto: qual è la statistica da cui lo si deduce? L’ho cercata:
non c’è”.
Russo ha trovato lo studio a cui i sostenitori della
riforma fanno riferimento: si intitola “Le misure alternative alla
detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva”, è
stato scritto da Fabrizio Leonardi e pubblicato nel 2007 sulla rivista
Rassegna penitenziaria e criminologica. “Molti lo citano, ma pochi
l’hanno letto”, sorride Russo. “Prende in esame un certo numero di
detenuti (8.817 per la precisione) ammessi al beneficio dell’affidamento
in prova e che abbiano finito di scontare la loro pena nel 1998. Poi
conta quanti di questi, al settembre 2005, ci siano ‘ricascati’, cioè
siano stati nuovamente condannati in via definitiva. Sono solo 1.677,
quindi il 19 per cento”.
Addirittura molto meno del 30 per cento.
Tutto bene, quindi? “No, perché sono stati contati non quanti hanno
commesso reati, ma quanti sono stati condannati in via definitiva entro
il 2005”. Ossia: sono stati conteggiati soltanto quelli che, usciti dal
carcere nel 1998, hanno commesso un nuovo reato, sono stati individuati
(“cosa non scontata considerando l’alta percentuale dei crimini
impuniti”), e infine processati in primo grado, in appello ed
eventualmente anche in Cassazione, con sentenza definitiva emessa entro
il settembre 2005.
“Capite bene che è un miracolo che siano più di
mille, visto quanto durano i processi”. Da questa statistica restano
fuori, spiega Russo, “tutti quelli che hanno compiuto reati ma non sono
stati presi. E tutti quelli che, benché individuati, nel settembre 2005
erano sotto processo ma non avevano ancora avuto una sentenza
definitiva”.
Russo osserva poi che “uno studio serio che abbia
l’obiettivo di misurare davvero il tasso di recidiva deve profilare
anche un ‘gruppo di controllo’: cioè bisognava esaminare tutti i
soggetti che hanno avuto il fine pena nel 1998, dividerli in due
categorie (quelli che hanno avuto accesso alla misura alternativa e
quelli che non l’hanno avuta) e vedere se tra i due insiemi, a settembre
2005, vi fosse un significativo scostamento circa l’incidenza della
recidiva. Solo allora si sarebbe potuto trarre delle conclusioni”.
Russo
aggiunge un altro elemento, citando lo stesso autore dello studio del
2007, che avvertiva: “È bene ricordare che le persone ammesse alle
misure alternative sono selezionate con un’attenzione all’affidabilità,
una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità
che le stesse persone commettano nuovi reati”.
La “scrematura” è già fatta scegliendo le persone che non dovrebbero tornare a delinquere.
“Un
esempio paradossale aiuta a comprendere”, continua Russo: “Volendo
dimostrare il beneficio di un prodotto dimagrante, lo vado a testare non
sulla generalità della popolazione, ma su persone scelte perché fanno
sport e poi vado a misurare l’efficacia del prodotto un anno dopo che
hanno smesso di farlo, scoprendo che solo il 19 per cento è in
sovrappeso, mentre nel resto della popolazione è in sovrappeso il 70 per
cento. Insomma: mi pare che le mie osservazioni dimostrino al di là di
ogni ragionevole dubbio che non vi è alcuna possibilità di fondare
scelte di politica criminale su uno studio che aveva tutt’altre finalità
e che quindi non ha alcuna colpa circa l’utilizzo che ne viene fatto”.
Ora
la riforma penitenziaria, già approvata dal governo Gentiloni il 16
marzo, dovrà essere esaminata in Parlamento: non certo a breve, nelle
“commissioni speciali” già nate alla Camera e al Senato, ma nella
commissione Giustizia che nascerà dopo la formazione di un governo. Sarà
un calvario: favorevoli Pd e Forza Italia, contrari però sia il M5s sia
la Lega, che anzi la definisce “riforma svuotacarceri” o addirittura
“salvaladri”.