Il Fatto 5.5.18
Strategie opposte, Israele e la Corea del Nord
Lo stallo atomico non significa pace
Gerusalemme
 vuole indebolire Teheran per rimuovere l’ostacolo nucleare all’egemonia
 sul Medio Oriente. Kim usa la minaccia della bomba per uscire 
dall’isolamento, aiutato dalla Cina
di Fabio Mini 
Che
 la partita siriana fosse un preliminare di quella più ampia per il 
controllo del Medio Oriente era chiaro. Anzi, le incertezze europee e 
americane nel portare a conclusione uno scontro che ormai aveva soltanto
 perdenti potevano essere attribuite al timore che la partita si 
chiudesse davvero.
Quasi a sperare che allungando l’agonia 
dell’avventura americana in Iraq e Siria si potesse evitare il caos in 
tutta la regione. Si guardava ai protagonisti, Russia e Stati Uniti, e 
alle loro schermaglie fatte di attacchi, parate e finte con un misto di 
ansia e rassicurazione: finché i due erano in campo non avrebbero 
rischiato un conflitto diretto (globale) per la Siria e nemmeno per 
tutto il Medio Oriente. Lo ha dimostrato l’ultimo tragicomico attacco 
alla Siria condotto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia col permesso
 e la supervisione della Russia. Lo ha dimostrato il cinismo col quale 
perfino l’Europa ha preferito lo stallo cruento a una soluzione 
incruenta. Agonia operativa e stallo non avevano però il favore 
d’Israele che dalle crisi e dal coinvolgimento internazionale alle porte
 di casa ha sempre cercato di trarre il maggior profitto. Proprio 
all’interno delle aree di crisi ha trovato posto e modo per alimentare i
 conflitti e provocare reazioni violente con pretesti di ogni genere.
Al
 di là delle retoriche belliciste, Israele non rischia l’estinzione, 
come un tempo, e nemmeno l’invasione o l’attacco esterno. Non difende i 
confini ma li trasforma in basi per l’attacco. Provoca l’Iran e nega le 
sue promesse internazionali riguardo agli armamenti nucleari come se 
esso stesso non fosse l’araldo della inadempienza e della proliferazione
 nucleare. Il programma “segreto” (mai smentito) di armamento atomico 
israeliano va avanti dagli anni 70 e si stima che siano ora operativi 
dai 200 ai 400 ordigni. Israele dispone anche dei vettori (artiglierie 
terrestri, aerei e missili) per colpire tutto il Medio Oriente e metà 
Europa e Africa. Ma soprattutto Israele disconosce qualsiasi trattato di
 non proliferazione e possiede la volontà e la dottrina operativa per 
condurre attacchi nucleari. I pretesti non sono un problema. L’armamento
 nucleare israeliano non serve alla deterrenza regionale, anzi è il 
motivo di discordia e destabilizzazione fondamentale. Serve però a 
deterrere gli americani, i russi e gli europei. La minaccia nucleare 
israeliana coinvolgerebbe tutti in uno scontro globale.
Di contro,
 nemmeno le cosiddette “prove” portate in televisione (in inglese) 
dimostrano che l’Iran abbia una qualche capacità nucleare oltre a studi 
datati e fantasie pseudo-scientifiche. Il premier Bibi Netanyahu ha 
“rivelato” cose risapute per giustificare i suoi continui attacchi in 
Siria, Iraq, Libano e Palestina. Approfitta del caos per eludere i 
problemi interni e personali; approfitta della debolezza del presidente 
americano Donald Trump sottoposto a duro scrutinio politico e penale 
cercando d’influenzarne le scelte proprio riguardo all’Iran. Cerca in 
ogni modo di far precipitare la situazione sul terreno e rompere lo 
stallo dei Grandi. Tutto questo non è un piano di contingenza per 
conseguire un obiettivo tattico, ma un piano avviato già con il primo 
sionismo di Theodor Herzl e teorizzato nel 1982 da Oded Yinon per 
esercitare un potere egemone su tutto il Medio Oriente, dal Nilo 
all’Eufrate, con la fratturazione degli Stati esistenti in entità 
minuscole.
