venerdì 11 maggio 2018

il manifesto 11.5.18
Iran tra le braccia della Cina e meno sicurezza per tutti
Le conseguenze. La chiusura di Trump apre scenari inquietanti in un Medio Oruiente già in fiamme. A Teheran la politica militare non la decide il moderato Rohani, ma il leader supremo Ali Khamenei. E i pasdaran in un clima di instabilità potrebbero anche tentare il colpo di mano,
di Farian Sabahi


La decisione di Trump di chiudere all’Iran, nonostante il rispetto dell’accordo verificato dall’Aiea, ha molteplici conseguenze e non solo per le imprese. In prima battuta, il prezzo del barile resterà alto a beneficio di Teheran e Mosca, per le tensioni regionali ma anche perché le nuove sanzioni Usa ostacolano gli investimenti tecnologici nel settore energetico di imprese europee come Total. In seconda battuta, gli iraniani rischiano di finire tra le braccia dei cinesi, in grado di acquistare il loro petrolio e di rifornirli di tutto quanto necessario, facendosi beffe delle sanzioni occidentali.
A FAR RIFLETTERE sono poi le conseguenze per lo Stato ebraico in termini di sicurezza. Il premier Netanyahu e i gruppi pro-Israele si sono subito complimentati con Trump, ma a distanza di qualche giorno i toni si smorzano perché la situazione sembra degenerare, tant’è che i tafferugli sulle Alture del Golan hanno indotto il Dipartimento di Stato americano a mettere in allerta i propri cittadini: potrebbero trasformarsi in una guerra scatenata dagli Hezbollah libanesi, dalla Siria di Assad e dai pasdaran contro lo Stato ebraico. Uno scenario da non sottovalutare, soprattutto dopo i bombardamenti israeliani che mercoledì notte hanno preso di mira le postazioni iraniane in Siria.
La politica militare non è prerogativa del governo moderato di Rohani, ma del leader supremo Ali Khamenei, anziano e non in ottima salute: la situazione potrebbe sfuggirgli di mano. Ora che la Repubblica islamica sta per compiere quarant’anni, in una situazione di instabilità non sarebbe da escludere un colpo di Stato dei pasdaran, che da tempo controllano posti chiave della politica e una bella fetta dell’economia. In previsione di una guerra aperta, l’Idf (Israeli Defense Forces) ha richiamato un certo numero di riserve pur sapendo di poter contare sull’appoggio incondizionato del Pentagono.
INTANTO, L’IMPRESSIONE è che gli esponenti delle organizzazioni ebraiche negli Stati uniti siano troppo lontani dal Medio Oriente per capirne i meccanismi o forse, banalmente, non rischiano di mettersi l’elmetto e finire al fronte. Due esempi. Amministratore delegato dell’American Jewish Committee, Davis Harris si era opposto all’accordo, in tempi recenti si era limitato ad augurarsi un suo «miglioramento ma non la cancellazione», mentre ora teme «il divario che potrebbe aprirsi tra Washington e i partner europei, da cui l’Iran potrebbe trarre vantaggio». A capo della Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane, Stephen M. Greenberg auspica «un accordo più ampio, che includa il divieto di un programma missilistico a corto e lungo raggio, nonché un qualsiasi tipo di armamento da parte dell’Iran». Il tutto condito da «sanzioni al sistema bancario e all’energia».
A LEGGERE LE DICHIARAZIONI di Harris e Greenberg, sembra che non si rendano conto che l’accordo con Teheran è un’intesa multilaterale raggiunta con un’intensa trattativa diplomatica e non si può rinegoziare inserendo il programma missilistico. Non è poi chiaro per quale motivo, dopo aver abdicato alla sovranità nucleare, gli iraniani dovrebbero rinunciare pure ai missili, da loro concepiti come sistema di deterrenza in un Medio Oriente armato fino ai denti, in cambio di… ulteriori sanzioni.
UNA VISIONE PIÙ CHIARA sembra averla il professore Naftali Tishby, scienziato della Hebrew University di Gerusalemme incontrato a un convegno della Sissa, la International School for Advanced Studies di Trieste: «Non credo che Trump abbia fatto la cosa giusta: mandare a monte l’accordo crea un’atmosfera negativa in un Medio Oriente già in fiamme». E aggiunge: «La storia ci ha resi paranoici, ci sentiamo minacciati dalla retorica della dirigenza iraniana che non riconosce il nostro Stato».
Pur essendo un uomo di sinistra come buona parte del corpo accademico di Israele, Tishby non esita a dirsi «favorevole a un bombardamento chirurgico dei siti nucleari iraniani, come in Siria in Iraq. Peccato siano ben protetti, sottoterra, in località difficilmente raggiungibili per i nostri aerei».