Il Fatto 20.5.18
Pedofilia, tutta la Chiesa ha i problemi del Cile
Il
Papa ha ammesso di aver sottovalutato il caso e ha fatto dimettere i
vescovi. Ma le omertà in diocesi e nei seminari sono la norma
di Marco Marzano
La
decisione dei vescovi cileni di rassegnare in blocco le dimissioni dai
loro incarichi al papa è clamorosa. Segnala la consapevolezza di una
responsabilità collettiva dell’episcopato cileno per i gravi crimini
commessi da membri della Chiesa in quel Paese. Il gesto giunge dopo
decenni di insabbiamenti ed è la conseguenza di un drastico cambiamento
di linea di Francesco nel contrasto alla pedofilia clericale in Cile.
Sino
al gennaio di quest’anno e cioè al suo viaggio nel Paese andino,
Francesco non sembrava scontento di come andavano le cose nella chiesa
cilena. Nel 2015, aveva promosso, nominandolo vescovo, Juan Barros, un
“allievo” e amico del pedofilo abusatore Don Fernando Karadima. Quando
Francesco lo ha nominato vescovo sul capo di Barros pendeva già l’accusa
di aver assistito impassibile alle violenze che Karadima infliggeva ai
minori.
Proprio durante quel viaggio, Francesco aveva reagito con
fastidio alla domanda di chi gli aveva chiesto conto del suo sostegno a
Barros rispondendo che della complicità di quel vescovo con i crimini di
don Karadima non c’erano riscontri certi e quindi, fino a prova
contraria, quelle contro di lui erano calunnie. Quelle parole parvero
l’ennesima manifestazione della complicità vaticana con gli abusatori e
suscitarono la reazione indignata di molta parte dell’opinione pubblica,
non solo cilena.
È a quel punto che il papa fece mostra di esser
pronto a cambiar linea, ammise di essersi sbagliato nel giudicare la
situazione cilena, dichiarò di essere stato male informato e di voler
andare finalmente a fondo della questione. Mandò un Cile un suo
investigatore che acquisì nuove informazioni, poi convocò i dirigenti
cileni a Roma e ottenne le loro dimissioni. Adesso gli toccherà
procedere alle necessarie epurazioni, cioè al licenziamento di massa dei
vescovi cileni. Se ciò non avvenisse, se il papa prendesse tempo e nel
frattempo la vicenda venisse dimenticata dai media, ci troveremmo
dinanzi a una sceneggiata sulla pelle delle vittime. In una lettera
indirizzata ai vescovi cileni che doveva rimanere riservata (e di cui
alcuni giornali hanno pubblicato stralci) Francesco ammette che i
problemi in Cile vanno ben al di là del caso Karadima-Barros, che nella
chiesa cilena si sono verificati nel tempo abusi e mancanze di tutti i
generi, che sono stati distrutti documenti che compromettevano alcuni
preti, coperti e protetti o trasferiti precipitosamente da una
parrocchia all’altra e subito incaricati di occuparsi di altri minori.
Le accuse hanno riguardato anche le istituzioni formative, i seminari,
colpevoli di non aver arrestato la carriera di preti che già da studenti
mostravano chiari segni di un comportamento patologico nella sfera
sessuale e affettiva. Il problema è “il sistema” ha concluso il papa.
Ed
è verissimo. Il punto è: quale sistema? A meno di non voler credere che
la chiesa cilena abbia sviluppato patologie tutte peculiari, che fosse
una sorta di associazione a delinquere fuori controllo e a meno di
negare che fenomeni identici a quelli descritti dal papa nella sua
lettera si sono verificati ovunque nel mondo bisogna ammettere che il
sistema è la chiesa stessa nella sua attuale forma organizzativa. Il
problema è cioè un’organizzazione strutturata intorno alla supremazia di
una casta clericale tutta maschile e celibe formata intorno ai valori
della fedeltà assoluta e della disciplina di corpo all’interno di
istituzioni totali e claustrofobiche come i seminari e poi investita del
monopolio assoluto nella gestione del sacro, della competenza esclusiva
di tutti gli aspetti cruciali della vita dell’istituzione.
Se il
pontefice vuole davvero combattere fino in fondo il sistema e
debellarlo, perché non prende tutti in contropiede e assume l’iniziativa
di avviare una grande riflessione collettiva e pubblica, eventualmente
attraverso un sinodo straordinario, sul tema della responsabilità dei
funzionari e delle istituzioni cattoliche nei tantissimi casi di abusi
sui minori commessi dai membri della Chiesa nella sua storia recente? E
perché non invita a farne parte anche quegli studiosi che da anni
sostengono che il problema degli abusi sessuali da parte del clero
cattolico va affrontato mettendo in conto l’eventualità di dover
smantellare la tradizionale strutturale clericale che da secoli, e senza
alcuna discontinuità sino al presente, governa la Chiesa ai quattro
angoli della terra? Questo sì che sarebbe l’inizio della rivoluzione.