Il Fatto 3.5.18
Un Paese che teme il voto non può dirsi democratico
di Silvia Truzzi
È
il caso che anche noi, nel senso del sistema dell’informazione, si
faccia un po’ di autocritica per il livello, disarmante, del dibattito
pubblico. Le ultime sciocchezze che occupano i giornali e i siti
riguardano le “regole”, improvvisamente assurte al rango di oggetto
sociale di un nuovo esecutivo che “scongiuri il voto”. Cioè: siccome non
si riesce a fare un governo politico, ci propinano di nuovo la bufala
del sistema che non funziona. E che per riscrivere le regole serve un
nuovo esecutivo. D’accordo, siamo stati male abituati negli ultimi
decenni: tutte le riforme di sistema sono state d’iniziativa
governativa. Ma le regole sono materia parlamentare per eccellenza: dire
che bisogna fare un governo con tutti dentro per riscrivere le regole è
una truffa. In campagna elettorale mai si è parlato di riforme, i
partiti si sono spesi in proposte politiche, ricette economiche
soprattutto. Nessuno ha mai detto: se poi non si riesce, allora facciamo
una bella riforma istituzionale. La quale serve solo a giustificare la
nascita di un governo purchessia. Abbiamo qui più volte scritto che la
revisione dei regolamenti del Senato ha raggiunto alcuni degli obiettivi
che la riforma Boschi diceva di porsi (in realtà incasinando molto il
sistema). Potrebbe, per cominciare, farlo anche la Camera dei deputati.
È
auspicabile poi che il presidente della Repubblica rifletta bene sulle
conseguenze che avrebbe somministrare al Paese l’ennesimo “governo non
eletto”. Ci scusino i signori che nei talk show parlano per frasi
mandate a memoria, se ci permettiamo di usare una formula scorretta:
sappiamo come funziona un sistema parlamentare, abbiamo letto la
Costituzione. Ma il punto è che un altro governo tecnico o di unità
nazionale o delle larghe intese non solo sarebbe una presa in giro dei
cittadini (che votiamo a fare?), ma anche una sconfitta della politica.
Alla manifestazione del primo maggio, Susanna Camusso ha detto (ed è in
ottima compagnia) che l’Italia non si merita un’altra tornata
elettorale. “Mi sembra che il Paese non si meriti il voto in autunno,
non ci si avvicina ai problemi del Paese continuando a invocare il voto:
servono cose concrete. Mi pare che ci sia una responsabilità che le
forze politiche devono assumersi, devono decidere su quale programma
governare”. È vero certo, ma qui purtroppo abbiamo a che fare con una
classe dirigente inadeguata, infantile, opportunista. Gente che intende
la “responsabilità” come un salvagente per non annegare, e si tiene ben
lontana dal concetto di responsabilità politica. Infatti i governi
tecnici, o in qualunque modo li si voglia chiamare, servono
prevalentemente ad attuare politiche che i partiti non vogliono vedersi
imputare. Tira una brutta aria, un 2013 atto secondo. Ma certi cammini
si sa quando cominciano e non si sa quando finiscono: potremmo beccarci
altri cinque anni di governo “irresponsabile”, magari tenuto a galla da
qualche “ineludibile” riforma. Tutto questo è francamente meno
augurabile di un ritorno alle urne. Certo sarebbe meglio che i partiti
facessero uno sforzo di maturità, visto che questa legge elettorale (ora
disconosciuta da tutti) in Parlamento l’hanno votata loro. Ora dicono
che bisogna cambiarla, attenzione, perché non c’è una maggioranza. Detto
che il Rosatellum va modificato perché fortemente sospettato di
incostituzionalità, non è per nulla scontato che un altro voto dia
nuovamente lo stesso risultato. E soprattutto, un Paese che ha paura del
voto dei suoi cittadini, dove è lecito qualunque compromesso pur di non
votare, non è una democrazia sana.