domenica 13 maggio 2018

Corriere Salute 13.5.18
L’anniversario
La Legge Basaglia compie 40 anni
di Claudio Mencacci

Direttore DSMD Neuroscienze

Sono trascorsi 40 anni (13 maggio del 1978) dalla nascita della Legge 180, che affermava e riconosceva i diritti e la dignità delle persone affette da gravi disturbi mentali e che permise all’Italia, unico Paese al mondo, il superamento e la chiusura degli Ospedali psichiatrici (manicomi) e la creazione di una rete di assistenza psichiatrica di comunità. Oggi guardiamo avanti ed è legittimo domandarsi: come sta la salute mentale nel nostro Paese, quanta è cambiata da allora? Sono mutate negli anni le richieste e i bisogni di cura parallelamente ai cambiamenti profondi intervenuti nel Paese? Il bisogno di salute mentale è cresciuto, come in tutti i Paesi Europei, soprattutto nell’area giovanile, poco considerata nonostante il dato epidemiologico che indica che in quasi il 70% dei casi i disturbi mentali insorgono in età adolescenziale e giovanile. Le persone che accedono ai servizi psichiatrici oggi sono diverse da chi un tempo era costretto nei manicomi, vi è stato un profondo cambiamento dell’utenza: oggi i disturbi psicotici (schizofrenia e psicosi) su cui era stato tarato il sistema di assistenza, costituiscono solo il 25% dei casi. Si è invece verificata una crescente richiesta di interventi per disturbi dell’umore (depressione-bipolarità) ansia (panico-Ossessivi-Compulsivi), comportamento alimentare, personalità (borderline), dipendenza comportamentale (gioco d’azzardo patologico) e da sostanze stupefacenti. Appare quindi necessaria l’implementazione effettiva e sempre più capillare di percorsi di cura, con interventi basati sulle evidenze scientifiche che i dati disponibili indicano come ancora scarsamente diffusi nei servizi italiani. Oggi la moderna psichiatria orientata a diagnosi e cure precoci con strumenti farmacologici più innovativi, sostegni domiciliari, sociali e sul posto del lavoro, sono in grado di migliorare la qualità e la quantità di vita delle persone, come accade per altre specialità mediche. La consapevolezza del fondamentale ruolo dei fattori psicosociali nel rischio di sviluppo, mantenimento ed aggravamento di molti disturbi mentali gravi, richiede un più capillare sforzo di prevenzione primaria e secondaria da parte dei servizi psichiatrici, purtroppo impoveriti di risorse, ma anche la consapevolezza della necessità di rivedere e potenziare gli strumenti di welfare, soprattutto a favore delle fasce più deboli della popolazione, e di sostegno alle famiglie.
Asst Fbf- Sacco, Milano

Corriere La Lettura 13.5.18
Decidi tu o i tuoi neuroni? Il declino del libero arbitrio
Dilemmi. La difficoltà di conciliare il concetto tradizionale di giustizia con le acquisizioni della ricerca sui meccanismi del cervello
di Patrick Haggard e Sofia Bonicalzi


Nella nostra esistenza quotidiana abbiamo la sensazione di poter scegliere liberamente che cosa fare e che queste scelte ci permettano di controllare le nostre azioni. Pensiamo a quale film vogliamo vedere, e l’intenzione che ne risulta guida le nostre azioni. Sperimentiamo una catena ordinata di decisioni che scegliamo ed eseguiamo. L’interazione con l’esterno dipende dallo scambio tra le previsioni delle conseguenze del nostro comportamento e la risposta dell’ambiente: quando premo l’interruttore, mi aspetto che la luce invada la stanza. Ciò che accade subito dopo conferma o smentisce la previsione, influenzando il mio comportamento successivo. L’associazione mentale tra un’azione e il suo esito è un elemento chiave della capacità di scegliere che fare, e sta alla base delle interazioni sociali. Quando ci relazioniamo con gli altri, assumiamo che le loro azioni siano egualmente basate su decisioni coscienti e riflettano obiettivi consapevoli. In questo senso, la libertà personale consiste nella capacità di produrre i risultati desiderati, esercitando la capacità di scelta.
La psicologia sperimentale e le neuroscienze si occupano da tempo di studiare i meccanismi cognitivi alla base delle azioni volontarie e hanno avuto un notevole successo nell’indagare come il cervello associ le azioni agli esiti. Tuttavia, queste scienze faticano a fornire una spiegazione riduzionista di come eventi chimici ed elettrici producano le azioni volontarie che percepiamo come «dipendenti da noi». I neuroscienziati mostrano un certo scetticismo circa il ruolo delle decisioni coscienti nel controllo dell’azione. I pionieristici esperimenti di Benjamin Libet negli anni Ottanta e una serie di studi successivi hanno suggerito che le decisioni coscienti di agire sono precedute da processi neurali inconsci che potrebbero rivelarsi determinanti nell’innescare le azioni. Come scrive Daniel Dennett, l’idea che le azioni volontarie siano guidate da decisioni consapevoli potrebbe non essere altro che «un’illusione dell’utente». Inoltre, le azioni volontarie sono di solito accompagnate dalla sensazione di «stare compiendo un’azione». Eppure, esperimenti effettuati durante interventi di chirurgia cerebrale hanno mostrato come i due elementi, che paiono strettamente intrecciati, possano essere dissociati. Infatti la stimolazione di aree specifiche della corteccia fa sì che i pazienti abbiano l’impressione di compiere movimenti che in realtà non si verificano o, al contrario, che essi compiano movimenti senza provare la sensazione di stare effettuando un’azione.
Queste scoperte, le cui conclusioni teoriche restano controverse, tendono a ridimensionare e decostruire l’idea tradizionale per cui la mente causa coscientemente le azioni. In particolare, il mito cartesiano della separazione fra mente e corpo non trova posto in un resoconto scientificamente attendibile di come vengono attuate le azioni volontarie. Tuttavia, le scienze che investigano i processi volizionali non si limitano a decostruire il dualismo, ma affrontano altre domande. Come avvengono le scelte volontarie? E che relazione c’è fra i meccanismi neurali che regolano le scelte e l’esperienza soggettiva delle nostre azioni?
In genere, le neuroscienze definiscono le azioni volontarie come azioni che dipendono da una causa interna, differenziandole dai movimenti corporei che dipendono da cause esterne. Secondo la causa che lo determina, il medesimo movimento può essere classificato come volontario oppure no. Posso sbattere automaticamente le palpebre per eliminare un corpo estraneo dagli occhi o posso sbatterle per mandare un messaggio. Le azioni volontarie appaiono più spontanee, flessibili e imprevedibili dei movimenti in risposta all’ambiente. Tuttavia, spontaneità e imprevedibilità non devono essere scambiate per assenza di cause. Gli esseri umani e gli altri animali agiscono sulla base di obiettivi che riflettono motivazioni. Pianifichiamo, avviamo ed eseguiamo azioni funzionali al raggiungimento di fini. In particolare, generare mentalmente piani per raggiungere un certo fine è un elemento decisivo nei processi cognitivi che traducono le intenzioni in azioni. L’importanza di questo processo emerge anche nelle discussioni sulla responsabilità. Per esempio, nei casi di presunto terrorismo, si distingue fra il fanatico che ha una generica intenzione di compiere un attentato, ma nessun piano specifico, e il criminale che ha un progetto dettagliato.
Indagare scientificamente i processi volitivi è difficile, ma non impossibile. Di solito, gli esperimenti sugli atti motori cercano di evocare una risposta attraverso la somministrazione di uno stimolo: si pensi agli esperimenti di Pavlov sui riflessi condizionati nei cani. Tuttavia, poiché le azioni volontarie sono, per definizione, generate internamente, gli scienziati non possono indurle tramite stimoli esterni. Per aggirare il problema, ci si avvale di istruzioni con un elemento di indefinitezza («premi questo pulsante quando ne hai voglia» o «premi uno di questi due pulsanti quando senti un suono, ma scegli liberamente quale premere»). Questi metodi richiedono che i partecipanti generino internamente informazioni su che cosa fare o quando farlo, in assenza di ragioni per preferire una certa azione. Difficilmente questi paradigmi incorporano l’intuizione che le azioni rispondano a ragioni specifiche.
Recentemente, tuttavia, il lavoro di Aaron Schurger, un neuroscienziato dell’Inserm di Parigi, ha messo in discussione convinzioni radicate su come ragioni e motivazioni contribuiscano alle azioni. Negli esperimenti di Libet, ai partecipanti era chiesto di compiere un’azione volontaria, scegliendo liberamente quando farlo. Modificando lo schema di Libet, Schurger ha mostrato come sia il momento in cui l’azione si verifica, sia il precedente aumento di attività neurale inconscia nei lobi frontali potrebbero essere determinati da fluttuazioni casuali dell’attività elettrica del cervello. Se le azioni volontarie sono il risultato di processi casuali o stocastici, che sembrano avere poco a che fare con scelte consapevoli relative a quando agire, come possiamo definirle «nostre», e dirci responsabili per averle compiute?
I dibattiti neuroscientifici hanno importanti implicazioni normative. Responsabilità morale e punibilità delle azioni sono aspetti essenziali del nostro modo di vivere. La comprensione dei meccanismi che regolano le azioni è decisiva per salvaguardarlo e migliorarlo. Si pensi al fatto che i disturbi dei processi volizionali (cioè relativi all’atto della volontà) sono comuni in diverse patologie neurologiche e psichiatriche. In molti sistemi legali, esse possono giustificare o esonerare da responsabilità e sanzioni. Tuttavia, le azioni di individui adulti sani dipendono nello stesso modo da meccanismi neurali e circuiti cerebrali. Ci si potrebbe chiedere se punire un individuo per le conseguenze di processi neurali meccanicistici (e quindi per il fatto di avere un certo tipo di cervello) corrisponda alle nostra concezione di giustizia. La domanda resta aperta e di difficile soluzione. Tuttavia, in quanto animali capaci di controllare le proprie azioni in modo flessibile e di ricordarne le conseguenze, gli esseri umani sono nella posizione di apprendere norme sociali, legali, e morali, e di agire in base a esse. Una società in cui ogni individuo abbia le medesime opportunità di avere accesso e di apprendere questi codici di comportamento va probabilmente nella direzione giusta. E una società che basi questi codici su principi di equità e condivisione sarebbe ancora più rassicurante.

