Il Fatto 1.5.18
Gustavo Zagrebelsky: “Eversivo l’Aventino di Renzi. Nel proporzionale ci si allea”
Lo
stallo - Il professore: “Per me i dem dovrebbero provare a fare un
governo, anche breve su poche cose, con i 5Stelle. Così finiranno per
distruggere il partito”
intervista di Marco Travaglio
Professor Gustavo Zagrebelsky, l’ha sentito Renzi da Fabio Fazio?
Lei conosce la teoria generale dei numeri nel diritto costituzionale e nella politica?
No,
veramente no. Ma c’entra qualcosa con Renzi che chiude la porta in
faccia ai 5Stelle e con lo stallo ormai definitivo della politica
italiana?
C’entra, vedrà. Il numero 1 è quello del principato: uno
regna, tutti gli altri obbediscono. Il numero 2 è quello della
sovversione e della rissa: se le forze in campo sono solo due e si
affrontano come si usa nelle democrazie latine, inclusa la nostra, senza
la cultura politica del ‘modello Westminster’ che spesso si invoca da
noi, l’una tende a sopraffare l’altra. In Italia, il 2 significa la
totale occupazione dello Stato, degli enti pubblici, della Rai, della
burocrazia, della sanità, della cultura… Si vive in quello che Tucidide,
nella Guerra del Peloponneso, chiamava stasis: che non è solo lo
stallo, è la quiete apparente che precede la tempesta, lo scontro finale
dove uno solo dei due resta in vita. Poi c’è il numero 3.
Che è il caso dell’Italia tripolare nata nel 2013, quando in Parlamento si affacciarono i 5Stelle.
Il
3 è il numero perfetto anche per il pensiero costituzionale: la cifra
dell’equilibrio dinamico che garantisce tutti. Se in Parlamento hai tre
forze, due potrebbero accordarsi per eliminare la terza, ma poi si
piomberebbe nel numero 2: la stasis e lo scontro. Invece conviene a
tutti che esista sempre una terza forza, a garanzia delle altre due,
contro l’esplodere del conflitto radicale.
Già, ma intanto non si
riesce a formare un governo, si torna a votare e, dopo, siamo punto e
daccapo. Infatti Renzi ne approfitta per incolpare gli elettori che
bocciarono la sua riforma costituzionale e diedero l’assist alla
Consulta per silurare anche il ballottaggio dell’Italicum, che la sera
delle elezioni ci avrebbe dato un vincitore e un governo sicuro.
Ma
non vorrà mica dargli retta, spero. L’Italicum fu bocciato dalla
Consulta perché al secondo turno prevedeva un ballottaggio mai visto al
mondo fra liste nazionali (non fra singoli candidati in ogni collegio,
come in Francia) e assegnava la maggioranza parlamentare a chi
rappresentava un’esigua minoranza nel Paese, senza neppure fissare una
soglia minima di voti. I premi di maggioranza sono, appunto, di
maggioranza, non di minoranza: possono aiutare chi si avvicina alla
maggioranza ad averne una più agevole, non a trasformare una piccola
minoranza in maggioranza. Il referendum non c’entra nulla: quello
riguardava una ‘riforma’ che, insieme a varie aberrazioni, avrebbe
voluto fare del Senato un docile strumento in mano all’oligarchia
regionale e comunale dei partiti.
Ma come si fa a fare un governo se due su tre non si mettono d’accordo?
Il
Pd è la terza forza, dopo il centrodestra e i 5Stelle. Dovrebbe
sfruttare questa posizione che lo rende indispensabile alle due forze
maggiori e scegliere di coalizzarsi con quella che ritiene più vicina o
meno distante: o i 5 Stelle, come io e lei auspichiamo fin dal 4 marzo,
oppure il centrodestra. Del resto il Pd non ha avuto problemi, nel 2011 e
nel 2013, a fare due governi con Forza Italia e nel 2014, con Renzi, ad
accordarsi con pezzi di centrodestra. Renzi invece, anziché far
fruttare il 18,7% di voti ottenuto alle elezioni, non vuole proprio
giocare la partita: lavora per lo stallo, la stasis. Fa addirittura
capire di preferire un governo degli altri due, che farebbe fuori il Pd.
Questo significa lavorare contro il suo partito, nell’illusione di
farne un altro. Sogna di diventare il Macron italiano. Vedremo se
mercoledì in Direzione il suo partito accetterà di estinguersi senza
fiatare o deciderà di sedersi a uno dei due tavoli: il più conforme o il
meno difforme dalla sua vocazione, se riesce a darsene una.
Renzi finora ha testardamente imposto, e confermato anche domenica sera, l’Aventino. Di lì non si muove.
