il manifesto 11.5.18
L’ira antisistema ostile alla libertà
Salone
 internazionale del Libro di Torino. Intervista con Yascha Mounk autore 
del volume «Popolo vs Democrazia». Una radiografia della crisi dei 
sistemi politici liberali e della crescente disaffezione alla politica. 
Lo studioso di origine tedesca presenterà oggi il suo saggio alla 
kermesse editoriale di Torino
di Benedetto Vecchi
Tagliente
 nei giudizi, chiaro nell’esporre il suo punto di vista e capace di 
offrire una visione semplice di un mondo tuttavia complesso. Yascha 
Mounk ha dalla sua anche la giovine età che lo porta a disattendere 
convenzioni e modi d’essere dell’Accademia universitaria. Nel suo primo 
libro (Stranger in My Own Country. A Jewish Family in Modern Germany, 
Farrar Straus and Giroux) rende, ad esempio, pubblico il malessere di un
 giovane di origine ebraica che si sente straniero nel paese, la 
Germania, dove è nato. Un memoir dove il tema dell’identità è affrontato
 con disincanto, rifiutando tuttavia la facile strada della 
rivendicazione di una appartenenza senza tempo consapevole del fatto che
 nel paese di nascita non c’è stata mai una rielaborazione sul nazismo, 
ma solo una consolatoria e autoassolutoria condanna del Terzo Reich. 
Oppure hanno destato sospetto e discussione le tesi contenute nel suo 
libro The Age of Responsibility. Luck, Choice and the Welfare State 
(Harvard University Press) dove sostiene che la responsabilità, termine 
frequentemente usato da esponenti politici conservatori, deve diventare 
un concetto chiave nel lessico politico della sinistra dato che la 
responsabilità verso gli altri è stata la leva fondamentale nella 
costruzione del welfare state.
Mounk, che insegna negli Stati 
Uniti, si è schierato contro la candidatura di Donald Trump, 
sottolineando però che il suo populismo è tutto meno che un fenomeno 
politico e sociale folkloristico. Il populismo, per Mounk, va preso sul 
serio perché costituisce il pericolo maggiore per la democrazia. È 
questo il tema del suo libro Popolo vs Democrazia (Feltrinelli, pp. 333,
 euro 18), che sarà presentato oggi al Salone internazionale del libro 
di Torino (ore 15.30, sala Blu). E questo il tema dal quale ha preso 
avvio l’intervista avvenuta tra uno un appuntamento di lavoro tra Milano
 e la città piemontese.
Nel suo libro scrive della fine della 
grande illusione che ha tenuto banco dopo il crollo del Muro di Berlino.
 Il mondo, questa la retorica dominante, stava entrando in un periodo di
 benessere, mentre la democrazia sarebbe stato il destino politico per 
tutti i paesi. Lei sostiene che a quella illusione è subentrata un’era 
di tensioni, conflitti e dove la democrazia non è il destino manifesto 
dei sistemi politici….
Allora veniva affermato che la 
globalizzazione economica avrebbe consentito la crescita del benessere 
su tutto il pianeta. Superata una soglia di benessere, la democrazia 
sarebbe stata alla portata di tutti i paesi. La situazione è cambiata 
con la crisi economica e quando in paesi di recente democratizzazione ci
 sono state elezioni all’interno di un quadro di forte limitazione di 
libertà di stampa, di associazione. Mi riferisco a paesi come 
l’Ungheria, la Polonia. Ci troviamo di fronte a situazioni che potremmo 
definire di democrazia senza diritti. Qui la parola chiave è il popolo, 
che deve essere rappresentato nella sua organicità. Il populismo 
tuttavia non riguarda solo l’Europa. È infatti un fenomeno politico 
globale.
Molti commentatori dipingono il populismo come una 
cultura politica antisistema. Potrebbe, all’opposto, essere visto come 
una ciambella di salvataggio per sistemi politici in deficit di 
legittimazione e in crisi di rappresentanza….