Repubblica 13.5.18
Romano Màdera
Cattolico. Sessantottino. Maoista. Junghiano. Poi il ritorno alla Bibbia attraversando a piedi la Calabria. Un cammino di contraddizioni? “Anche Marx diceva di non essere marxista”
colloquio con Antonio Gnoli


Si può dire che ogni vita è un campo di battaglia: «Se alla fine ne ho avute più d’una è chiara l’opportunità che mi è stata data di rinascere. E allora viene in mente una vecchia frase. Non sento il rumore della pioggia, disse l’allievo. Devi averla udita in un’altra vita, gli rispose il maestro. Ora quel che senti è che stai nuovamente cambiando». Anche nelle tre o quattro vite di Romano Màdera si avverte il cambiamento. Dal suo racconto affiora il combattente interiore che nel curare le proprie ferite ha imparato ad affrontare quelle degli altri. Ci sono dunque storie che per trapassare devono essere smentite dalle durezze della vita. Storie alle quali non daremmo particolare credito se non fossero il frutto di una rinuncia piuttosto che di una conquista, di un sacrificio che non la mera affermazione incisiva e squillante di una vittoria. E poi: quale vittoria è mai così eclatante ed esaustiva da apparirci definitiva? La testa di Màdera, gli occhi di Màdera, perfino la bocca e le mani di Màdera sembrano concentrarsi in un punto invisibile tra me e il piccolo vuoto della stanza che ci ricomprende. Nella grigia penombra di un tardo pomeriggio milanese le parole di Màdera sembra vogliano riscattare l’atmosfera soffocante del piccolo studio. Noto un armadio, un divano, una poltrona, un tavolo, un abat-jour acceso e una sabbiera con la quale egli esercita il ruolo di analista junghiano. La sabbia, penso, come specchio di creatività e infelicità altrui, è una tecnica che Màdera ha appreso alla scuola di Paolo Aite: «Sono stato in analisi con Aite nel momento forse mentalmente più eccitante e tragico per me. Avevo scoperto Jung e poi Bernhard intuendo, come un naufrago, che una zattera mi avrebbe trascinato su qualche lembo di terra ferma».
La sua crisi a quando risale?
«Forse al 1976 o 1977. Insegnavo in una scuola tecnica. Italiano e storia. Nel programma La Divina Commedia. Nell’aula gli studenti si nascondevano sotto i banchi o dietro le colonne. Cominciai: “Nel mezzo del cammin di nostra vita...”. Sentii un intruso tuffarsi nella mia testa, gli schizzi si riverberavano nelle parole che pronunciavo, in quello che vedevo. Crebbe lo smarrimento. Dove ero? Chi avevo davanti? Non lo sapevo più. In termini tecnici potrei definirla una crisi di panico. Mi avviai lentamente verso l’uscita. Le voci, prima distinte, divennero un brusio. Lì in quel momento ebbi la nettissima sensazione che qualcosa stava morendo; che un periodo della mia vita se ne stava andando. Non avevo soldi per fare un’analisi. Pensai che la sola terapia a disposizione fosse la scrittura. Mentre moriva una parte di me, stava nascendo il primo libro».
Un libro che è stato appena ripubblicato da Mimesis: “Sconfitta e utopia”. Chi era lo sconfitto?
«C’era un lato personale in quella sconfitta, per tutto quello che avevo fatto e per ciò in cui avevo creduto. Scrissi il libro in gran furia e fu un modo di fare i conti con la grande ignoranza giovanile che aveva funestato il Sessantotto. Nella lettura che diedi di Marx scoprii qualcosa di interessante».
Cosa esattamente?
«La sua teoria del capitalismo impediva qualunque uscita da quelle regole economiche. Può sembrare paradossale, ma se si esamina seriamente il suo pensiero ci si accorge che non c’è spazio per la rivoluzione, non c’è nessuno spazio per quel mito che noi ragazzi del Sessantotto avevamo inseguito».
Possibile che un tale abbaglio riguardasse proprio l’autore le cui tesi avrebbero dovuto cambiare il mondo?
«Il Marx teorico della rivoluzione aveva tutt’altro fondamento rispetto alla sua analisi economica. Nasceva dalle velleità della dialettica hegeliana, dalla passione giovanile per Lutero, per San Paolo e per il profetismo ebraico secolarizzato. Nella sua testa si profilavano due scene totalmente diverse che non era in grado di fondere, ma tuttalpiù di giustapporre».
Insomma, il capitalismo era più forte di ogni pretesa rivoluzionaria?
«Con disperata lucidità giunse a questa conclusione: la funambolica capacità del capitale di rendere perfettamente omogeneo a sé stesso ogni preteso avversario. Non è casuale che, scrivendo a Engels, Marx ironizzava dicendo “non sono marxista!” . Per me fu un modo di prendere coscienza dei miei anni sbagliati».
Davvero lo furono in maniera così avvolgente?
«Se mi guardo indietro, posso dire che tutto si tiene. Provengo da una famiglia piccoloborghese con qualche ambizione culturale. Papà ispettore scolastico, mamma maestra. Quattro fratelli e pochi soldi. Sono cresciuto a Malnate, vicino a Varese. Un paese operaio dove c’era un’industria tessile. La mia fu un’educazione cattolica, impartitami da mia madre. Mio padre laureato in filosofia e gentiliano di vocazione sembrava più tiepido in fatto di religione. Salvo notare sul letto un’immagine della Sacra Sindone».
Cosa c’era di strano?
«Beh, mi faceva un certo effetto da bambino. Forse le sue origini calabresi lo spingevano a questa devozione, non lo so. Mia madre era veneta. Si incontrarono a Roma. E l’altra cosa strana, almeno per quel tempo, è che mia madre era del 1904 e mio padre più giovane di dieci anni. In famiglia ero il più piccolo. Uno dei fratelli, legato a don Giussani, mi fece leggere Kerouac. Seguivo impulsi diversi. Perpetuando certe stranezze che solo dopo mi sarei accorto appartenere alla vita».
Come viveva quei contrasti culturali?
«Da cattolico calato in una realtà operaia. Era l’Italia di quei tempi. Non credo che la mia condizione fosse un’eccezione. Avevo appreso un’educazione che non tollerava le ingiustizie; un sentimento per intenderci comune a tanti ragazzi della mia generazione. Fu su questa vaga consapevolezza che allora cominciò la mia seconda vita».
Verso quale direzione?
«Al liceo incontrai un professore cattocomunista. Un lettore accanito dei testi di Rosa Luxemburg ma, al tempo stesso, cattolico aperto alle tematiche sociali. Fu allora che iniziai a fare politica. Era il 1967. Poco dopo divenni maoista».
Per un ragazzo di formazione cattolica quasi un approdo naturale.
«Non saprei dire. Per me fu la ribellione a un ordine che reputavo repressivo e vecchio. Avevo già militato nella Gioventù Studentesca, un gruppo dedito a iniziative caritatevoli, soprattutto in alcuni paesi del Sudamerica. In particolare in Brasile. Mi accorsi che lì imperava la dittatura e che bisognava fare la riforma agraria, altro che la carità! A quel tempo cominciai a leggere alcuni testi di Giulio Girardi sui rapporti tra cristianesimo e socialismo».
Quella di padre Girardi fu una figura molto particolare e in voga in quegli anni.
«Proveniva dai fermenti sociali del cattolicesimo più aperto. Era un salesiano con studi filosofici molto seri. Fu tra i primi ad accorgersi che c’era una seria questione sociale per l’America Latina e averla posta senza reticenze gli costò l’espulsione dall’ateneo salesiano di Torino. Anche a Parigi dove andò a vivere subì la stessa sorte. Il dialogo che auspicava tra cristiani e marxisti era indigesto per le gerarchie ecclesiastiche. Ad ogni modo fu uno dei miei più importanti referenti culturali».
L’adesione al maoismo?
«Capisco che oggi apparirebbe una scelta insulsa; ma allora nei primi anni Settanta mi sembrava che la rivoluzione culturale cinese fosse quanto di meglio un giovane abbastanza ignorante e ingenuo potesse aspirare. Tanto era insopportabile la ritualità e il dogmatismo con cui i maoisti italiani si adeguarono a quel mondo, quanto eroico, per un ragazzo, poteva apparire lo sforzo di emancipazione dalla povertà compiuto da un miliardo di persone. Nessuno allora poteva immaginare che quella “rivoluzione” era il combinato disposto di violenza politica e cecità intellettuale. Ciò di cui mi resi conto quasi subito era il clima asfissiante che il partito comunista d’Italia aveva creato. Con sollievo me ne allontanai».
Per finire dove?
«La mia fortuna è stata di conoscere Giovanni Arrighi. Quando mi sembrava di aver toccato il punto più basso dell’involuzione mentale, comparve nel mio orizzonte questa stranissima figura di studioso, una bellissima persona che aveva fatto del rigore calvinista e dell’intelligenza le armi per combattere l’ortodossia che dilagava a sinistra. Con lui fondammo il gruppo Gramsci poi nel 1975 demmo vita alla rivista
Rosso».
Quella rivista fu soprattutto l’organo dell’autonomia operaia. Ancora una volta l’esaltazione dell’estremismo.
«L’intento che avemmo con Arrighi fu di farne il laboratorio di un pensiero politico non ancorato al marxismo-leninismo. Fu importante che quelle pagine si aprissero alla controcultura e al femminismo. Non capimmo, tuttavia, che essendo noi la “ destra” dell’estremismo di sinistra, saremmo stati emarginati. Cosa che puntualmente avvenne. Ricordo i vani tentativi di Elvio Fachinelli di continuare a scrivere per quella rivista nella convinzione di poter contribuire ai movimenti antiautoritari. Fu tutto inutile. La deriva ideologica stava avendo il sopravvento. Pensai che la cosa migliore fosse uscire da quel delirio».
Cos’è che la spinse ad andar via?
«Mi accorsi dell’assoluta incapacità di avere relazioni decenti con altre realtà. Considerarsi diversi dagli altri e ritrovarsi peggiore degli altri. Questo mi faceva star male. L’incapacità di ascoltare ci portò al fallimento non solo politico, ma antropologico. Tutta quella roba che stava accadendo mi crollò addosso con la morte di mio padre. Che era stato, malgrado la distanza, un riferimento affettivo fondamentale. A questo si aggiunse un disastro matrimoniale e la presenza di un figlio da cui non potevo comunque prescindere. Fu allora che cominciai a insegnare in un istituto tecnico di Seregno. Fu allora che si ruppe qualcosa dentro di me».
È il punto su cui c’eravamo fermati dopo la lunga digressione.
«Scrissi il libro su Marx e contemporaneamente iniziai a interessarmi di psicoanalisi: Freud e Jung. Fu in quel periodo che mi imbattei in Mitobiografia di Ernst Bernhard. Un libro per me fondamentale, dove convivono le intuizioni più diverse dall’ebraismo chassidico alle dottrine orientali, fino ovviamente alla pratica analitica junghiana. Tutto sotto una luce di estrema originalità. Decisi di andare a trovare la sua maggiore allieva Hélène Erba Tissot, che aveva curato il libro. Fu lei, dopo vari incontri, a indirizzarmi su Paolo Aite. L’analisi che intrapresi sarebbe stata propedeutica ai miei nuovi impegni».
Quando accadeva tutto questo?
«Tra il 1978 e il 1982, in quel periodo andai a insegnare a Cosenza. Fu un’esperienza intensa. Si viveva senza troppe divisioni né formalità il rapporto tra allievi e insegnanti. Una delle cose più emozionanti fu per me attraversare la Calabria a piedi insieme a un gesuita che mi insegnò a interpretare la Bibbia. Attraversammo la Sila e l’Aspromonte, accompagnati dalla lettura di Giobbe e del Cantico. Poi arrivarono gli anni veneziani. Emanuele Severino mi chiamò all’università. Aveva creato una scuola di allievi liberi ma altresì devoti al suo pensiero».
Cosa pensa delle sue tesi filosofiche?
«Le trovo straordinarie per tutta la parte critica, meno nella proposta che mi risulta poco convincente. La mia idea di filosofia è più una pratica che non una mera speculazione. Voglio dire che non può essere solo una professione, ma un impegno nella vita. È qualcosa che mi deriva da Jung quando afferma che l’arte richiede tutto l’uomo».
Che cosa significa?
«Vuol dire che se la filosofia è un impegno che serve a trasformare la percezione del mondo, allora essa è soprattutto un “programma di vita”. Trovo molto convincente Pierre Hadot quando dice che la filosofia era un modo di vivere e di esercitare un pensiero in relazione con gli altri. E allora cos’è la verità se non il riconoscimento che il proprio Io è confronto e ascolto degli altri?».
Le interessa Lacan?
«Lo conosco poco e quando lo leggo faccio fatica a capire cosa dice. Lo ritengo un grande giocatore di parole. Ma questo non vuole essere una critica, perché saper giocare è una questione fondamentale per immaginare diversamente. Al “ reale” come lo istituisce Lacan preferisco Jung quando dice che il reale è ciò che ha effetto e contemporaneamente la nostra misura nelle cose».
In fondo tutta la sua storia si è svolta tra dismisura e misura. Cosa ha conservato delle precedenti vite?
«La convinzione che ci sono molte cose oltre me e che questa non vuole essere un’affermazione teorica; ma appunto una pratica. Quello che ho cercato di conservare è una certa idea di utopia. Non come l’avrei pensata sul finire degli anni Sessanta, ma come la vedo oggi dopo gli errori, e le necessarie correzioni sopravvenute. L’utopia non è un sogno che si deve realizzare; ma solo una stella polare che deve guidare il nostro cammino. Coloro che hanno preteso di realizzare l’utopia hanno soltanto bruciato il mondo».

