venerdì 4 maggio 2018

Il Fatto 4.5.18
Il “signor X” per non lasciare ai Br i 10 miliardi di Paolo VI
di Miguel Gotor


Oggi sappiamo che Toni Chichiarelli, un falsario di quadri di Giorgio de Chirico in rapporti con la Banda della Magliana, con i Servizi segreti italiani e i carabinieri del Nucleo per la tutela dei beni culturali, scrisse il falso comunicato del Lago della Duchessa. Oggi sappiamo anche che il magistrato Claudio Vitalone, stretto sodale del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ebbe l’idea di scrivere un comunicato apocrifo, a suo dire sotto l’egida e il controllo dell’autorità giudiziaria. La proposta di Vitalone però fu ufficialmente rifiutata, anche se, in tutta evidenza, orecchie sensibili e attente decisero di realizzarla lo stesso utilizzando una figura non direttamente riconducibile alle istituzioni come Chichiarelli. Nel 2006, anche il consulente inviato nei giorni del rapimento dal governo statunitense Steve Pieczenick ha confermato che l’antiterrorismo italiano escogitò il falso comunicato. Non abbiamo la prova di un rapporto di conoscenza diretto tra Andreotti o, più verosimilmente, tra gli esponenti romani della sua corrente e Chichiarelli, anche se una serie di evidenze lo rendono altamente probabile.
Anzitutto Franco Evangelisti, uomo di fiducia di Andreotti e in quei giorni suo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, era uno dei principali collezionisti di De Chirico in Italia, possedendo ben 25 quadri dell’artista. Egli perciò era inevitabilmente interessato a conoscere il mercato del falso del suo autore preferito per avere la certezza dell’autenticità e, dunque, dell’effettivo valore economico del proprio “bene rifugio”. Inoltre, nel corso del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, è stata riesumata una vecchia inchiesta giudiziaria riguardante il mondo delle gallerie d’arte romane degli anni Settanta e alcuni personaggi collegati all’entourage andreottiano, che ha consentito di chiarire come tra gli strumenti di finanziamento del sottobosco politico capitolino vi fosse l’abitudine di impegnare presso il Banco di Santo Spirito copie false di quadri di autori prestigiosi (e De Chirico andava per la maggiore) a garanzie di prestiti in denaro frusciante. In secondo luogo, sempre grazie al processo Pecorelli, è stato appurato che il magistrato Vitalone intratteneva rapporti, privi di un profilo penale, con alcuni esponenti della Banda della Magliana frequentati anche da Chichiarelli. In terzo luogo sappiamo che Andreotti ha conservato nel suo archivio una specifica cartella dedicata alle gesta dell’autore del falso comunicato del Lago della Duchessa che recava un rimando autografo di questo tenore: “Alle carte Moro-Chichiarelli”, come se esistesse un altro fascicolo con ulteriori approfondimenti.
Infine è stato lo stesso Andreotti nel 2003 a stabilire un diretto contatto tra questa figura di falsario, il comunicato apocrifo del 18 aprile 1978 e la trattativa in corso del Vaticano per ottenere la liberazione di Moro mediante il pagamento di un riscatto in denaro di dieci miliardi di dollari, raccolti da Paolo VI e conservati a Castel Gandolfo. Un negoziato segreto portato avanti nelle vesti di emissario pontificio dall’ispettore generale dei cappellani carcerari, monsignor Cesare Curioni, che in quei giorni lavorava al ministero della Giustizia, e dal suo collaboratore, monsignor Fabio Fabbri. In un’intervista del settembre del 2003, Andreotti ha affermato che un terrorista detenuto, “un certo signor X”, aveva fatto sapere che “avrebbe potuto fare da intermediario per il pagamento della somma” e che il contatto arrivava dal carcere milanese di San Vittore, dove monsignor Curioni aveva esercitato per molti anni il ruolo di cappellano. Il brigatista detenuto, per dimostrare di non essere un volgare impostore, aveva sostenuto che il comunicato del Lago della Duchessa del 18 aprile era un falso e che loro, le “vere Br”, lo avrebbero smentito, collocando quindi necessariamente la proposta del misterioso interlocutore tra il pomeriggio del 18 aprile e l’intero giorno successivo.