Il populismo non è 
certo un fenomeno unitario, eguale sempre a se stesso. Podemos è cosa 
diversa dalle formazioni populiste dell’Europa del Nord. Ma tutti i 
populisti sono antiestablishment. O come dice lei antisistema. Non penso
 vada cercata una coerenza da parte dei partiti populisti. Spesso 
esponenti politici populisti esprimono posizioni antitetiche l’una con 
l’altro nell’arco della stessa giornata. Quel che rimane costante è la 
critica all’operato del governo perché corrotto; perché trama contro gli
 interessi del popolo. La critica riguarda anche i media, colpevoli di 
falsificare la rappresentazione della realtà. Il governo, i media e gli 
altri partiti politici sono cioè responsabili di soprusi, ingiustizie 
sistematiche. Non penso dunque che il populismo funzioni come ciambella 
di salvataggio.
Ho seguito con attenzione la diffusione di parole 
d’ordine populiste in Germania: la dominante era il terrore che il 
primato economico tedesco potesse essere messo in discussione. Il 
populismo era cioè declinato dentro una cornice nazionalista. In Italia,
 invece il declassamento del ceto medio, la crisi economica, 
l’impoverimento della popolazione è stato l’ordine del discorso che ha 
trovato un forte collante nella denuncia della corruzione, dei privilegi
 della casta. Qui i sentimenti dominanti sono stati l’ira cieca contro 
le ingiustizie, il risentimento.
Inizialmente, Beppe Grillo 
proponeva una idea di comunità tollerante, aperta, giovane: cosa diversa
 dall’establishment vecchio, egoista, corrotto e avido rappresentato dai
 vecchi partiti. Ma il movimento dei 5 Stelle ha poi veicolato una 
visione chiusa della comunità, alimentando una logica complottista in 
base alla quale tutti gli altri politici erano in combutta per 
annientare la voglia di libertà, di pulizia, di tutela dei beni comuni 
espressi dal popolo.
Nel suo libro, lei si sofferma sul fatto che 
la democrazia corre il rischio di rimanere ostaggio delle élite. Cita il
 caso del denaro necessario per essere eletti al Congresso e al Senato 
degli Usa….
Per essere eletti al Congresso o al Senato 
statunitense servono milioni di dollari. Per questo le èlite sono 
avvantaggiate. Spesso i candidati fanno già parte di circoli economici e
 finanziari che possono favorire il finanziamento della campagna 
elettorale . Fanno parte dell’élite anche i lobbisti È costume negli Usa
 che grandi imprese o grandi azionisti finanziano candidati in maniera 
tale da condizionare il loro operato una volta eletti. Anche qui i 
rischi della democrazia sono alti. Se invece guardiamo a paesi non 
democratici, scopriamo che le leadership funzionano come caste separata 
dal resto della società e che riproducono se stessi secondo logiche 
familiste.
La depoliticizzazione è un altro dei temi che lei 
affronta. La democrazia più che far crescere l’attenzione verso la 
gestione della cosa pubblica sembra favorire la depoliticizzazione. È 
così?
In tutto i paesi democratici c’è una caduta nella 
partecipazione alle elezioni. Spesso il numero dei votanti costituisce 
una minoranza della popolazione. I partiti perdono iscritti. Tutti i 
tentativi di rivitalizzare i partiti non funzionano come dovrebbero. La 
cosiddetta società civile privilegia gli affari privati, la logica 
amicale del piccolo gruppo che si incontra per condividere ansie e 
speranze che rimangono private. Il populismo non ferma la 
depoliticizzazione. Semmai l’accelera quando sostiene che i politici 
fanno parte di una casta che tutela solo i loro interessi.
Lei 
sostiene che i social media sono il vettore di propagazione del 
populismo che proponeva un futuro roseo. Eppure i social media 
prospettano più che un futuro un eterno presente….
I social media 
sono stati presentati dai tecno-ottimisti come il mezzo, lo strumento 
per una democratizzazione radicale dei media. Questo fino al 2010, 2011.
 Ci sono state anche dei tumulti, rivolte qualificate come twitter 
revolution. Poi è subentrato un pessimismo radicale sulle capacità 
liberatoria dei social media. Sono stati considerati una sorta di 
potente strumento di manipolazione dell’opinione pubblica che per di più
 istupidiva le persone. Certo i social media mettono in discussione il 
potere dei media tradizionali, ma rispondono comunque alla stesso logica
 economica. Per quanto riguarda il populismo, i social media sono stati 
un vettore per la sua diffusione. Da questo punto di vista il Movimento 5
 stelle è stato un case study interessante per comprendere il potere di 
un nuovo media che fa della critica ai vecchi media il proprio marchio 
di origine.
 