Corriere 13.5.18
«Ultimo tango» torna al cinema. Ma questa volta è un film «per tutti»
di Paolo Mereghetti


Dopo essere stato condannato al rogo e aver fatto perdere i diritti civili per cinque anni al suo regista, «Ultimo tango a Parigi» di Bernardo Bertolucci è tornato a far parte della categoria «film per tutti», con «Mary Poppins» o «Piedone lo sbirro». La decisione l’ha presa la commissione di censura che venerdì ha visionato la nuova copia del film, restaurata nella sua integrità dal Centro Sperimentale di Cinematografia, che la distribuirà nei cinema italiani a partire dal lunedì 21 maggio. Comprensiva anche di quegli 8 secondi (sul primo amplesso tra i due protagonisti, consumato in piedi) che nel 1972 i produttori furono obbligati a tagliare per ottenere almeno il divieto ai minori di 18 anni.
Il che poi non impedì il vergognoso calvario del film e del suo autore, condannato il 29 gennaio 1976 alla «distruzione del negativo». Certo, da allora molto tempo è passato e come già fu stabilito nel 1987 (quando il film fu riabilitato e derubricato ai minori di 14 anni, pur con un taglio di 6 minuti) il reato di oscenità aveva perso la sua ragion d’essere proprio in ragione di un «mutato comune senso del pudore». Ma oggi non si rischia di cadere nell’eccesso opposto? Almeno fino a quando non sarà esecutiva la tanto attesa riforma della censura, la protezione dei minori è ancora affidata alle commissioni del ministero. E viene da chiedersi se un film come «Ultimo tango» non debba essere «consigliato» solo a spettatori di una certa maturità. Non parlo della troppe volte citata scena «del burro» (su cui si è già esercitata la satira di «Ultimo tango a Zagarol») penso al senso di disperazione e di morte che il personaggio di Brando si porta dietro per tutto il film e che esplode nella tragedia finale.
Come ne uscirebbe la fantasia un ragazzino? Ci sono dei libri — La coscienza di Zeno, Lo straniero, Viaggio al termine della notte, tanto per fare qualche esempio — che non metterei in mano a un ragazzo di dieci/dodici anni. Come non gli farei vedere «Ultimo tango a Parigi». Aspetterei che crescesse un po’. Anche per poter capire che quel film è un capolavoro e non solo uno spunto per fare facili battute sul sesso.