Il 9 maggio 2004, sempre Andreotti ha fornito una nuova versione affermando che un sedicente brigatista, di cui però non veniva più detto che era in stato di detenzione, aveva addirittura anticipato l’uscita del comunicato del 18 aprile, quello che annunciava la morte di Moro, sostenendo tuttavia che non bisognava spaventarsi perché la notizia era falsa. A ben guardare, questa rivelazione era assai più impegnativa della prima, anzitutto perché è temporalmente collocabile prima del 18 aprile e in secondo luogo in quanto, dopo il falso comunicato del Lago della Duchessa, era prevedibile una successiva reazione di smentita da parte dei brigatisti, come puntualmente avvenne. In base a questi avvenimenti appare illogico che il “signor X” detenuto avesse utilizzato un argomento tanto fragile per accreditarsi davanti a un interlocutore che, non dimentichiamo, aveva la responsabilità di gestire dieci miliardi di dollari per conto del Papa e doveva decidere se consegnarglieli o no in cambio della liberazione di Moro, che sarebbe dovuta avvenire in una zona extraterritoriale di proprietà del Vaticano. Al contrario, sarebbe stato ben più efficace se il sedicente brigatista, come lo stesso Andreotti ha rivelato nel 2004, avesse anticipato l’uscita di un documento delle Br annunciante la morte di Moro e allo stesso tempo, per tranquillizzare il suo interlocutore, avesse detto di essere certo che la notizia era falsa. Infatti, una volta divulgato quel comunicato, come avvenne la mattina del 18 aprile, egli avrebbe certamente raggiunto l’obiettivo che si prefiggeva, ossia affermarsi agli occhi dei mediatori vaticani come referente credibile, effettivamente in contatto con i brigatisti di cui era addirittura in grado di anticipare le mosse e, di conseguenza, come l’unico tramite sicuro a cui poter affidare l’ingente somma in ballo.
Dal momento che il falso comunicato del Lago della Duchessa è stato redatto da Chichiarelli sul piano logico se ne trae la deduzione che solo l’autore materiale dell’apocrifo, o persona a lui strettamente legata, poteva avere la certezza intorno al 16-17 aprile di prevedere le mosse che egli stesso in quelle ore stava escogitando e di annunciarle per farsi dare il denaro dall’emissario del Vaticano la volta in cui il comunicato fosse effettivamente uscito, ossia il 18 aprile. Da ciò si evince con ragionevole certezza che il misterioso interlocutore di Curioni in quei giorni fu proprio Chichiarelli o, al massimo, un suo compare da lui informato del progetto, che indossava i simulati panni del brigatista dissidente o favorevole alle trattative per impedire che quell’ingente somma di denaro raccolta autonomamente dal Vaticano e mal tollerata dal governo e dell’antiterrorismo italiano finisse davvero nelle mani sbagliate: non tanto le sue, ma quelle dei brigatisti, che con quei soldi avrebbero finanziato la lotta armata in Italia per il successivo decennio.
Tuttavia la famiglia pontificia dovette mangiare la foglia, non cadere nella trappola escogitata dall’antiterrorismo italiano per rientrare della somma di denaro di cui non aveva potuto impedire la raccolta essendo stata promossa da uno Stato estero e non pagò.
Un’ulteriore conferma di questo racconto è venuta recentemente da monsignor Fabbri, audito dall’ultima Commissione Moro. Il sacerdote, infatti, che agli inizi degli anni Novanta, sempre insieme con monsignor Curioni, è stato coinvolto anche nella cosiddetta trattativa “Stato-mafia”, ha dichiarato di avere fornito a Paolo VI una foto di Moro senza giornale e dunque non databile con certezza con l’obiettivo di dimostrare l’esistenza in vita dell’ostaggio, prerequisito necessario per avviare il pagamento del riscatto. Tuttavia il Pontefice non si fidò (“‘questa fotografia non mi dice che è vivo’, fu questa la battuta del Papa”) e chiese una diversa conferma, ossia una nuova polaroid che consentisse di accertare l’esistenza in vita dell’ostaggio. Si tratta della foto che le Brigate rosse furono costrette a distribuire il 20 aprile come risposta alla provocazione del falso comunicato del Lago della Duchessa, con Moro che stringeva tra le mani una copia di Repubblica del 19 aprile 1978. Davanti alla Commissione, monsignor Fabbri ha tenuto a specificare che entrambe le foto vennero consegnate al Papa riservatamente, prima cioè che fossero divulgate al grande pubblico. Inoltre ha aggiunto che l’interlocutore di Curioni, per dimostrare la propria attendibilità, gli aveva fatto vedere, in tempi diversi, due fotografie del presidente della Dc a suo dire scattate durante la reclusione nel carcere del popolo. Infine ha dichiarato che Andreotti in persona strinse un accordo con Curioni affinché fosse tenuto sino alla morte fuori da ogni processo riguardante la vicenda Moro, come in effetti è accaduto.
