Il Fatto 5.5.18
La sinistra sfrattata dal Pd cerca casa
di Veronica Gentili
C’era
una sola vera domanda che l’altroieri la Direzione del Partito
democratico sarebbe stata tenuta a porsi: che cosa sia diventata oggi la
“Ditta”, espressione coniata da Pier Luigi Bersani per definire il Pd e
a chi spetti detenerne le chiavi. Parliamoci fuori dai denti perché,
nell’abuso di parole a proposito della sinistra, il paradosso è che
spesso manca la chiarezza: la Ditta aveva semplicemente subappaltato i
suoi locali a Matteo Renzi o aveva deciso di cedergliene il marchio in
maniera irreversibile? O, per essere più precisi: la Ditta è così
profondamente diversa rispetto a quella di cui l’ex segretario prese
possesso nel 2013 che sarebbe assurdo oggi chiedergliene la
restituzione? In questo caso, nessun dibattito avrebbe ragion d’essere e
nessuna “conta” potrebbe rimettere a posto le cose: se le fondamenta, i
soffitti, le pareti della Ditta hanno davvero assorbito la
trasformazione politico-culturale della rottamazione, del “cambia
verso”, del Jobs Act, delle “riforme”, se quei locali si sono
trasformati a immagine e somiglianza di coloro che li hanno gestiti in
questi ultimi anni, anche solo pensare a un accordo con il Movimento 5
Stelle è stato del tutto privo di senso.
A quanto pare, la
Direzione di giovedì ha risposto a questa domanda con i fatti, pur
cercando di nascondersi ancora una volta dietro le parole: il reggente
Maurizio Martina ha abortito a monte qualunque contrapposizione alla
linea renziana, ha negato che ci sia mai stata la volontà di un governo
con i 5Stelle e si è limitato a chiedere la fiducia (chissà poi per
farci cosa) soltanto fino all’Assemblea di fine maggio, giustificando la
retromarcia su tutti i fronti con l’importanza dell’unità. In altre
parole, ha ammesso di essere ospite in casa d’altri, mentre il padrone
di casa, appena consacrato ufficialmente, gli batteva le mani.
D’altronde
vanno riconosciute a Matteo Renzi, e solo a lui, una coerenza
identitaria e una caparbietà politica che trovano un’ulteriore
riconferma nel rilancio di un governo istituzionale per ultimare o
riciclare le “riforme”. Il Rottamatore (soprattutto del suo partito) si è
già messo en marche e ora, dopo il 4 marzo, diversamente da quando
bluffava di più sulle sfumature, non ha alcuna intenzione di simulare
incertezza. La vocazione anti-“populista” a cui si sente chiamato lo
colloca naturalmente nel polo anti-antiestablishment, cioè nel vecchio
solco centrista che ha molti meno conflitti interni da affrontare della
fu sinistra. Dunque ormai è inutile porre a Renzi le domande sui ceti
popolari che fuggono verso altri partiti, su come ripensare il rapporto
fra il governo e i dettami dell’economia, sui rischi e i danni che
comporta la totale sudditanza ai parametri finanziari, sulle
integrazioni imposte dall’avvento della Rete al concetto di democrazia
rappresentativa, sui limiti all’utilizzo del capitale umano prima di
depauperarlo, e in definitiva su come entrare in relazione con un
movimento – quello dei Cinque Stelle – che ha raccolto e accolto gran
parte dello storico popolo democratico. Tutte queste domande
evidentemente non competono a Renzi, ma a una sinistra che, stanca del
ritornello delle “ideologie che non esistono più”, abbia sinceramente
voglia di ripensare se stessa e di trovare il proprio ruolo nella storia
contemporanea.
Ecco: la Direzione nazionale ha unanimemente
decretato che non è più nei locali del Partito democratico che questi
interrogativi e le loro soluzioni devono trovare posto. Infatti, mentre
Martina pontificava fumosamente sull’esigenza di “rifondare la cultura e
il pensiero di fondo”, il sottotesto era che tutto questo dovrà
accadere altrove. Sfrattata dal Nazareno, la sinistra italiana cerca
casa.