Il Fatto 13.5.18
Oggi Morin ne parlerà a Torino al Salone del Libro“Il ’68, rivoluzione infangata. Per gli psicanalisti fu un colpo”
“Quella parola andrebbe disinfestata. Il Maggio è stato una breccia perchè stabilì che nessun fondamento fosse certo”
di Angelo Molica Franco


“Aquell’epoca tutto era desiderio.” Con questo ricordo laterale eppure così affabulante, il professor Edgar Morin – figura di prestigio della cultura contemporanea – inizia l’intervista. “Durante il maggio, le persone incontrandosi non potevano fare a meno di chiedersi ‘Qual è il tuo desiderio?’”. Ospite d’onore del Salone del Libro, oggi Morin dialogherà con Mauro Cerruti nell’incontro “Sessantotto: complessità e rivoluzione”. Ma per lui, “la parola ‘rivoluzione’ è abusata. Io stesso, a riscrivere i miei articoli sul Maggio, la utilizzerei con cautela. Oggi si è infangata troppo. Consiglio di sottoporla a disinfestazione.”
Per questo ha raccolto questi suoi scritti a cavallo di cinquant’anni sul Maggio sotto il titolo “La breccia”?
Il Maggio è stato una breccia sotto la linea di galleggiamento culturale, che lascia un segno sotto traccia: nulla di tangibile è cambiato, ma si è giunti alla coscienza che nessun fondamento è certo.
Dove si è aperta la breccia?
Nella condizione femminile: prima del ’68, le riviste dedicate alle donne consigliavano di essere belle per sedurre il proprio marito; dopo il Maggio, la problematicità della cultura investe anche i femminili, che iniziano a parlare di come affrontare la vecchiaia o la solitudine. O ancora, nella percezione del diverso: l’omosessualità di Roland Barthes dava scalpore prima del Maggio, dopo nessuno se ne interessò più.
Molti militanti dell’epoca hanno cambiato idea. Lei sembra il solo a mantenere il proprio pensiero. Di recente, Daniel Cohn-Bendit, nel programma “C à vous” ha detto che durante il maggio si sono dette e fatte anche tante stronzate.
Noi lo chiamavamo Dany le Rouge ed era un libertario. Poi, serbando il temperamento, si è scoperto partigiano e ancora europeista. Ma non critico l’esperienza soggettiva di chi, nell’assenza di risultati immediati, ha vissuto la disillusione dei propri ideali.
Davvero nessun risultato immediato?
Sì, uno. Gli studi degli psicanalisti si svuotarono perché la gente non stava più male. In pratica hanno preso tutti a parlarsi per strada, riscoprendo la fraternità, la convivialità: esigenze naturali che crescendo, nell’adattarci al mondo adulto, addormentiamo. Come ogni rivolta giovanile, anche il Maggio fu un voglia di relazione.
Ma non durò molto quella fraternità.
Perché ritornò l’autorità del super-ego statale, che crea cittadini ansiosi di ricchezze materiali, distanti gli uni dagli altri.
Il concetto di fraternità è caro al presidente Macron, che per il suo impegno europeista ha ricevuto tre giorni fa la medaglia Carlo Magno.
La sua idea di rigenerazione dell’Europa è meritevole, soprattutto perché l’idea di comunità culturale europea è stata degenerata dal potere tecnocratico finanziario volto a sviluppare solo un’unità economico-finanziaria. La condivisione culturale è necessaria tanto più oggi che il dialogo è aperto anche con Ungheria, Polonia e Turchia che non hanno una tradizione democratica.
Anche il dialogo interno in Francia ha le sue difficoltà. Si discute sulla censura dell’Islam sui media: dopo Houellebecq ed Éric Zemmour, è stato citato in giudizio in questi giorni Pierre Cassen (di “Riposte Laique”, sito per difendere il diritto di critica verso l’Islam) per “incitamento all’odio contro i mussulmani”.
Anche nei confronti dell’Islam c’è stata una mancata fraternità in passato che riverbera nelle nuove generazioni. Più dei padri, sono i figli a ghettizzarsi, ad avvertire la repulsione. Ricordiamoci che, da religione giudaico-cristiana, l’Islamismo è un credo fondato sul concetto di pace. Altra cosa è il fanatismo.
Oggi gli studenti francesi protestano per la Loi Vidal (Loi Orientation et réussite des étudiants). Lei sarebbe dalla loro parte?
Ogni riforma, utile o inutile, provoca una reazione collettiva ed è un’opportunità per quel rituale iniziatico che è la ribellione. Ma il sistema educativo francese avrebbe bisogno di essere totalmente ripensato e di soluzioni assai diverse da una riforma così di poco conto.

La Stampa 13.5.18
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino


Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suoInsegnare a vivere(uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».

Corriere 13.5.18
Memoria. Roberto Gobbi ricostruisce le vicende del maggio parigino (Neri Pozza). Protagonisti della sommossa il contestatore Cohn Bendit e il prefetto Grimaud
La Francia si annoiava, poi d’un tratto scoppiò il Sessantotto
di Massimo Rebotti


Tutto in un mese. Il maggio del 1968 in Francia è un lampo, un susseguirsi di avvenimenti tanto rapido e significativo da diventare storia. Il libro di Roberto Gobbi Maggio ’68 (Neri Pozza) restituisce il senso di una corsa: pagine serrate che ci riportano dentro all’Università di Nanterre, poi alla Sorbona, alla prefettura di Parigi o nel gabinetto del presidente de Gaulle, e, infine, nelle strade di Parigi, la «quinta» di ogni avvenimento.
Pur sapendo, in linea di massima, che cosa successe in quell’unico mese di 50 anni fa — la rivolta studentesca, gli scontri con la polizia, i grandi scioperi e le trattative con il governo — nella lettura ci si sorprende spesso, per il gusto dell’autore di seguire anche tracce apparentemente secondarie e che invece diventano cruciali per «vedere» la scena. Per esempio: racconta Gobbi che una settimana prima dell’occupazione di Nanterre, primo fuoco del Maggio, su «Le Monde» esce un articolo: «La Francia si annoia». La vita politica, i dati economici, il tran tran dei cittadini, tutto concorre a definire l’immagine di un Paese placido, senza tensioni né passioni. Nessuno prevede, nemmeno lontanamente, quello che di lì a poco succederà.
Sulla scena irrompe Daniel Cohn Bendit, «ironico, disinvolto, imprevedibile», uno dei più grandi oratori del Sessantotto francese, «lui, che fino a due anni prima, soffriva di una leggera balbuzie». Nel libro si affacciano molte figure, ma Cohn Bendit sarà una sorta di filo conduttore.
Il suo alter ego, volendo vedere, è il prefetto di Parigi Maurice Grimaud. A lui spetta il compito di mantenere l’ordine. «Uno strano prefetto», racconta Gobbi, «gran conversatore, ironico, più incline al dialogo che alle maniere forti, riuscì a evitare che la contestazione finisse in un bagno di sangue».
In mezzo, tra il leader e il prefetto, si agitano gli altri: i gruppi dell’estrema sinistra, gli studenti idealisti e i sindacati pragmatici, i comunisti diffidenti verso i giovani, gli artisti impegnati e i poliziotti a migliaia, i ministri del governo — chi per la mano dura, chi per la trattativa — e de Gaulle, che prima sottovaluta, poi si preoccupa e cerca la mossa del cavallo per chiudere la partita. In ultimo i parigini, che in larga parte solidarizzano con i contestatori nonostante la città in fiamme. Con i risultati ottenuti dagli scioperi — a un certo punto incroceranno le braccia perfino i meteorologi e i becchini — e con le elezioni che rimettono in sella i gollisti, «alle soglie dell’autunno, il Maggio è già storia».
Gobbi cita un rapporto Unesco che, per spiegare la contestazione, «suggerisce un curioso esperimento»: «Prendete migliaia di studenti di Sociologia e fategli seguire corsi in aule previste per cento persone... Raccomandategli di pensare a come si dovrebbe cambiare la società. Non appena dimostreranno qualche interesse per l’argomento, mandategli contro la polizia. Poi manifestate il vostro stupore».