Occorre notare che nel marzo del 1985, un amico di Chichiarelli, nel frattempo assassinato da ignoti, sostenne davanti al magistrato che costui gli aveva confessato “di avere fotografato (Moro) con la sua polaroid e di avere conservato un paio di fotografie scattate nella circostanza: foto delle quali io non ho mai preso visione”. Al di là della veridicità delle impegnative affermazioni attribuite a Chichiarelli nel 1985, è interessante mettere in evidenza che l’argomento delle due fotografie coincide con quanto raccontato da monsignor Fabbri, ma anche con quanto sostenuto dal “sedicente mister X” in contatto con il Vaticano nella primavera del 1978, a conferma dell’identità fra i due personaggi.
Alla luce di quanto detto, la celebre lettera che Paolo VI rivolse il 22 aprile 1978 agli “uomini delle Brigate rosse” per dire: “Vi prego in ginocchio liberate l’on. Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni” può essere interpretata in modo più efficace di come si è solitamente fatto. In quelle ore, infatti, Paolo VI scelse di rivolgersi direttamente alle Brigate rosse per provare a riannodare i fili di un contatto effettivo con loro, saltando la fitta barriera di uno o più sedicenti brigatisti (fra cui certamente Chichiarelli) che si erano frapposti tra il Vaticano e il prigioniero con l’obiettivo di intercettare il riscatto per conto del governo e dell’antiterrorismo italiano. E dunque: liberatelo “semplicemente”, ossia non seguendo le “imbarazzanti condizioni” (questo era in realtà il pregnante termine che in una prima stesura della missiva Paolo VI utilizzava, come recentemente scoperto dal ricercatore Riccardo Ferrigato) seguite sin qui che si sono rivelate ingannevoli. E fatelo, dunque, “senza condizioni” perché non ci è più possibile rispettare quelle segrete pattuite in precedenza che dunque andranno ridefinite mediante ulteriori contatti. E infine: io non ho “modo di avere alcun contatto con voi” giacché i canali esperiti finora sono falliti, ma spero di riuscire a stabilire una nuova e autentica via di comunicazione avendo ormai maturato la consapevolezza che quella utilizzata fino a quel momento si è rivelata una trappola. Si direbbe, il terzo livello di una strategia di governo estremamente determinata e raffinata, che pubblicamente scelse la strada della fermezza, riservatamente simulò la disponibilità di una trattativa in denaro (come attestato da Andreotti con la riunione del 3 aprile 1978 con i segretari dei principali partiti italiani) perché altrimenti non avrebbe avuto lo spazio politico di fare, ma segretamente si attivò per impedire il pagamento del riscatto. In questo modo si sviluppò un sordo conflitto tra le motivazioni umanitarie e personali di Paolo VI e quelle della ragione di Stato dell’Italia nella sua dimensione interna ed estera che non tollerò di subire un’azione che si configurava come un’enorme ingerenza di uno Stato estero, la Città del Vaticano, sul proprio territorio nazionale.
Il falso comunicato del Lago della Duchessa, dunque, servì ad accreditare presso Paolo VI e la famiglia pontificia la figura di Chichiarelli come intermediario segreto affinché il riscatto raccolto dal Papa finisse nelle mani di un personaggio controllato dagli apparati dello Stato ancorché legato alla criminalità comune. La questione nella sua spietata drammaticità è presto detta: nel caso in cui i soldi del riscatto raccolti da Paolo VI avessero continuato a finanziare la lotta armata nella Penisola, a morire non sarebbero state le Guardie svizzere, ma gli agenti delle forze dell’ordine italiane.
Di conseguenza non è difficile immaginare la durissima pressione che i vertici delle forze di sicurezza (polizia, carabinieri, Servizi segreti) dovettero opporre a una simile eventualità in una vicenda in cui, come ha scritto Pieczenick nel suo libro di memorie, “mai l’espressione ‘ragion di Stato’ ha avuto più senso come durante il rapimento Moro in Italia”. Un senso così profondo da diventare opaco come la lastra di ghiaccio del vero Lago della Duchessa e vischioso come il falso comunicato di Chichiarelli, perché se lo Stato è storicamente debole, diviso in fazioni e in crisi di autorevolezza e di fiducia pubblica come in Italia, quando viene messo sotto attacco si irrigidisce alla maniera di un paralitico fino a ridurre le sue ragioni, vere o presunte, insieme con le furbizie e le meschinità, in una grigia poltiglia intrisa di Statolatria.
Se un giorno dovessi spiegare a mio figlio con un’immagine cosa è la Statolatria gli mostrerei la foto dei sommozzatori che si immergono diligenti nel buco di ghiaccio del Lago della Duchessa, al fondo del quale non avrebbero trovato il corpo di Moro, ma riflessa la storia della sua morte, l’effetto di quella Statolatria di cui egli fu vittima.
(8 – continua)