L’obiettivo israeliano può essere ipotetico, ma la 
cultura della guerra e gli strumenti militari di cui Israele si è dotato
 sono calibrati per quello. E sono reali. L’Egitto di Nasser, la Libia 
di Gheddafi, l’Iraq di Saddam e gli Stati arabi erano i grandi ostacoli e
 sono stati tutti rimossi. Rimanevano la Siria e l’Iran. Ora la prima è 
destinata alla frantumazione e quindi l’Iran, con o senza bomba atomica,
 è l’unico ostacolo a questo progetto: è presente in Iraq, dialoga con 
la Turchia, la Russia e la Cina, regge le sorti della Siria, ha milizie 
in Palestina, Libano e Yemen; sostiene tutte le minoranze/maggioranze 
sciite, non ha alcuna pretesa territoriale ai propri confini e, al 
contrario del sunnismo/wahabismo, non fa proselitismo religioso o 
diffusione del terrorismo. Israele non teme la forza militare iraniana, 
ma se l’Iran avesse capacità nucleare legalizzata e riconosciuta si 
dovrebbe confrontare con uno stallo nucleare che vanificherebbe 
qualsiasi motivazione egemonica. Israele preferisce la libertà d’azione,
 intesa come libertà di bombardare chiunque. Stati Uniti, Russia ed 
Europa stanno a guardare impotenti e rassegnati.
Dall’altra parte 
del mondo, in Estremo Oriente, la strategia nucleare ha seguito un 
paradigma opposto. La Corea del Nord per anni aveva cercato una via per 
uscire dall’isolamento. Produceva ed esportava missili di buona qualità e
 le sanzioni e i veti internazionali la costringevano a produrre 
armamenti come risorsa unica ma insufficiente. La gente moriva di fame e
 il regime non aveva via d’uscita. La Cina, alleata storica, negli anni 
della grande carestia (’90), subiva le imposizioni internazionali e 
tagliava gli aiuti alla Corea del Nord. Nel 1994 in una settimana il 
ponte sul fiume Yalu, confine settentrionale con la Cina, fu 
attraversato da un solo camion cinese: vuoto. La Corea del Nord aveva 
sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare, ma non ci 
credeva nessuno. Le fu promesso aiuto economico in cambio della rinuncia
 ai reattori nucleari. Ogni aiuto fu sospeso perché non era disposta a 
rinunciare al proprio regime e alla propria difesa. Nel frattempo la 
Corea del Sud veniva militarizzata con una massiccia presenza americana 
anche nucleare. La richiesta nordcoreana di denuclearizzare la penisola 
coreana fu sempre respinta: la potenza nucleare era l’America.
I 
nordcoreani reagirono d’azzardo ma razionalmente: se dovevano rinunciare
 a qualcosa che non avevano dovevano soltanto procurarsela e renderla 
credibile. Si ritirarono dal trattato di non proliferazione nucleare e 
realizzarono i piani nucleari. In pochi anni la Corea del Nord è 
arrivata a minacciare gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud. 
Si moltiplicarono i test nucleari e balistici intercontinentali. La 
Corea del Nord voleva diventare una potenza nucleare riconosciuta per 
trattare “alla pari” il proprio disarmo. Contrariamente a Israele, non 
aveva timore dello stallo nucleare ma lo ricercava per evitare un 
confronto che avrebbe distrutto il proprio Paese e la parte più 
importante del Sud: Seul. La Cina ha convinto Kim Jong-un a considerare 
sufficiente la forza nucleare e missilistica raggiunta. Ciò rendeva 
superflui altri test. Ha promosso le aperture fra Nord e Sud facendo 
leva anche sul proprio ruolo quale firmataria dell’armistizio che 
regolava la divisione della penisola. Si è resa garante della sicurezza 
regionale. Un gesto da grande potenza.
Giappone, Stati Uniti e la 
Russia sono stati colti di sorpresa. Trump ha subito rivendicato la 
vittoria e spacciato le mosse di Kim per cedimento alla minaccia 
americana. Kim e il presidente sudcoreano esultano. La vittoria è la 
loro. Se non si mettono di traverso i giapponesi e i bellicosi 
repubblicani statunitensi la pace può durare. La Cina non è stata a 
guardare.
 