Repubblica 13.5.18
Io Lenin, tu Lennon
A rimettere ordine nei miti del ’68 ci voleva un signore di 97 anni che ripubblica, mezzo secolo dopo, le riflessioni di allora. Non fu rivoluzione ma rivolta generazionale. E quel magma di istanze antitetiche, tra politica e pop, brucia fino a noi
di Marino Niola


Il Sessantotto non ha cambiato la politica, ma ha rivoluzionato le nostre esistenze. A dirlo è il filosofo e sociologo Edgar Morin in Maggio 68. La breccia, in uscita da Raffaello Cortina. Il libro si compone di testi in presa diretta, usciti su Le Monde nel maggio 1968 arricchiti da una illuminante riflessione scritta nel gennaio scorso. Sono pagine traboccanti di passione e di emozione. Dove si avverte l’incandescenza magmatica del sommovimento, colta in tutta la sua virtualità generatrice di futuro. Morin, che l’8 luglio compirà novantasette anni, individua le conseguenze di lunga durata di quella grande marea, la cui onda di ritorno arriva fino a noi. In effetti quel fremito prolungato che attraversa la schiena dell’Occidente borghese e non solo, dalla rivolta di Berkeley al Maggio francese, da Valle Giulia a Woodstock, da Piazza San Venceslao al Cairo di Nasser, ha finito per aprire una breccia al di sotto della linea di galleggiamento della nostra civiltà. E ad assestare il primo colpo è stato un movimento transnazionale e trans-ideologico di adolescenti inquieti. Antiliberisti libertari, terzomondisti atrabiliari, situazionisti incendiari, maoisti conseguenziari, leninisti dottrinari, trotzkisti visionari, che non reclamavano un posto al tavolo dei grandi.
Volevano rovesciare il tavolo. Rifiutavano di vivere come i genitori, disprezzavano l’idea stessa di carriera. Aborrivano il mondo adulterato degli adulti, con la sua ragionevolezza fatta solo di calcolo, di economia, di interesse, di utile. “Siate ragionevoli, chiedete l’impossibile!” era uno degli slogan. Il marxismo è stato il connettivo che ha permesso di tenere insieme questo patchwork multicolore e multivalore, più surrealista che leninista. E ha fornito un linguaggio in grado di unificare la molteplicità di istanze parricide che sono il vero minimo comune denominatore di quella che è stata, prima di tutto, una rivolta contro i genitori.
Contro il “seminirvana consumistico”. E contro i simboli e le istituzioni che davano corpo e anima all’autorità. Dalla famiglia allo stato, dalla scuola all’esercito, dalla Chiesa alla scienza, fino all’università dei baroni.
Destinata a diventare il vero epicentro del terremoto sessantottino. Assestando “un colpo profondo al basso ventre di una società che aveva schierato dappertutto le sue difese, salvo che nella sua nursery sociologica”. A dire il vero, nell’immaginario della contestazione, più che il Capitale e i Grundrisse c’erano Rousseau, Rimbaud e perfino Thoreau, sapientemente amalgamati con il placebo comunista da una coorte di maître- à- penser che nel magnetismo pulsionale, emozionale, libidinale di quel momento hanno trovato una seconda giovinezza. Un elisir di lunga vita che ha fatto del forever young la sola, vera classe d’età della società postmoderna. All’immagine tradizionale dell’adulto-padre, dice Morin, il movimento “contrappone l’immagine incompiuta di un’adolescenza permanente”.
Non una stagione anagrafica, dunque, ma un’eterna primavera del corpo e dell’anima, del desiderio e della libertà. Nel vortice della contestazione globale, la parola d’ordine lanciata da Jean-Paul Sartre, “ribellarsi è giusto”, diventa una chiamata al levantamiento generazionale. Non solo contro genitori e professori. Si rivoltano anche gli operai contro dirigenti e padroni, i medici contro la casta dei primari, gli scrittori contro gli editori paternalisti. E i ragazzi ebrei contro i vecchi rabbini per “farsi riconoscere il diritto di trattare le questioni religiose”. È più ebollizione che rivoluzione. E dietro il mantra marxiano dell’intellettuale organico, affiora l’antifona reichiana dell’intellettuale orgonico. Che risuona tra le performance estreme del Living Theater che portano in scena il tramonto dell’Occidente e le tracce di un oriente dell’anima che molti vanno a cercare a Benares e a Katmandu. Una generazione in cerca di altro, qualunque sia quest’altro. Basta che non somigli a quel che ci hanno tramandato papà e mamma. Così il rifiuto del proprio mondo porta alla costruzione di universi utopici, di autentici ready made mitologici che vedono nella differenza l’antidoto contro la familiarità dalla quale ci si vuole emancipare. Ecco perché la rivoluzione, il socialismo, il sol dell’avvenire, più che un progetto politico sono un mito fusionale, spesso confusionale, sospeso tra istanze antitetiche. Marcuse e il Che, Mao e Hailé Selassié, guardie rosse e pantere nere, Gramsci e Krishna, Lenin e Lennon, pacifismo e lotta di classe, revival folk e femminismo, nuove spiritualità e stati alterati di coscienza, figli dei fiori e minigonne, la comune di Parigi e il Ristorante di Alice. Da quel magma nascono molte scelte di vita che hanno a che fare più con il personale che con il politico e che oggi sfociano spesso nell’antipolitica.
Perché molte delle idee che sono alla base di fenomeni attuali come populismo, antiglobalismo, neotradizionalismo, revival identitario, antiscientismo, antiautoritarismo, ambientalismo e persino il rousseauvianesimo digitale, sono il frutto tardivo della contestazione. Come dire che il movimentismo attuale non è figlio di NN. Né nasce solo dai new media. Ma è l’ultimogenito, non riconosciuto, della controcultura, di quel protagonismo disseminato e degerarchizzato del “Non ho niente da dire, ma lo voglio dire”. Che nella rete e attraverso la rete riesce a piazzare il colpo vincente e trasformare la demagogia in egemonia. O almeno ci prova.

La Stampa 13.5.18
Quel naufragio dimenticato, quando i migranti eravamo noi
«Il naufragio», di Antonio Zinni, racconta una storia di speranza tra migranti italiani in Argentina
di Alessandra Dellacà


Una storia che parla di speranza, di coraggio e di solidarietà: è quella che lega, nel romanzo «Il naufragio» (ed. Cooperativa Editoriale Oltrepò), uomini in cerca di un futuro migliore ad altri figli dello stesso mare.
La scoperta è stata fatta da Antonio Zinni, 77 anni, che ha letto il nome «Castelnuovo» in un trafiletto di un volume dedicato alla storia di Cannes: si narrava il naufragio avvenuto alla nave a vapore Normandia nella notte del 17 febbraio 1875, all’altezza dell’isola di Saint Honorat, 1800 metri dalla costa. Zinni è docente di lingua e letteratura francese e preside in pensione: originario di Vasto, si è sposato a Voghera, nell’Oltrepo, dove ha avuto un figlio, Nicola (che ha curato il disegno della copertina).
La risposta che cercava
Poco distante, in Piemonte, il paese di Castelnuovo Scrivia: «Non c’era alcun altro riferimento - spiega il professore -. In Italia ci sono moltissimi Castelnuovo, ma il fatto che la Normandia facesse rientro a Genova mi fece ben sperare». Consultati gli archivi francesi, Zinni ebbe la risposta che cercava: su un giornale locale dei tempi veniva citato quel naufragio. Le persone a bordo erano di Castelnuovo Scrivia.
«Era il 1875: 360 emigranti tornavano dall’Argentina. Rientravano in patria con i guadagni sudati oltreoceano e un sogno che stava per avverarsi - prosegue Zinni -: comprare quel fazzoletto di terra dove costruirvi una casa di proprietà. La notte della tempesta si salvarono tutti. I frati che abitavano sull’isola diedero l’allarme sparando dei razzi verso la riva: immediati i soccorsi dal villaggio dei pescatori. I superstiti, che avevano perso tutto, vennero rifocillati, curati ed alloggiati a Cannes. I francesi fecero una colletta di 7000 franchi e rimisero sul treno i castelnovesi. Fu una grande festa per quella città dal cuore così generoso». Di recente il sindaco di Cannes David Lisnard ha ringraziato Zinni inserendo il suo volume negli archivi di Stato di Francia».
Gli altri personaggi
«Nel libro, che probabilmente verrà tradotto in francese, questo fatto realmente accaduto si fonde con personaggi inventati. Ma, sfogliando le pagine, si troveranno anche quattro nomi di castelnovesi esistiti davvero (Giovanni Angeleri, Mauro Cairo, Giovanni Grasso, Giuseppe Rota), che secondo quanto scoperto da Zinni, avrebbero firmato insieme all’allora sindaco di Castelnuovo Scrivia, Giuseppe Roluti, una lettera di ringraziamento al primo cittadino di Cannes. Nel romanzo figura un altro castelnovese - del XXI secolo -: è Roberto Carlo Delconte, ex allievo di Zinni che si è prodigato per comunicare la notizia agli ignari castelnovesi dei giorni nostri».

