il manifesto 1.5.18
Il Sessantotto incompiuto di Alain Badiou
Saggi. «Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68» per le Edizioni Orthotes, a cura di
di Marco Assennato
«In
occasione del cinquantenario del Maggio 68», Alain Badiou prende la
parola per rompere la doppia morsa della celebrazione ebete e della
condanna all’oblio. In questione sono tanto «l’idea vaga che troneggia
in testa agli articoli-anniversari» – il 68 come ribellione di costume,
«ultima utopia», «danza della storia a suono di rock» – quanto
l’immagine del 68 come premessa dell’individualismo neoliberale
contemporaneo.
«L’attualità del Maggio 68» si disegna invece come
«riserva di coraggio» da scagliare contro due dispositivi di accecamento
contemporanei: la morale del capitale umano, del merito e del successo
atomizzante, da una parte; e dall’altra le prediche apocalittiche e
reazionarie secondo cui «è più semplice ormai immaginare la fine del
mondo che quella del capitalismo».
LA PUBBLICAZIONE di questo
piccolo pamphlet – Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68 (pp.
112, euro 14) per le Edizioni Orthotes è quindi opportuna e coraggiosa: è
una bella immagine questa del filosofo che rivendica una carica di
speranza contro tanti corvacci stanchi.
Si tratta insomma di
tornare ad interrogare l’evento, innanzitutto per restituirgli la sua
intrinseca complessità. Il 68 non è stato un fenomeno unitario,
piuttosto una molteplicità eterogenea. «Ci sono stati tre maggio 68»,
scrive Badiou, a volte in polemica tra loro, spesso effimeri, e tuttavia
certamente potenti: il maggio studentesco – che ha segnato una forma
radicale di critica alla democrazia rappresentativa; quello operaio –
scosso da «scioperi selvaggi» e «insubordinazione» alle istituzioni
tradizionali della sinistra storica, tanto socialista quanto comunista; e
quello libertario, deposito prezioso di un profondo rinnovamento delle
pratiche teoriche, artistiche e culturali. Ma, aggiunge Badiou, fornendo
così una torsione decisiva al suo pensiero, in «questa effervescenza
contraddittoria» la componente «essenziale» è costituita da «un quarto
Maggio 68, che prescrive il nostro avvenire».
C’È UN’ARIA di
rinnovamento che percorre queste pagine badiousiane, come se il filosofo
tendesse a fare i conti con il reale. Se fino alla sua celebre
riscrittura della Repubblica di Platone, Badiou aveva tolto di mezzo
ogni possibilità di concretare il kairòs in qualsivoglia
cristallizzazione storica osservabile, questo suo 68 si vuole invece
come evento esemplificato. Di più: esso si inscrive in una genealogia –
le lotte operaie che attraversano la Normandia e le periferie francesi
lungo il 1967 – e si stende nei due decenni successivi. «L’evento – nota
correttamente Alberto Destasio nella postfazione del volume – non è
sciolto dal plesso con la storia, non è incondizionato. Ogni evento è
storico». Più che esaltarne l’emergenza, si tratta insomma di misurarlo
con «la tenacia delle sue conseguenze». Il quarto Maggio è quello che
decreta la fine delle vecchie forme della politica e interroga le sue
nuove e necessarie dimensioni: «che cosa è la politica» oggi? Quale
forma organizzativa dobbiamo inventare, dentro la crisi della
democrazia, per «farla finita con le leggi del profitto»? Ecco l’eredità
viva del Maggio francese.
TUTTAVIA, giunti al punto massimo di
tensione, il platonismo di Badiou torna pesantemente e precipita
indietro il percorso svolto. Di nuovo, manca radicalmente ogni idea
della produzione, tanto dei beni quanto dei soggetti. Anzi: è proprio a
partire dalla completa obliterazione di ogni «agente soggettivo» che si
manifesta la «distensione nichilista» di Alain Badiou. La politica
comunista è una «Pura Idea», necessaria alla vita.
Dopo un elogio
sperticato, e un poco ridicolo, del maoismo francese, il quarto Maggio
vola nell’Iperuranio: urge «la ricerca di un’altra politica, illuminata
dalla presenza immanente degli intellettuali», che – come insegna il
comandante della lunga marcia – restituiscano alle masse «in modo
preciso» ciò che esse consegnano «in maniera confusa». Nessuna inchiesta
sulle singolarità antagoniste, anzi. Il filosofo non insegue le
pratiche di lotta, né la sua conoscenza deriva da esse, piuttosto le
chiarisce esattamente in forza della propria separatezza. Torna così
l’ipotesi del comunismo come ideologia, utopia metafisica, radicalmente
esterna all’agire collettivo, che già conosciamo. Dalla cattedra,
tuttavia, non è possibile alcuna virtù, tantomeno quel «coraggio di
ribellarsi» che attraversa tutto il libro.
COME REPLICARE a
Badiou? C’è un celebre testo, scritto da Gilles Deleuze – cui Badiou
rende un fuggitivo omaggio – e Felix Guattari, nel 1984, che varrebbe la
pena accostare a questo libretto, per sbloccarne l’impasse. Anche lì
era questione di evento. Notavano allora Deleuze e Guattari: il 68 non
nasce da una crisi, è piuttosto la – lunghissima – crisi attuale che
nasce dall’incapacità della società europea di operare una riconversione
soggettiva di quanto accaduto cinquant’anni fa. Gli autori di Mille
Plateaux ci hanno insegnato a rileggere il desiderio comunista come
qualcosa che si costruisce dentro all’ammodernamento delle forme
produttive, come fame di ricchezza e gioia della riappropriazione.
«L’evento – scrivevano Deleuze e Guattari – crea una nuova esistenza,
produce una nuova soggettività». Oppure non si genera. Perché non si dà
critica fuori dalla densità di un agente storico e forse, ormai, non si
dà neppure filosofia.