venerdì 18 maggio 2018

Corriere 18.5.18
Insegnare Shakespeare a Gaza
Il docente: aiuto a capire gli israeliani
di Davide Frattini


Gli studenti che seguono i suoi corsi di letteratura inglese non hanno quasi mai incontrato un israeliano, neppure in divisa. All’inizio del semestre, seduti timidi tra i banchi, restano turbati da questo giovane professore che apre «Il mercante di Venezia» e legge di Shylock non per condannarlo, per usarlo come bersaglio. Anzi sembra volerlo difendere. «Provano a obiettare: è un usuraio ebreo, anche William Shakespeare lo presenta come il cattivo della storia».
Così cominciano i mesi di studio con Rifaat Al Areer all’Università islamica, diversi da qualunque esperienza abbiano avuto a Gaza, da qualunque discorso abbiano ascoltato, diversi perché questa volta anche loro possono parlare, devono parlare, altrimenti non superano l’esame. «I giovani in questa società chiusa non riescono ad avere una voce», commenta Rifaat che di anni ne ha 38. Con il progetto «We are not numbers» (Non siamo numeri) prova anche a insegnare loro come avere «una voce in un buon inglese»: «Fuori dall’ateneo teniamo dei corsi di scrittura creativa con la speranza che aiutino i ragazzi e le ragazze (stanno diventando la maggioranza) a trovare un lavoro».
Racconta di aver scelto di affrontare la raffigurazione degli ebrei — un altro capitolo è dedicato al Fagin di Oliver Twist — «dopo aver subito un torto culturale ed educativo quando ero io lo studente. Il docente faceva l’opposto, sfruttava questi personaggi per dimostrare che gli israeliani in quanto ebrei sono malvagi: lo ha scritto Shakespeare, lo ha ripetuto Charles Dickens. Non è così, dico ai miei ragazzi, che restano ancora più scioccati se recito loro le poesie d’amore di Yehuda Amichai, voglio che capiscano come un israeliano prova gli stessi sentimenti: la passione, la rabbia, la gelosia. Solo in questo modo possono riuscire a umanizzare l’altro, che per loro in queste settimane di proteste è solo un cecchino appostato sui terrapieni».
Nell’episodio in cui Fagin sceglie di non spedire Oliver a saccheggiare l’ennesimo appartamento — «Non ora. Domani. Domani» — questa frase letta da Rifaat non suona più sadica e ironica «ma pronunciata da un uomo con un cuore»: «Gli studenti e le studentesse aprono la mente e gli occhi, lo vedono per la prima volta come il prodotto di una società che odia i diversi, per la pelle di un certo colore o perché appartengono a una determinata razza».
Durante i quasi sessanta giorni di guerra tra luglio e agosto del 2014 il suo ufficio all’università è stato devastato dai missili, anche la piccola biblioteca è andata distrutta e qui i libri stranieri sono impossibili da trovare. «Dopo l’attacco i portavoce dell’esercito hanno dichiarato di aver colpito un centro per la preparazione di armi chimiche — ha scritto Rifaat in quei giorni — e adesso i miei studenti non smetteranno di prendermi i giro: “Professore, sta fabbricando Poemi di distruzione di massa”».
Le sue parole cercano di distruggere gli stereotipi, i pregiudizi, di spingerli a pensare fuori da questa scatola di sabbia intrappolata tra Israele, l’Egitto, i fondamentalisti di Hamas e il Mediterraneo. Nel bombardamento sono bruciati anche gli esami finali di quell’anno, contenevano una domanda all’apparenza semplice — «preferite Otello o Shylock» — che permette al professore di capire se le sue lezioni sono servite, oltre a imparare i versi o le date a memoria. «All’inizio del corso tutti gli studenti scelgono Otello: “È un moro, un musulmano convertito, un palestinese come noi”, si entusiasmano. Pian piano provo a convincerli che Shylock è il più prossimo: vittima alla quale viene tolta pure la rivalsa, diffamato, umiliato, eppure continua a resistere. Mi dispiace aver perso i manoscritti, avrei voluto pubblicarli in un libro. Alla fine la maggior parte sceglie di stare dalla parte dell’ebreo Shylock».