il manifesto 13.5.18
Wieviorka spoglia un mito
Storia. Una ricostruzione fedele anche all’egoismo degli interessi che guidarono i paesi coinvolti nella guerra contro il nazismo: «Storia della Resistenza nell’Europa occidentale 1940-1945»
di Philip Cooke


Nel luglio del 1940, appena passata la Darkest Hour, fu creato lo Special Operations Executive (SOE), sotto la direzione del deputato laburista Hugh Dalton. Educato a Eton, poi a Cambridge, Dalton era un personaggio imprevedibile, ma di notevole ingegno: ribelle nei confronti della classe sociale dalla quale proveniva, si era dedicato alla causa del socialismo, tanto che a Cambridge lo chiamavano «il compagno Hugh». Combatté nella prima guerra mondiale sul fronte italiano, fu decorato e scrisse le sue memorie in Con gli inglesi sul fronte italiano: era quindi veterano di una guerra regolare. Ma il suo compito fu in seguito ben diverso. Churchill gli chiese infatti di organizzare una struttura capace di appoggiare, gestire e armare movimenti di resistenza in tutti i paesi occupati dai nazisti. Come spiegava una famosa relazione strategica elaborata qualche mese prima, Churchill, insieme a altri fautori della shadow war, la consideravano come una specie di quarta armata. Nel documento, intitolato «British Strategy in a Certain Eventuality» (la «eventuality» sarebbe stata la caduta della Francia, un processo già iniziato) si prevedevano tre strategie: pressioni economiche, bombardamenti aerei e «la creazione di una rivolta generalizzata nei territori conquistati».
«Ora incendiate l’Europa»
Questa visione di un movimento resistenziale capace, con le armi necessarie, di liberare interi paesi dall’occupante tedesco, trova la sua più piena espressione pubblica nella riduzione cinematografica del romanzo di Steinbeck, the Moon is Down, realizzata nel 1943: il film mostra tutte le capacità di resistenza di un piccolo paese della Norvegia, dove un eroico sindaco si rifiuta di collaborare con l’occupante tedesco nonostante le terribili violenze e le paure dei civili. Altrettanto efficace, e meno divertente, è la famosa frase indirizzata da Churchill a Dalton: «set Europe ablaze» («ora incendiate l’Europa»). Data l’efficacia dell’immagine evocata, non sorprende che la frase sia stata molte volte citata, nel corso degli anni.
Churchill parlava allora di Europa, non solo della Francia, ma la realtà della guerra fu ben diversa, e i movimenti resistenziali nei paesi occupati dai tedeschi ebbero caratteristiche molto più limitate di quelle auspicate nel 1940, sviluppandosi lungo linee nazionali e più spesso locali, con qualità ed esiti eterogenei a seconda dei vari paesi. Proprio questo ha impedito che potesse formarsi una memoria europea: nel caso italiano, i musei e altri luoghi della memoria si focalizzano spesso, e giustamente, sulle esperienze dirette e locali di violenze subite, di stragi ed eccidi, oppure evidenziano il ruolo di personaggi chiave (penso ad esempio al monumento di Kounellis dedicato ai tre rettori antifascisti dell’Università di Padova). Unico tentativo di ricordare una resistenza sperimentata su scala transnazionale, il monumento alla Resistenza europea di Como situato vicino al lago, coinvolge lo spettatore in un processo di attiva ricreazione della memoria, sollecitando il percorso di tre differenti scalinate che costeggiano grandi lastre di metallo a forma di leggii, sulle quali sono incisi alcuni brani in lingua originale e in italiano tratti dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza europea.
Sul versante storiografico, invece, il primo tentativo di considerare la Resistenza in tutta l’Europa risale già al 1958, quando venne organizzato un convegno in Belgio, dedicato ai paesi occidentali. Altri seguirono a Milano, e nei primi anni sessanta a Oxford, dove il tema centrale era il rapporto tra gli alleati e la Resistenza. Dagli atti ciclostilati (e quindi quasi del tutto sfuggiti agli storici successivi) vengono fuori le tensioni e i contrasti tra i vari attori, ma anche un senso di reciproco rispetto.
Un tentativo temerario
Ora, il saggio che Olivier Wieviorka dedica alla Storia della Resistenza nell’Europa occidentale (Einaudi, pp. XIV – 464, euro  35,00, ben tradotto da Duccio Sacchi, sebbene l’originale del titolo sia più modestamente Une histoire de la Résistance en Europe Occidentale), si presenta come un tentativo ambizioso, anzi temerario, di osservazione sotto un’ottica dichiaratamente transnazionale. Se restano esclusi i paesi dell’est, sotto l’influenza dell’Unione Sovietica, è perché essi costituiscono, come motiva lo storico francese, un caso separato. Il libro appartiene al genere che i francesi chiamano «haute vulgarisation», un orientamento non sempre apprezzato dagli addetti ai lavori in Italia: il suo principale merito è offrire al lettore italiano, e soprattutto alle giovani generazioni, un quadro panoramico, pieno di interessanti paragoni e spunti comparativi.
Wieviorka ci aiuta a capire – e non è poco – una vicenda che spesso trascendeva angusti confini locali e a vedere meglio i nostri comuni legami storici. Per dare coerenza al suo libro, lo storico e sociologo francese sceglie di concentrarsi, soprattutto nella prima parte, sulla situazione a Londra, dove si stabilirono i vari governi in esilio (non solo quello di de Gaulle, ma anche di vari altri paesi come il Belgio e i Paesi Bassi) e dove comandava lo Special Operations Executive. Da qui venivano trasmessi vari programmi radiofonici, da Radio Orange a Radio Londra, cui Wieviorka riconosce una notevole importanza nella prospettiva del suo saggio, che opera una sorta di rovesciamento, dal bottom up al top down, facendo perdere le tracce dei vissuti in prima persona di quegli uomini e donne coinvolti nell’esperienza della guerra, ma offrendo – in compenso – un resoconto estremamente convincente delle condizioni, spesso difficili e contraddittorie, sotto le quali lavoravano gli esponenti dello Special Operations Executive.
In uno dei capitoli migliori del libro, Wieviorka studia la questione dei famosi lanci alleati, i cui arrivi tardivi e spesso in luoghi fuorimano, restano legati da sempre alla «leggenda nera» degli inglesi poco comprensivi, se non liquidatori, di fronte alle esigenze della guerra partigiana. Il quadro che ne viene fuori, tuttavia, correttamente ritrae un alleato nel pieno senso della parola, non condizionato politicamente, ma certamente tormentato da vincoli sia strategici sia pratici.

Corriere La Lettura 13.5.18
Misteri svelati Un reporter francese ha fatto esaminare (con il via libera della Lubjanka) i resti del Führer. «Sono autentici», dice. E conservati «alla russa»
Basta teorie del complotto Hitler è morto nel bunker