Mai
dire mai, in politica. Il suo aventinismo, dal punto di vista del
sistema proporzionale (peraltro voluto da lui col Rosatellum, per
diversi aspetti incostituzionale, ma non per l’impianto proporzionale), è
una testardaggine vagamente eversiva. Perché sottrae la terza forza
politica al gioco democratico. Nei sistemi proporzionali, tutti sono
chiamati a mettersi in gioco per ottenere ciò che più desiderano e per
impedire ciò che più temono. E solo alla fine, se falliscono, a
scegliere l’opposizione. Non dall’inizio, ‘a prescindere’.
Renzi dice che il Pd ha perso e sarebbe assurdo se andasse al governo.
Che
abbia perso milioni di voti, non c’è dubbio. Ma che gli elettori
l’abbiano destinato all’opposizione è una sciocchezza. Gli elettori non
mandano nessuno da nessuna parte. Intanto, perché ‘gli elettori’ non
esistono: esiste una molteplicità di elettori, ciascuno dei quali spera
che il suo voto venga usato per il meglio. Nel proporzionale,
diversamente che nel maggioritario, non esistono vincitori né vinti.
Esiste solo chi va bene e chi va male alle elezioni, chi guadagna voti e
chi ne perde. Ma nessuno è esentato in partenza dalla responsabilità di
contribuire a un governo. Nemmeno chi raggiunge il 50% più uno è ‘il
vincitore’: è solo il più alto responsabile del dovere di mettere a
frutto i voti ottenuti per agire per il governo del Paese.
Renzi
pensa che, lasciando il pallino in mano agli altri e restando
sull’Aventino in attesa che passino i cadaveri dei suoi avversari, al
prossimo giro recupererà i suoi elettori perduti.
Difficile dirlo.
Mi pare più probabile che si illuda. Intanto perché gli elettori non
sono né suoi né di nessun altro: sono cittadini liberi di andare dove
vogliono. E poi perché è più facile rubare voti agli altri che
recuperare i propri fuggiti. Oggi i più arrabbiati col Pd sono proprio
gli elettori che votavano Pd e ora votano 5Stelle: lei crede che
torneranno perché Renzi boicotta qualunque intesa con i 5Stelle e, nel
frattempo, apre la strada del governo alla destra di Salvini? Al
contrario, si convinceranno ancor di più di aver fatto bene a fuggire. E
alla prima occasione è probabile che lo puniranno un’altra volta.
Che cosa si augura dalla Direzione del Pd?
Che
pensi alle esigenze degli italiani, non a quelle del partito. Solo così
il Pd può recuperare qualche voto. Altrimenti ne perderà altri a rotta
di collo verso i 5Stelle, la Lega e l’astensione. La storia insegna che,
quando le forze politiche si muovono in base a previsioni sulle proprie
future fortune, queste vengono regolarmente smentite. Pensi al
Rosatellum: doveva danneggiare i 5Stelle, tagliare le gambe a Salvini e
favorire il governo Renzi-Berlusconi. Invece ha sortito l’effetto
diametralmente opposto.
Ma ormai il Pd è il Partito di Renzi e la maggioranza dei parlamentari, scelti personalmente dal capo, seguirà il capo.
Dovrebbero
ricordarsi di essere stati eletti in rappresentanza di tutto il popolo
e, per una volta, pensare all’interesse generale. Che poi è anche il
loro interesse: non rischiare un’altra disfatta elettorale e non
distruggere il loro partito. Del resto tutte le simulazioni dicono che,
se si tornasse a votare, non esisterebbe comunque un blocco
autosufficiente nemmeno se la Lega e i 5Stelle aumentassero i loro voti.
Né rivotando col Rosatellum (ipotesi più probabile), né cambiando
radicalmente il sistema elettorale (ipotesi, secondo me, improbabile)
per adottarne uno qualsiasi fra quelli in circolazione. Quindi il dovere
di sedersi al tavolo del più vicino o del meno lontano si riproporrebbe
tale e quale fra qualche mese. Che senso ha rinviare la scelta, anziché
affrontarla, o almeno tentarla, adesso?
Renzi vuole cambiare le
regole sul modello dell’Italicum e della sua riforma costituzionale per
raddrizzare le gambe al tripolarismo e schiacciarlo in un bipolarismo
forzato.
Quell’ipotesi è già stata bocciata una volta dal 60%
degli elettori e dalla Consulta. Ma soprattutto quella del ‘vincitore la
sera delle elezioni’ è un’idea malsana e soprattutto incompatibile con
l’humus profondo del sistema politico-sociale italiano. Gli illustri
miei colleghi comparatisti che vagheggiano sistemi ‘Frankenstein’ o
‘supermarket’, copiati un pezzo dalla Finlandia e un pezzo da San
Marino, come se un modello elettorale potesse prescindere dalla realtà
materiale della nostra società, hanno sempre pronta una soluzione. Ma
non si accorgono che noi italiani non siamo fatti per il bipolarismo
brutale, per l’alternanza secca vincitori-vinti, che infatti – negli
anni seppur ibridi del Mattarellum e del Porcellum – non ha funzionato.
