Il Fatto 22.5.18
Il Sessantotto Neoliberista
Effetti
collaterali - Il movimento di studenti e operai si è esaurito, le grandi
imprese hanno cavalcato la richiesta di libertà individuale e le spinte
anti-autoritarie per imporsi in un mondo “liquido”, a spese di Stati e
partiti - L’eredità del ’68
di Colin Crouch
Nel
Sessantotto l’atteggiamento diffidente verso ogni autorità e
l’insistenza sulla libertà di espressione culturale ebbero l’effetto
benefico di rendere più solari le posizioni austere e spesso puritane
dei movimenti socialisti e comunisti ufficiali.
Ma lo Zeitgeist di
cui il Sessantotto fece parte promosse anche approcci alternativi a
queste priorità. Pure i neoliberisti festeggiarono la riduzione del
potere dei governi (benché non delle società private) e la libertà di
espressione individuale (posto che tale espressione si manifestasse
nelle scelte finanziarie). Le imprese capitaliste furono veloci a
sfruttare le innovazioni nella moda, nella musica e in altri fenomeni
potenzialmente di consumo degli anni Sessanta, imitando e imponendo su
di essi una forma merce. Alla fine del Ventesimo secolo, ad esempio, le
etichette discografiche preferivano costruire band e gruppi interni
anziché rispondere alle energie che provenivano in modo spontaneo dai
giovani nella società. Non c’è quasi nulla che le imprese capitaliste
non possano imitare, catturare, produrre in serie e alla fine
monopolizzare, inclusa la stessa ribellione.
Il fatto che il
neoliberismo si appropriasse del declino della deferenza e della
richiesta di espressione individuale ha avuto implicazioni molto più
importanti della creazione di prodotti culturali. Le politiche della
sinistra e della destra sono sempre dipese entrambe dal rispetto per
l’autorità statale e dalla volontà di obbedire da parte di soggetti e
cittadini. Quando, nel corso del Novecento, i partiti socialdemocratici
iniziarono a formare dei governi, diedero spesso per scontato di poter
ereditare un consenso generale verso la legittimità dell’autorità
statale. Che cosa accadrebbe se la deferenza non potesse più essere data
per scontata?
Alla fine degli anni Sessanta, Jürgen Habermas
scorse una crisi strutturale di legittimità nell’ordine capitalista e,
come molti a sinistra, la interpretò come un fenomeno che avrebbe
accelerato il crollo definitivo quell’ordine. Invece toccò allo Stato, e
soprattutto allo Stato sociale, essere vittima di una forte
delegittimazione. E i principali critici dello Stato non erano degli
esponenti della sinistra, ma i sostenitori di un mercato libero e non
ostacolato dalla regolamentazione e dalla tassazione. Siccome il mercato
opera sulla base della libertà di scelta individuale, i suoi
sostenitori poterono appropriarsi degli appelli sessantottini alla
libertà individuale.
Non era questo che i sessantottini volevano.
Solo certi tipi di scelte possono trovare espressione sul mercato, cioè
scelte di consumo materiale, quelle che essi consideravano alienanti.
Inoltre, la sostituzione dello Stato con i direttori e i manager delle
imprese non rappresentò certo un miglioramento per il ruolo
dell’autorità. Tuttavia, l’interpretazione neoliberista
dell’emancipazione colpì profondamente un pubblico più ampio, sempre
meno legato alle vecchie forme di deferenza e sempre più insofferente
verso la regolamentazione e la tassazione, soprattutto in un momento in
cui l’economia privata rendeva disponibili così tanti prodotti
attraenti. I partiti conservatori e liberali prima e, dagli anni
Novanta, socialdemocratici poi abbracciarono la svolta mercatistica.
Ma
ciò che è ancora più deprimente per lo spirito del Sessantotto è il
fatto che il capitale sia stato più abile dei suoi critici
nell’apprendere come operare in un mondo caratterizzato dal declino
della deferenza e da strutture postburocratiche, sfruttando
l’informalità e la flessibilità prefigurata dai movimenti di protesta
tra gli studenti, i lavoratori, le femministe e gli ambientalisti.
Come
ha mostrato Zygmunt Bauman nel suo libro Modernità liquida, gli ultimi
decenni sono stati segnati da una disillusione diffusa verso le
strutture “solide”. Il cambiamento sembra onnipresente, e tanto le
istituzioni quanto gli individui devono continuare ad adattarsi a uno
stile frenetico di vita “liquido”. Il cambiamento deve essere
incessante, benché sia i suoi motivi sia il suo scopo rimangano oscuri.
In un simile ambiente, le grandi aziende moderne si trovano nel loro
elemento. Possono persino dissolversi e riapparire in un’altra forma,
con un nome, un logo, un capitale, dei lavoratori e un’ubicazione
geografica differenti, spesso sfruttando cavilli nelle normative
fallimentari che permettono di sfuggire ai creditori delle loro
precedenti incarnazioni. Gli Stati non possono fare nessuna di queste
cose: rimangono solidi, per dirla con Bauman. E così anche i partiti
politici, i sindacati e le organizzazioni riconosciute.
Mezzo
secolo dopo il Sessantotto, quindi, è l’impresa la forma di
organizzazione che si è dimostrata più capace di assimilare le sue
lezioni di flessibilità e adattabilità. Per la sinistra, le
organizzazioni liquide e in costante mutamento corrispondono a una serie
di movimenti in gran parte transitori e collegati solo in via
informale. Ognuno di questi movimenti lascia ai suoi successori poche
vittorie consolidate o risorse organizzative da cui partire, al di là
dell’esperienza di quegli individui che passano da una generazione
all’altra finché non diventano disillusi o muoiono.
La ragione
principale di questa differenza tra le imprese e le altre organizzazioni
è che il capitale, pur essendo la più liquida tra tutte le risorse, è
in fondo posseduto da qualcuno, e la sua proprietà è concentrata nelle
mani molto solide di un piccolo numero di persone o famiglie molto
ricche. Queste ultime vanno e vengono, ma i nuovi arrivati imparano
presto a seguire le regole per conservare il capitale e farlo crescere,
così che il sistema possa riprodursi.
Un tempo, il potere politico
possedeva una forma di “solidità oltre la liquidità”, quando i sovrani
medievali conquistavano, conservavano e perdevano grandi fette di
territorio in tutta Europa e, nel più recente periodo coloniale, in
tutto il mondo. Ma gli Stati moderni lo fanno raramente, dal momento che
includono popoli dalle cui lealtà e identità apparenti traggono forza. I
partiti, i sindacati e gli altri movimenti di massa hanno un problema
analogo, essendo definiti dall’adesione degli iscritti e dalle cerchie
più ampie di persone sulla cui lealtà possono contare. Le persone
rappresentano la loro risorsa principale, ed essi hanno bisogno che
queste persone diano loro i voti, il denaro e l’impegno volontario che
determinano la loro forza. Le lezioni organizzative del Sessantotto sono
qui di poco aiuto, portano esempi di scoppi straordinari di entusiasmo
appassionato che di rado possono essere sostenuti da grandi masse di
persone per un periodo di tempo qualsiasi. Il capitale, al contrario,
sfrutta la sua ricchezza per comprare temporaneamente i servizi delle
persone a cui dà lavoro.
Il Sessantotto produsse una generazione
arrabbiata ma sicura di sé, insofferente verso la mancanza di
flessibilità delle istituzioni della società. Il 2018, invece, produrrà
una generazione arrabbiata ma angosciata, strapazzata da un’insicurezza
flessibile. A posteriori, nessuna delle due sarà stata in grado di
capire cosa fare.