di Stefano Montefiori

Quarant’anni fa, nell’aprile del 1978, la Nbc trasmetteva una miniserie in quattro puntate da 120 minuti destinata a sconvolgere il pubblico di gran parte del mondo. Si tratta di Holocaust, una fiction tratta dal bestseller di Gerald Green e diretto da uno dei registi di Radici, Marvin J. Chomsky. Racconta la storia parallela di due famiglie berlinesi, quella ebrea dei Weiss e quella ariana dei Dorf, negli anni tra il 1938 e il 1945. Della prima non resterà che un superstite: il figlio minore, Rudi; tutti gli altri (nonni, padre, madre e due figli) vivranno un atroce calvario prima di essere catturati dai nazisti e trucidati nei campi di sterminio. La storia della famiglia Dorf, altrettanto tragica, descrive il passaggio dalla normalità alla follia, in un vortice di rabbia e di esaltazione assassine.
Holocaust ha un impatto senza precedenti sul pubblico (battuto ogni record d’ascolto negli Usa: i giornali dell’epoca parlano di un coinvolgimento di circa 120 milioni di spettatori; dopo anni, la Nbc batte le concorrenti Abc e Cbs): un fremito di orrore e vergogna attraversa gli Stati Uniti, come se la quasi totalità degli americani venisse a conoscenza soltanto ora dello sterminio nazista. Nel gennaio dell’anno dopo, Holocaust arriva in Germania e innesca un tale sussulto morale collettivo da provocare lacerazioni nella coscienza di un intero popolo e, allo stesso tempo, apre un dibattito storiografico, culturale e civile. Dopo tribunali e processi, i tedeschi sembravano aver voglia di dimenticare che cos’era successo, un ingombro fastidioso di cui liberarsi.
Nel maggio 1979, Holocaust (Olocausto) viene proiettato anche in Italia su Raiuno, la domenica sera, in una versione di otto puntate di circa 50 minuti. Intervistato dal «Corriere della Sera» (20 maggio), Primo Levi esprime tutta la sua perplessità: «In Holocaust non c’è degradazione, gli attori hanno la barba rasata, parlano, sono ancora uomini, non sono animali disperati come eravamo noi. Eravamo degli automi, con un unico pensiero, quello di non morire. Una volta alla settimana ci facevamo la barba… Ma Holocaust è meglio che niente». Anche il regista Claude Lanzmann, autore di Shoah, un film-fiume della durata di più di nove ore, opera fondamentale anche dal punto di vista storico sullo sterminio degli ebrei, storce il naso nei confronti della serie. Sulla rivista «Les Temps Modernes» accusa Holocaust di raccontare la tragedia in modo molto convenzionale e hollywoodiano (allora l’aggettivo connotava spregio), di scuotere solo la sfera emotiva e quindi di appiattire e sminuire l’enormità del dramma del genocidio, uno «sterminio irrappresentabile» (stesso giudizio Lanzmann manifesterà poi su La lista di Schindler e La vita è bella).
Paradossalmente, l’aspetto più interessante è proprio questo: può un prodotto televisivo di massa scuotere le coscienze di una nazione e, insieme, stimolare una riflessione su quanto è stato rappresentato? Bisogna, sì o no, prendere atto che la televisione seriale sta diventando il più suggestivo libro popolare di storia? La cultura pop è in grado di affrontare temi così delicati? L’effetto Holocaust, per riprendere le parole di Heinrich Böll, ci costringe «a riflettere sulle concezioni che abbiamo di “popolare”, di “emozionante”, di “divertimento”»? Per la prima volta, nel profluvio dei dibattiti, si fa strada l’idea che la televisione possa aiutarci a capire anche la storia. Che l’emozione non sia solo ostacolo alla conoscenza.
Nel presentare la serie su «La Stampa» del 20 maggio 1979, Primo Levi non nasconde i suoi dubbi: «Non mi è stato possibile vedere per intero il filmato Olocausto: non ne ho visto che alcune puntate, per di più prima del doppiaggio. Ho assistito alla proiezione con diffidenza, la stessa diffidenza che tutti i testimoni di quel tempo provano davanti ai molti tentativi, recenti e meno recenti, di “adoperare” la loro esperienza». Ma Levi ha il coraggio di affrontare il tema della risonanza mediatica: «In tutti i Paesi, il filmato è stato visto da decine di milioni di persone; non benché fosse una story, una vicenda romanzata, ma perché è una story. Sul tema del genocidio hitleriano sono stati pubblicati centinaia di libri, e proiettati centinaia di documentari, ma nessuno di essi ha raggiunto un numero di fruitori pari all’uno per cento del numero degli spettatori televisivi di Olocausto. I due fattori associati, la forma romanzesca e il veicolo televisivo, hanno mostrato appieno il loro gigantesco potere di penetrazione». A conclusione dell’intervento, Levi si augura solo che un tema «diverso e opposto» non venga trattato da «un Paese in cui la televisione fosse voce esclusiva dello Stato, non sottoposta a controlli democratici né accessibile alle critiche degli spettatori».
Buona coscienza estetica della catastrofe. Sui «Cahiers du Cinéma», numero 301 del giugno 1979, esce un articolo di Jean Baudrillard (il cui stile di scrittura non ha retto al tempo), molto critico nei confronti dell’operazione: «Quello che nessuno vuole comprendere è che Holocaust è innanzitutto (ed esclusivamente) un evento, o piuttosto un oggetto televisivo (regola fondamentale di McLuhan, che non bisogna dimenticare); si tenta cioè di riscaldare un evento storico freddo, tragico ma freddo, il primo grande evento dei sistemi freddi, dei sistemi di raffreddamento, di dissuasione e di sterminio che si dispiegheranno poi sotto altre forme (ivi compresa la guerra fredda, ecc.) e che interessa le masse fredde (anche gli ebrei più interessati alla loro morte, e che l’autogestiscono, eventualmente, masse ancora più ribelli: dissuase fino alla morte, dissuase dalla loro stessa morte), di riscaldare questo evento freddo attraverso un medium freddo, la televisione, e per delle masse anch’esse fredde, che non avranno che l’occasione di un brivido tattile e di un’emozione postuma, brivido dissuasivo esso stesso, che li farà rotolare nell’oblio con una sorta di buona coscienza estetica della catastrofe».
Tra le innumerevoli prese di posizione, interventi, riflessioni che dilagarono nel discorso pubblico, si segnalano come vere folgorazioni le note diaristiche del filosofo Günther Anders, del 1997, raccolte poi nel volume Dopo «Holocaust», 1979 (Bollati Boringhieri, 2014). Il filosofo difende la serie, riconoscendole diversi meriti. Tra questi, gli effetti della ricaduta sul pubblico tedesco, per anni esonerato dal rimorso: «Grazie a Dio, ora si disperano, finalmente si disperano… hanno trovato la fermezza di guardare in faccia, per ore e ore, l’indicibile».
La tesi del filosofo tedesco è questa. Holocaust ha certamente i suoi limiti estetici, è un prodotto che segue modelli convenzionali di rappresentazione, è poco rilevante sul piano storiografico, culturale, ma ha avuto un grandissimo impatto «artistico» e mediatico, più forte ancora delle immagini che in passato testimoniarono il genocidio: «Trentacinque anni fa, era impossibile non confrontarsi con le immagini, i libri, le riprese dei lager, dei forni, delle montagne di cadaveri. I film girati dagli Alleati dopo la liberazione dei campi di concentramento non avrebbero forse dovuto trasformarsi in incubi collettivi? Niente di tutto questo. Di nuovo: le immagini non furono percepite, quindi non fu neppure necessario rimuoverle. Non solo non furono percepite perché bisognava innanzitutto disseppellire sé stessi dalle macerie; o perché, scampati a stento, non si voleva vedere o sapere qualcosa di coloro che non erano scampati; o perché si preferiva non ricordare ciò che non molto tempo prima era stato osannato istericamente; o perché, nei dodici anni, la capacità di vergognarsi era stata sistematicamente estirpata a bastonate, e la mancanza di vergogna per dodici anni inculcata a bastonate come un valore; ma soprattutto qui, di nuovo, riaffiora il problema della “personalizzazione” — perché le fotografie mostravano troppi cadaveri e l’orroredavanti alla morte, anche davanti al crimine, decresce all’aumentare del numero dei cadaveri mostrati… sempre solo cadaveri anonimi, non i cadaveri di persone conosciute in vita o che, addirittura, erano state dei vicini».
Da tempo, la televisione ha rafforzato la nozione di memoria collettiva: tutti i grandi fatti vengono documentati, addirittura, come nel caso delle Torri Gemelle, vissuti in diretta. Al punto che qualcuno, ieri come oggi, teme che il video riduca la storia a rumore di fondo, decorazione di uno spettacolo che ha smarrito ogni direzione, ogni senso. La nostra è un’età di simulacri più che di documenti, un’era che con la sua visualizzazione totale rende tutto perfettamente contemporaneo. Una accanto all’altra passano le immagini di diverse datazioni, e ciò le rende perfettamente attuali. Tutto è sincrono. Il passato non esiste più, se non come forma del discorso.
Il problema non è se sia giusto o meno mostrare le immagini dell’orrore, parlarne, discuterne: il contenuto morale di certe scene è fragile, muta con il mutare dei tempi e dei contesti in cui viene rappresentato. Se mai vi sono alcune immagini (i lager, la bambina vietnamita sfigurata dal napalm, le Torri Gemelle…) che hanno raggiunto «lo status di punti di riferimento morale» (Susan Sontag). È questa la condizione che bisogna preservare.
Secondo Anders, Holocaust va preso in considerazione per la sua capacità immaginativa, per aver saputo suscitare emozioni: «Quando poi non si trattava d’immagini ma di parole, si ascoltava o si leggeva sempre soltanto la nuda, esangue cifra di sei milioni, non il gemito dei torturati e gli sghignazzi dei torturatori moltiplicati per sei milioni o anche solo per seimila o anche solo per sei… Poiché il messaggio era stato ridotto alla smisuratezza della cifra, non era arrivato per 33 anni alle orecchie, agli occhi e ai cuori. Affinché i fatti “arrivassero” era necessario che la limitazione al risultato e la “riduzione allo smisurato” fossero revocati. Ed è ciò che ora è stato fatto, qui sta il merito del film. Dobbiamo ringraziare questa bistrattata riduzione cinematografica se oggi in milioni e questa volta intendo, eccezionalmente, esseri viventi conoscono la verità. Mentre il semplice racconto dei fatti, persino il loro conteggio statistico, non sono riusciti a stimolare e a plasmare la capacità immaginativa, il film Holocaust lo ha fatto».
Di tutto questo si discuteva quarant’anni fa. Una volta era più facile distinguere fra realtà e rappresentazione (e magari riconoscere alla medesima un nuovo, fondamentale ruolo), ma da qualche tempo i media costituiscono i nostri nuovi ambienti di socializzazione, «luoghi reali» frequentati quotidianamente e in cui s’impara a interagire, ad acquisire modelli di comportamento, insomma a vivere. L’esperienza del reale viene sempre più sottoposta a un processo di elaborazione virtuale — messo in atto dal web — che finisce per mutare il nostro modo di percepire le cose. Da che punto delle questioni sollevate da Levi, da Baudrillard, da Anders dobbiamo ripartire?

