Il Fatto 26.5.18
Non è democrazia, È bonapartismo
di Eugenio Ripepe
ordinario di Filosofia della Politica all'Università di Pisa
più
volte preside della facoltà di Giurisprudenza, direttore del
dipartimento di Diritto pubblico e direttore del Centro
interdipartimentale di Bioetica
Avete presente la scena
di Amleto che indica una nuvola dicendo che somiglia a un cammello e
trova d’accordo Polonio? Poi il pallido prence dice che la nuvola
somiglia invece a una donnola, e l’altro gli dà ragione, e così pure
quando dice che sembra una balena. Ecco, non avrà per caso Shakespeare
voluto parodiare con profetica preveggenza i rapporti tra leader e
aderenti a un partito, forse non solo in Italia e forse non solo oggi,
ma certamente nell’Italia d’oggi? Con la differenza che Polonio si
adegua alle cangianti opinioni del suo interlocutore perché pensa che
sia pazzo, mentre nei nostri partiti ci si adegua alle cangianti
opinioni del leader perché si pensa, o si finge di pensare, che sia un
genio.
Il risultato è una dialettica tra base e vertice che
ricorda quella tra sergente e truppa in marcia: Avanti march… Destr
riga… Sinistr riga… Dietro front… Una (non) dialettica a senso unico, se
la scelta della via da percorrere spetta sempre e solo al capo del
partito, mentre tutti gli altri sono chiamati tutt’al più a ratificare
con plebisciti organizzati ad hoc scelte calate dall’alto. Magari non è
solo fumo negli occhi, ma non chiamiamo democrazia quello che si chiama
bonapartismo: un bonapartismo senza Napoleone, ma non senza qualcuno che
crede di essere Napoleone, o magari il Re Sole, convinto che il partito
sia lui. A riprova di questo, un dettaglio rivelatore –perché il buon
Dio, come si sa, è nei dettagli; e il diavolo pure − è la… singolare
prima persona singolare adoperata dai leader quando parlano a nome e per
conto del proprio partito. D’altra parte, è comprensibile che un leader
si senta ronzare continuamente nelle orecchie il “Sei tutti noi” dei
suoi devoti. No, bisognerebbe però dire a costoro, nessuno può essere
tutti voi. A maggior ragione se quando parla anche a nome vostro non
dice “noi” ma “io”, quasi che riconoscendovi aprioristicamente in lui vi
foste completamente annullati in lui. Persa la bussola dell’ideologia,
troppo spesso rivelatasi uno strumento che porta a sbattere sugli
scogli, i partiti e i loro succedanei, hanno pensato bene di affidarsi a
qualche presunto grand’uomo per farsi guidare da lui come meglio crede.
Conseguenza? Un paese di sessanta milioni di abitanti in mano a quattro
persone, costretto a trattenere il respiro in trepida (e non poco
avvilente) attesa di sapere se e cosa di volta in volta quelle persone
hanno deciso, generalmente a due a due. E che persone, del resto. Un
pregiudicato spregiudicato, a dir le cui virtù – a parte qualche milione
di altre cose – basta il sorriso stampato sulla sua faccia in
similbronzo quando auspica che le sorti di uno stato siano affidate a
lui che, come risulta per tabulas, lo ha frodato in modo ignobile: sarà
che condivide le considerazioni che furono alla base della nomina di un
ladro e truffatore come Vidocq a capo della polizia. Poi un ossimoro
vivente (non è una parolaccia, eh) che si è sistemato pour la vie come
politico professionista dell’antipolitica, continuando a tuonare contro i
professionisti della politica. E un altro ossimoro vivente, capo
politico di un partito a democrazia diretta, che ti mette davanti a una
alternativa secca: o lui ne è davvero il capo, e la democrazia diretta
di quel partito è un fandonia; o il suo è davvero un partito a
democrazia diretta, ed è una fandonia che lui ne sia il capo. Infine, un
caro leader che vive di rendita sul mito fondativo della sua superiore
statura politica costituito da una vittoria alle Europee del 2014, che
se una cosa dimostra, alla luce delle tante sconfitte che l’hanno
seguita, è che all’apertura di credito ottenuta dagli elettori tre mesi
dopo la presa di potere, quando ancora lo conoscevano poco, è subentrata
una crescente mancanza di fiducia via via che hanno avuto modo di
conoscerlo meglio. Quanto ai militanti di partito al seguito di questi
leader, l’impressione è che la loro educazione politica sia stata
ispirata a una frase di don Milani lievemente modificata: da
“l’obbedienza non è più una virtù” a “l’obbedienza è l’unica virtù”,
avendo come canone fondamentale il detto evangelico “sia il vostro
parlare sì, sì; no, no”, anch’esso però lievemente modificato –
amputandolo delle ultime due parole – in “sia il vostro parlare: sì,
sì”. Non che tutti i militanti acriticamente proni alle decisioni dei
capi-partito lo siano però per conformismo e spirito gregario. Ce ne
sono diversi che attribuiscono doti sovrumane e poteri miracolosi al
loro leader a giusta ragione, e cioè per averne avuto una dimostrazione
empirica quando, da mezze calzette che erano, si sono visti trasformare
da lui in ministri, deputati, presidenti o direttori di qualcosa. E
senza nemmeno bisogno che li baciasse: altro che le principesse che
tramutavano i rospi in principi azzurri! Insomma, d’accordo: sebbene non
possa essere considerata il meglio del meglio, la democrazia è pur
sempre quello che c’è di meno peggio. Ma anche questa democrazia? E non
avremo altra democrazia al di fuori di questa?