Da noi la troppa semplificazione significa subito conflitto radicale e
occupazione totale del potere. Infatti siamo tornati al proporzionale,
che è più congeniale al nostro Dna politico e sociale.
Però, due mesi dopo le elezioni, non si vede l’ombra di un governo.
Se
è per questo, in Germania – la ‘locomotiva d’Europa’ – di mesi ne hanno
impiegati sei prima di farne uno. Lì non cambiano la legge elettorale a
proprio uso e consumo. Noi invece crediamo di risolvere i problemi
cambiandola in continuazione. Per giunta alla vigilia delle elezioni,
quando i partiti credono di conoscere il loro interesse particolare e di
poterla ritagliare a propria immagine e somiglianza, salvo poi
prendersi cocenti delusioni.
Non è meglio il maggioritario, dove
gli elettori scelgono nelle urne chi li governerà, anziché il
proporzionale, dove i partiti decidono dopo le urne un’ammucchiata
purchessia per andare al potere?
Se non la smettiamo di
criminalizzare le coalizioni e di illudere gli elettori, non ne usciremo
mai: anche se importassimo in Italia il modello dualistico Westminster –
ciò che suppergiù si voleva fare con l’Italicum –, trasferiremmo
soltanto le ammucchiate da dopo il voto a prima del voto. Perché uno dei
tre poli, per vincere, dovrebbe imbarcare tutto e il contrario di
tutto, voto politico e clientelare, voto pulito e di scambio, già prima
di votare, per fare numero e arrivare davanti agli altri due. Salvo poi
scoprire di essere non una forza politica, ma un calderone. Molto meglio
le coalizioni, purché siano fondate su programmi precisi e concordati.
Lei, nonostante tutto, rimane un tifoso del proporzionale.
Mi
pare il più adatto all’Italia di oggi, anche se è – per così dire –
faticoso. Richiede responsabilità e spirito delle combinazioni. Nella
cosiddetta Prima Repubblica, il proporzionale aveva una sorta di pilota
automatico. Le coalizioni erano obbligate da fattori esterni. La Guerra
fredda aveva diviso il mondo in due blocchi e non si poteva che stare di
qua con la Dc o di là con i comunisti: le coalizioni erano fondate
sull’‘essere’. Ora è tutto più liquido e fluido, dunque più libero e
responsabilizzante nella scelta delle combinazioni. Si tratta di
scegliere di volta in volta l’alleato più vicino o meno lontano, in
coalizioni basate sul ‘fare’. Cioè partire dai programmi e da quelli
giudicare chi è più vicino e più lontano.
Infatti Di Maio propone un contratto di governo alla tedesca.
La
prospettiva dei 5Stelle è tutta sul fare: ‘Partire dai programmi e
vedere chi ci sta’. E in questo sono stati corretti, interpretando in
pieno lo spirito del proporzionale. Anche se poi, secondo me, sono stati
troppo disinvolti nel manifestare indifferenza tra il Pd e la Lega, due
forze molto diverse. È vero che i problemi non sono né di destra né di
sinistra. Ma le soluzioni lo sono, eccome. La sicurezza urbana, la
gestione dei flussi migratori, la questione fiscale, il tema del lavoro
sono problemi che tutti devono porsi: ma il modo di risolverli non è
uguale a seconda che li si guardi da destra o da sinistra. Il fare
dipende dall’essere, che non si ricava dalle enunciazioni
programmatiche. C’è un ‘non detto’ che viene a galla sedendosi attorno a
un tavolo: è lì che emergono le ‘essenze’ più o meno lontane, più o
meno compatibili. E si formano le coalizioni. Ecco perché, nella nostra
innocenza, sia lei sia io avevamo pensato che la situazione meno assurda
fosse una qualche forma di cooperazione tra 5Stelle e Pd. Magari per
poco tempo, su pochi punti, con una delle tante soluzioni pratiche di
cui il bizantinismo politico italiano è sempre stato maestro.
Invece,
per Renzi e molti altri dirigenti del Pd, l’“essere” e anche il “fare”
dei 5Stelle sono orripilanti quanto quelli della Lega. Non invece di
Berlusconi…
Ci si può chiedere come il Pd, che persino Renzi si
ostina a definire ‘sinistra’, possa assumersi la responsabilità di
ritirarsi sull’Aventino senza indicare una sola alternativa all’ipotesi
di un’intesa con i 5Stelle su un programma sociale, senza approfittare
dei tanti temi che Grillo e Di Maio hanno mutuato dal bagaglio del
centrosinistra e che il Pd ha abbandonato ormai da anni. E così favorire
un governo non solo con Berlusconi, con cui il Pd si è trovato così
bene per anni; ma addirittura con la Lega, cioè con quanto di più
lontano esista al mondo dai valori della sinistra. Come faranno a
spiegarlo ai loro elettori rimasti, quando si tornerà alle urne?
