Il Fatto 17.5
Il fallimento di Alexis Tsipras
La resa - Non è
 rimasto nulla di quella spinta che voleva ribaltare le politiche di 
austerità dell’Ue, tra privatizzazioni, tagli al welfare e una nuova 
crisi migratoria in preparazione causata dalla Turchia di Erdogan
di Filippomaria Pontani
All’ingresso
 di Lepanto (l’odierna Nàfpaktos), lo scheletro semivuoto di un grande 
China Mall: forse i cinesi non hanno sfondato? Ma no, i cinesi in Grecia
 hanno da tempo varcato le Termopili, conquistando tramite la Cosco 
buona parte del porto del Pireo, e investendo ovunque ingenti capitali 
che hanno aperto loro le stanze della politica; ormai, nel quartiere 
dell’omonima strada di Atene (odòs Thermopilòn), gestiscono decine di 
negozi all’ingrosso, fiancheggiati da ombrosi locali dalle insegne 
equivoche, assediati da un odore di piscio degno delle più sordide 
metropoli mediorientali.
Nel centro di Atene, a pochi isolati dal 
Museo Archeologico, è quella una zona franca piena di stranieri poveri e
 di edifici in rovina: tutto a due passi dalla sede di Syriza, il 
partito del premier Alexis Tsipras, e dagli headquarter delle Ferrovie 
greche e dell’Ente per l’elettricità, vittime sacrificali dell’ultima 
ondata di privatizzazioni. Se a qualcuno interessasse creare una 
coscienza europea, le gite scolastiche che sciamano a pochi metri da 
qui, dopo aver delibato i marmi dell’Ellade, dovrebbero venire a vedere 
cos’è diventato in pochi anni il cuore di una capitale, cercando il demo
 di Colono (dove finiva Edipo nell’omonima tragedia) tra i copertoni e 
gli sfasciumi di odòs Lenormant, o il demo di Acarne (reso celebre dagli
 Acarnesi di Aristofane) nel caos variopinto e sulfureo di odòs 
Acharnòn. Al numero 78 di questa via, dovrebbero visitare il City Plaza 
Hotel, esempio di solidarietà autogestita e abusiva che ha 
rifunzionalizzato un albergo in disuso come rifugio organizzato di 
migranti, con tanto di pasti, assistenza medica e corsi di lingua.
“Ogni
 giorno potrebbe essere l’ultimo”, mi dice in un greco perfetto e senza 
un sorriso Nasim Lomani, l’afghano dell’associazione che aiuta il City 
Plaza. Nonostante sia concreta l’eventualità di uno sgombero della 
polizia, qui si va avanti come se non dovesse fermarsi mai il viavai di 
Nigeriani, Pakistani, Irakeni, Somali, Siriani; come se questo 
esperimento, che da due anni dà un tetto a 100 famiglie (tempo medio di 
permanenza 6 mesi, , poi i più tentano la sorte per vie oscure), avesse 
il dovere morale di tener viva un’idea di accoglienza diversa da quella –
 sposata da Tsipras e dall’Ue tutta – dei campi di detenzione di Lesbo o
 di Salonicco, dove sono trattenuti in 14.000 (contro i 6.000 dell’anno 
scorso) e il ritmo dell’esame delle richieste d’asilo è di 250 al mese.
Agli
 studenti dei nostri licei in gita Nasim vorrebbe raccontare che a 
Lesbo, in piazza Saffo, poche settimane fa c’è stato un pogrom contro i 
migranti esasperati in fuga dal campo di Moria e i responsabili delle 
violenze ancora non si trovano. All’opinione pubblica europea, ormai 
dimentica della “rotta balcanica” sigillata pagando la Turchia, Nasim 
vorrebbe segnalare che da mesi il presidente turco Erdogan ha riaperto 
la frontiera lungo l’Ebro e allentato la vigilanza sulle coste, con il 
risultato che migliaia di nuovi sbarcati hanno rotto i delicati 
equilibri del Pireo, di Salonicco, di Samo, di Patrasso. Proprio a 
Patrasso – l’avamposto per chi è pronto a intrufolarsi nella stiva di 
una nave o nel doppio fondo di un camion per l’Italia – le recinzioni 
del porto sono state divelte, il centro città è bazzicato da migranti 
senza cibo e un murale rappresenta una colomba mitragliata mentre in 
lontananza oscilla un barcone strapieno. Tutto attorno prosperano le 
mafie dei passeur.
