venerdì 18 maggio 2018

Il Fatto 18.5.18
L’abisso del ’68 di Faber. Il figlio: “Dipinto da eversivo, per le simpatie anarchiche”    
di Stefano Mannucci


Era seduto sull’orlo di un abisso chiamato Sessantotto. Lui, Faber, seguace di Bakunin, amante delle puttane di via Pré e di quelle uccise sulla riva dell’Olona, sognatore perduto nelle allegorie di una Madonna troppo umana, boicottatore poetico di un Potere dalle mille teste. Cinquant’anni fa De André studiava il suo tempo per trasfigurarlo nell’arte visionaria, e poi costringerci ad ammettere che stava decifrando proprio il mondo attorno. Quell’anno pubblicò due album antitetici: un concept ambizioso sull’agonia dell’anima, Tutti morimmo a stento, e un Volume III che riproponeva la forma canzone senza un fil-rouge a unire i 45 giri che raccontavano vicende da lui già cantate, l’atroce fine di Marinella e il soldato Piero, ma anche traduzioni da Brassens e incastonature musicali da Cecco Angiolieri. Il Sessantotto di Faber durò almeno cinque anni: giù giù per i long-playing a tema, dischi sontuosi come La Buona Novella dei Vangeli apocrifi, la Spoon River pivaniana di Non al denaro non all’amore né al cielo e quello che nel ‘73 fu accolto con la critica che arricciava il naso (pure Gaber parlò di “linguaggio di un liceale fermatosi a Dante”), la Storia di un impiegato senza nome che racchiudeva la protesta bombarola di un trentenne intrappolato nel lato oscuro dell’utopia.  Un disco incompreso: ora il figlio di Faber, Cristiano, lo porterà in tour dal 5 luglio a Roma (poi Milano, Genova, Venezia e via andare) dopo averlo trasformato in un’opera rock dagli arrangiamenti tutti nuovi. “Prima di morire mio padre mi affidò una sorta di eredità, chiedendomi di far rivivere le sue cose: così stavolta affronto Storia di un impiegato: quel personaggio siamo tutti noi, interrogati da un giudice che è il Potere stesso, da combattere con la Poesia. Quello di Fabrizio era il sogno libertario dell’anarchia, nel segno del pacifismo e della convivenza tra simili. Una visione attuale più che mai, in questo 2018 dove ci troviamo a isolare i presunti diversi, in una finta democrazia che non avrà luogo finché, come suggeriva Camus, ‘non ci sentiremo tutti colpevoli’. Decenni di berlusconismo hanno demolito il pensiero in cui si riconosceva papà. Al suo tempo, assurdamente, le simpatie anarchiche lo fecero dipingere come un eversivo: ne insinuarono un coinvolgimento in Piazza Fontana, Cossiga e i servizi sospettavano che la casa di Tempio Pausania fosse un rifugio per brigatisti. Ma sarebbe bastato riascoltare le sue vecchie cose, La guerra di Piero con il soldato che si rifiuta di sparare e viene ucciso dall’altro, che invece non coltiva dubbi”.  Il De André sull’orlo dell’abisso lo conobbe bene Franz Di Cioccio: “Ero nei Quelli, e Gian Piero Reverberi mi chiamò per convincere Fabrizio a usare la band nella Buona Novella. Noi eravamo ragazzi scapestrati, lui un elitario frequentatore di salotti”, ricorda il batterista della Pfm dall’Inghilterra, nuova tappa del tour di “Emotional Tattoos” dopo i trionfali live americani. “Era un cantautore immensamente evocativo, capace di riportare i morti nel mondo dei vivi, e sempre più tentato dall’avventura degli album concept: il bagno nelle acque del prog-rock lo travolse inesorabilmente. La narrazione delle vicende terrene di Maria e Gesù gli servì per simboleggiare la dolorosa rivoluzione del ‘68: accettò i nostri colori per arricchire i suoi versi. Nel ‘78 ci ritrovammo in modo più stretto. Con la Premiata avevamo un concerto a Nuoro, lui non aveva la patente e si fece accompagnare da un contadino. Ci invitò a casa e preparò un’insalata di funghi: gli dissi che non volevo morire avvelenato. Ci sfidammo: ‘Se mangi tu lo faccio anch’io’, era un segno di fiducia reciproca. Gli proposi l’idea folle di andare sul palco insieme. Il nostro rock estroverso e il suo intimismo lirico, davanti a due pubblici di opposte predilezioni. Funzionò, le sue canzoni trovarono nuova luce con la Pfm. Un anno dopo, d’estate, eravamo pronti per un secondo tour e un altro disco con lui, ma De André nicchiò: voleva badare alle vacche nella sua tenuta dell’Agnata. Una sera noi della Pfm ci preparavamo a esibirci alla Festa dell’Unità di Ravenna, nello stesso giorno in cui D’Alema fu scelto come segretario della Fgci. Arrivò la notizia che Fabrizio era stato rapito. Ci riabbracciammo solo anni più tardi, i nostri piani erano saltati per sempre”.  Ma De André ha lasciato una traccia anche nei cantautori delle nuove generazioni. Per Diodato (che riprende il tour il 15 giugno da Pistoia) Faber è “un maestro, lontanissimo dalla mia indole urgente, eppure necessario, inevitabile. Mi ha insegnato il potere dell’italiano nelle canzoni, mi ha mostrato come si può trattare la politica anche narrando d’amore, e nessuno come lui mi ha fatto sentire che stavo parlando di me stesso interpretando una sua cosa. Accadde con la mia cover di Amore che vieni amore che vai: un giorno mi misi a suonarla, senza precise intenzioni. Cambiai tonalità, la stravolsi. Ma la sua grandezza avvolse la mia anima, una volta per tutte”.