Renzi&C.
obiettano che Di Maio e Salvini sono due populisti gemelli. E che oggi,
come ai tempi della Guerra fredda, c’è di nuovo una pregiudiziale
sull’essere più che sul fare: non più tra comunisti e anticomunisti, ma
tra populisti e antipopulisti. Senza contare il deficit di democrazia
interna dei 5Stelle.
Sulla democrazia interna, forse dimenticano
lo statuto e le prassi ultraventennali di Forza Italia, partito
aziendale e padronale per eccellenza, con cui hanno fatto governi e
addirittura riforme elettorali e costituzionali. Quanto al cosiddetto
‘populismo’, mi pare una parola magica evocata da chi non vuol entrare
nel merito delle cose. ‘Populista’ era Perón, ma anche papa Giovanni
XXIII, come ora Bergoglio. Lo era anche Berlusconi, che ora invece –
chissà perché – sarebbe anti. I populisti sono sempre gli altri: quelli
con cui si vuole litigare senza spiegare perché. Ultimamente si chiamano
populisti quelli che propongono misure a favore del popolo e utilizzano
metodi costituzionali per migliorare le vita ai propri concittadini,
quando non si sa come altrimenti squalificarli. Penso al reddito di
cittadinanza, o di dignità, o di inclusione: se è solo una promessa
campata in aria per raccattare voti è populismo, ma se è una misura
strutturale, con adeguate coperture finanziarie, per ridurre le
diseguaglianze e sostenere chi cerca lavoro è una scelta democratica per
eccellenza, non populista. Populista invece è chi sostituisce i diritti
con i favori e pratica il voto di scambio, come alcuni ultimi governi
iperpopulisti. Ma anche chi disprezza le istituzioni e scavalca la loro
logica oggettiva per appellarsi direttamente al popolo. La tentazione
populista è universale, oltreché vecchia come il mondo: nessuno ne ha
l’esclusiva e nessuno ne è immune.
Lei, ora, vede una soluzione?
Gliel’ho
detto. Un governo di coalizione su pochi punti, anche di durata
limitata, anche con appoggi esterni, sull’asse 5Stelle-Pd (o, se Renzi
preferisce, su quello centrodestra-Pd). E un Parlamento che sostituisca
il Rosatellum con una legge proporzionale a preferenza unica, senza
liste bloccate di nominati né paracadutati con le famigerate
multicandidature, che ci restituisca un Parlamento di veri eletti dai
cittadini, quindi capaci di autonomia. I quali poi diano vita a
coalizioni omogenee e, a fine legislatura, ne rispondano agli elettori.
Quella attuale, paradossalmente, è la situazione ideale per questo
approdo: la maggior parte delle forze politiche non è in grado di fare
previsioni attendibili sul futuro proprio e altrui alle prossime
elezioni. I 5Stelle potrebbero logorarsi o crescere ancora. Il Pd
potrebbe scomparire, spaccarsi un’altra volta, oppure rigenerarsi (anche
se, su questa china, non si vede come). Berlusconi è nell’incertezza
più totale. Salvini è l’unico che pare sicuro di sé, ma non è mai detta
l’ultima parola. Il filosofo politico John Rawls usava un’espressione
felice per dipingere la condizione dei sistemi politici al loro esordio o
alla loro rinascita: ‘Il velo dell’ignoranza’. È quella la condizione
ideale per la nascita delle Costituzioni o delle leggi costituenti per
eccellenza come quelle elettorali.
Cos’è oggi il velo dell’ignoranza?
Il
fatto che nessuno sappia esattamente come andranno le prossime elezioni
ci consentirebbe di fare una legge elettorale equa e democratica, senza
fasulle aspettative per questa o quell’altra bottega. Come nel biennio
1946-48, quello della Costituente: nessun partito sapeva chi avrebbe
tratto beneficio da questa o da quell’altra scelta, dunque seppero tutti
elevarsi al di sopra dei loro interessi particolari perché nessuno
poteva prevedere come favorirli. Mi auguro che, dopo due mesi di veti e
Aventini, qualche partito sappia ragionare, se non alla luce dei grandi
ideali o del bene comune, almeno del velo dell’ignoranza. E pensare a
quel che serve all’Italia. Cercando un’intesa sulle cose da fare per
farne bene almeno qualcuna, almeno per un po’. Le pare impossibile?