La Grecia è nuda e sola dinanzi ai ricatti del 
sultano di Ankara che da due mesi tiene in carcere due soldati 
dell’esercito greco catturati in Tracia con l’accusa di sconfinamento in
 armi – li libererà, pare, solo in cambio degli otto ufficiali golpisti 
dell’esercito turco che trovarono asilo ad Atene nell’estate 2016. E 
così la Grecia di Tsipras, nata sotto la stella dell’antimilitarismo, fa
 la faccia feroce con la limitrofa Repubblica di Macedonia, agogna alle 
fregate francesi, e investe centinaia di milioni per riparare gli F-16 
difettosi venduti dagli USA.
La Grecia di Tsipras, nata per 
rovesciare la politica dell’Europa, si balocca ora con un’anemica 
crescita del Pil (+1,4%) e con un avanzo primario originato da una 
tassazione danese applicata a salari bulgari; tributa ovazioni di 
palazzo all’antico nemico, il presidente della Commissione Jean Claude 
Juncker, vagheggiando l’uscita dal piano dei memorandum per il 21 agosto
 prossimo, e pregustando un ritorno sui mercati che sarà in realtà, se 
va bene, una sorta di protettorato sotto l’egida del Fmi e della troika 
(restano da applicare 12 misure sulle 88 prescritte al governo!). I 
ministri, dopo aver promesso la cancellazione del debito greco (che la 
Germania continua a escludere), la tutela dei più deboli, la solidarietà
 nella crisi umanitaria, e un sussulto di dignità nazionale, si trovano 
nel 2018, a valle di anni di sacrifici, a imporre ulteriori tagli alle 
pensioni basse, a ridurre la no-tax area, a contenere l’immigrazione con
 la forza, e anzitutto a privatizzare porti, aeroporti, ferrovie, 
autostrade, cantieri navali, industrie metallurgiche, enti energetici, e
 quel che resta del sistema bancario.
Il nerbo del Paese è ormai 
in mano straniera, talché fa sorridere la pretesa del governo di 
applicare, all’uscita dai memorandum, un piano di sviluppo e di 
investimenti su realtà produttive e finanziarie che non controlla più. 
Altro che la visionaria modernizzazione del Paese intrapresa nella 
seconda metà dell’Ottocento, e in una situazione di bilancio non meno 
critica, dal premier Charílaos Trikupis: la casa di Trikupis, a 
Missolungi, sorge a pochi passi dal monumento a Byron e dal parco degli 
eroi dell’indipendenza del 1821. Mentre di Tsipras resterà ben poco. 
Perfino dalla sua bandiera, la lotta alla corruzione e all’evasione, 
sono arrivati non già i miliardi promessi ma pochi spiccioli, e 
soprattutto nessun cambiamento di mentalità: la procuratrice 
dell’Areopago (oggi, la Corte Suprema) denuncia senza giri di parole che
 ancor oggi la corruzione, figlia di un potere troppo spesso opaco e 
inefficiente, è pervasiva nella società e mette a repentaglio la tenuta 
democratica.
In questa bancarotta ideale, i cittadini disorientati
 hanno perso fiducia e speranza: il fallimento del radicalismo di 
sinistra non ha per ora spostato il pendolo verso i fascisti di Alba 
dorata; ma non sarà un caso se il protagonista della pièce teatrale più 
popolare degli ultimi anni, Seme selvaggio di Yannis Tsiros, è un 
venditore greco che dinanzi alla chiusura del suo baracchino abusivo 
sulla spiaggia (dovuta ai sospetti della polizia e alle accuse dei 
turisti tedeschi) promette minaccioso: “Noi dobbiamo vivere, e se la 
legge non ce lo permetterà, la violeremo!”.
 
