Il Fatto 26.5.18
Il Vaticano non accetta i gay (ma solo se seminaristi)
Le frasi del Papa e un dibattito finito. Se questa è la strada intrapresa, perché non partire da vescovi e rettori?
di Marco Marzano
Incontrando
i membri della Cei in Vaticano, Papa Francesco ha fatto un’affermazione
importante: evitate, ha detto il papa ai vescovi italiani, di fare
entrare gay in seminario e allontanate gli studenti sulla cui identità
sessuale nutriate anche il minimo dubbio.
Il papa ha così
ribadito, anche su questo punto in perfetta continuità con i suoi
predecessori, la cattolica tolleranza zero verso i gay, l’esclusione
assoluta degli omosessuali dalla vita della Chiesa. Se si tratta di
semplici fedeli, essi, pur presentando, come recita il Catechismo,
“un’inclinazione oggettivamente disordinata”, possono essere accolti con
misericordia, ma solo a patto che rinuncino a ogni forma di vita
sessuale e si mantengano casti e puri. Nel caso di coloro che tra
costoro aspirino invece a diventare sacerdoti, ha ricordato il papa, la
sola inclinazione deve divenire causa di immediata esclusione.
Le
parole di Francesco ci comprovano che il papa è a conoscenza
dell’esistenza e delle dimensioni del “problema”, come lui lo ha
definito. Dopo esserci occupati del clero pedofilo, ha dichiarato il
papa accostando i due fenomeni, dovremo occuparci anche di quello
omosessuale. La premessa da cui è partito il papa è corretta: i seminari
sono strapieni di gay, così come poi di conseguenza lo sono le case
parrocchiali, i monasteri e le altre strutture cattoliche. Alcuni
seminaristi e preti omosessuali si astengono dall’avere una vita
sessuale attiva, molti altri no.
Dalla letteratura scientifica
internazionale giungono delle interessanti conferme di questo dato. Uno
dei più autorevoli studiosi della vita sessuale del clero, Richard Sipe,
ha sostenuto, analizzando un campione di grandi dimensioni, che circa
il 30 per cento del clero americano è omosessuale e che un terzo di
questo 20 per cento ha una vita affettiva e sessuale attiva, talvolta
accompagnata da un grave senso di colpa. A parere di altri studiosi, il
dato fornito da Sipe è da correggere: secondo Nines, più del 40 per
cento del clero è omosessuale, mentre secondo Cozzens la stima va
corretta verso l’alto e i preti gay sono tra il 45 e il 50 per cento del
totale. L’esistenza di una vera e propria subcultura gay nei seminari è
confermata (talvolta con fastidio dai chi ne è escluso) dai risultati
di altre ricerche sociologiche.
Al di là di quali siano le sue
dimensioni reali, io credo che, se vogliono davvero mettere al bando
l’omosessualità tra i funzionari dell’organizzazione, il papa e i
vescovi debbano assumere alcune decisioni potenzialmente assai dolorose.
Ad esempio, il papa dovrebbe iniziare con l’allontanare dalla Chiesa i
vescovi “anche solo sospettati” (per usare il suo linguaggio) di essere
omosessuali.
La stessa durezza andrebbe usata da parte dei vescovi
nei confronti del clero loro sottoposto e soprattutto nei confronti di
rettori, prefetti e insegnanti incaricati di formare i futuri preti. Con
quale credibilità un rettore di seminario omosessuale può espellere un
seminarista gay? E cosa succede, quale dinamica psicologica si instaura,
se un prete gay diventa il padre spirituale di un seminarista
altrettanto omosessuale? In secondo luogo, bisognerebbe che la Chiesa
potenziasse i suoi strumenti inquisitori per scovare, anche rafforzando
il ricorso a psicologi professionisti, la presenza di gay tra gli
studenti dei seminari. Una rigorosa attività inquisitoria è necessaria
perché i seminari sono affollati da ragazzi che non sono consapevoli o
che non accettano la loro “inclinazione” verso persone dello stesso
sesso e che vanno in seminario proprio per non porsi il problema della
loro sessualità, per rimuoverlo. Inoltre, per rimediare al fatto che
l’espulsione dei gay determinerebbe un vero e proprio crollo nelle
vocazioni, e tenuto conto che la Chiesa europea è già, da questo punto
di vista, in una situazione difficilissima, occorrerà incoraggiare
fortemente l’importazione di funzionari provenienti da quei territori
(ad esempio, l’Africa) dove c’è grande abbondanza di clero. Infine
andrebbe probabilmente scoraggiato il ricorso a un abbigliamento troppo
tradizionale, fatto di lunghe sottane, pizzi e svolazzi vari, dietro il
quale spesso si cela un’omosessualità più o meno repressa.
Fatto
un sommario elenco di cose che la Chiesa dovrebbe fare se volesse
combattere la presenza dei gay al suo interno, rimane da dare un modesto
consiglio ai gay cattolici. Esso è presto dato: perché ostinarsi a
sperare che venga qualche apertura da un’organizzazione irriducibilmente
nemica della libertà e della diversità sessuale? Perché non scegliere
un altro luogo, e ce ne sono (penso ad esempio, alla chiesa valdese),
dove trascorrere serenamente la propria esistenza di cristiani e di
omosessuali, venendo accettati e considerati esseri umani perfettamente
uguali a tutti gli altri?