La Stampa 13.5.18
Le combattenti curde che fanno la guerra senza perdere la tenerezza
di  Alb. Mat.


In tutta questa celebrazione di #MeToo, le vere donne del giorno a Cannes sono però le guerriere curde di Les filles du soleil, «Le ragazze del sole», della regista francese Eva Husson. Siamo nel Kurdistan iracheno, qualche anno fa o anche adesso. Una reporter di guerra francese, Mathilde (Emmanuelle Bercot), che ha appena perso un occhio a Homs e il marito collega saltato su una mina in Libia, arriva per documentare la guerra fra i curdi, appoggiati dalla coalizione internazionale, e l’Isis. E qui si imbatte in Bahar (bella e bravissima Golshifteh Farahani), un’avvocatessa con studi a Parigi che aveva una vita normale e felice, uno studio professionale, un marito e un figlio. Tutto distrutto dall’arrivo degli islamisti: il marito disperso, probabilmente ucciso come moltissimi altri, il figlio prigioniero dai kamikaze in nero, forse allevato e indottrinato per diventare uno di loro, lei catturata, violentata, venduta e rivenduta, frustrata per aver tentato di fuggire e poi salvata in extremis. E decisa a combattere per ritrovare suo figlio.
Il film si svolge su due registri. Uno è la guerra, e qui le donne soldato curde non solo non risultano seconde agli uomini, ma li spronano all’azione e li precedono negli assalti. Quella di Bahar è un’unità formata tutta di ex prigioniere, che hanno visto troppo da vicino l’inferno per avere paura di morire. Stanno assediando la città dove vivevano, e non sopportano più le prudenze della diplomazia e le esitazioni dei generali. L’altro registro, sono i flash back di Bahar, che ricorda il suo calvario.
È un film curioso: di guerra, con sequenze fatte molto bene, centratissime nella descrizione dell’angoscia e della tensione e anche della paura, la naturale paura dei combattenti, ma tutto al femminile. Di uomini se ne vedono pochi, figure sullo sfondo, gli orrendi assassini in nero, i soldati curdi, il loro generale che cerca di frenare lo slancio delle sue amazzoni.
E c’è una grande solidarietà femminile. Fra le guerriere curde e la giornalista francese nasce subito una sorta di fratellanza (o sorellanza?) d’armi, una comunione di esperienze. E queste guerriere sono davvero magnifiche, forti, determinate, coraggiose senza perdere la tenerezza. Capaci di esfiltrare dalla città occupata dall’Isis una di loro, che partorisce appena raggiunta la libertà, ed è la scena più emozionante.
Il film, a detta di molti, è palmabile: opera di una donna sulle donne, in un’edizione in cui è questo il tema di Cannes. Chissà. Il paradosso è che, dopo aver visto queste donne combattere e morire, le rivendicazioni di altre donne portate ieri in passerella, per carità giustificate, sacrosante, quel che volete, appaiono di colpo meno urgenti.

Corriere La Lettura 13.5.18
La geopolitica della Cina
La conquista dell’Africa, le nuove Vie della Seta: la «lunghissima marcia» di Xu Jinping crea un mondo globalizzato in cui tutte le strade portano a Pechino
di Guido Santevecchi


La Cina vuole dominare il mondo? O vuole «costruire felicità, pace e armonia» per chi la seguirà, come dice più o meno modestamente il suo presidente Xi Jinping? C’è un processo in corso e sul banco degli imputati ci sono la geopolitica di Pechino, la sua ascesa di potenza globale, i suoi metodi di espansionismo industriale, culturale e ora anche territoriale (le isole artificiali tra le Spratly e le Paracel), il suo soft power ispirato da un Partito comunista rigenerato dal nuovo uomo forte Xi. E già potere morbido nelle mani di un leader forte appare come una contraddizione e un sospetto. Una premessa: l’espressione soft power, coniata nel 1990 dal professore di Harvard Joseph Nye, riassume i mezzi con i quali un Paese ne convince altri a «volere quello che lui vuole». Nel 2017 Xi ha messo le carte sul tavolo: «Entro il 2050 la Cina sarà leader globale con la sua forza nazionale e la sua influenza culturale internazionale».
Quella cinese è una lunga marcia che ha seminato di tracce il pianeta. Le più innocenti sembrano gli Istituti Confucio, una rete che conta 1.500 centri in 140 Paesi. Sul modello del British Council ma inseriti in università e scuole straniere con le quali hanno stretto joint venture. E qui viene il dubbio che i cinesi si stiano infiltrando nel nostro sistema di istruzione. Gli insegnanti di mandarino offrono una visione propagandistica della loro patria? Una risposta dall’University of California: «Sappiamo che ai loro corsi non si discute di argomenti come il Dalai Lama o l’indipendenza di Taiwan». A proposito, diceva Confucio: «Se fai un piano di un anno, coltiva il riso; se ne hai 10, pianta alberi; se pensi a 100 anni, educa i bambini».
Nel mondo in via di sviluppo peraltro ci sono molte più infrastrutture costruite dai cinesi che Istituti Confucio. In Africa per esempio i tecnici e consiglieri di Pechino sono arrivati negli anni Sessanta, mentre gli imperi europei ammainavano le bandiere. Prima grande opera la ferrovia tra Tanzania e Zambia: 1.860 chilometri tra montagne, foreste, fiumi e sabbie mobili. Inaugurazione nel 1976. La diplomazia cinese corre ancora in treno: nel 2016 è stata consegnata la linea Addis Abeba-Gibuti, 760 chilometri finanziati al 70% dalla Repubblica popolare, prima tratta completamente elettrificata del continente. «Aspettavamo da cent’anni», ha detto il presidente di Gibuti.
L’Africa è strategica per Pechino: ci sono circa 2 mila imprese cinesi, con oltre un milione di manager, tecnici e lavoratori sbarcati dall’Impero di Mezzo. L’interscambio Cina-Africa è oltre i 210 miliardi di dollari, superiore a quello di Usa ed Europa, che si ritirano commercialmente (non militarmente) per i problemi di corruzione dei governi locali e le violazioni dei diritti umani. Salvo poi interrogarsi impotenti di fronte all’onda dei migranti. Xi non si fa scrupoli, ha stretto la mano al compagno satrapo Robert Mugabe fino a quando è stato al potere nello Zimbabwe (ha anche donato un’accademia di polizia chiavi in mano al suo governo). Oltre il 60% delle importazioni cinesi dall’Africa sono materie prime — petrolio, carbone, rame; in cambio il mercato africano riceve prodotti finiti made in China — macchinari e automobili, tessuti e abbigliamento. Lamido Sanusi, ex governatore della Banca di Nigeria, ha scritto al «Financial Times»: «Gli africani debbono abbandonare la loro visione romantica sulla presenza dei cinesi, sono qui per servire i loro interessi, non i nostri, e questa è l’essenza del colonialismo che l’Africa ha vissuto con gli imperi europei». Risposta dell’agenzia Xinhua: «Il termine neo-colonialismo è usato dai Paesi occidentali per alleviare il dolore di fronte ai loro interessi che svaniscono in un continente che avevano colonizzato; con la sua crescente presenza in Africa la Cina è divenuta il motore di una terra ignorata». Così Gibuti, dopo aver atteso cent’anni la ferrovia, ha concesso ai cinesi una base militare, proprio davanti all’analoga installazione americana. Espansionismo strisciante? O accuse prevenute di noi occidentali che per vergogna storica e disinteresse abbiamo lasciato l’Africa alla potenza in ascesa?
C’è un altro progetto cinese, immenso e immaginifico: la Nuova Via della Seta. Nella visione di Xi si tratta di rilanciare quel percorso millenario, costruire «lungo l’antica via delle carovane una cintura economica che aprirà un mercato di 3 miliardi di consumatori». Quelle parole in mandarino, yi dai yi lu, sono state tradotte in tutte le lingue del mondo, entrando nel linguaggio comune dei governi come One Belt One Road, «Una Cintura Una Strada». Meglio dire molte cinture e molte strade, perché ora la Cina lavora su 6 corridoi dove vuole costruire autostrade, ferrovie per il trasporto delle merci, gasdotti e oleodotti che attraverseranno l’Asia centrale, la Russia, il Medio Oriente per arrivare in Europa. E poi c’è la Via marittima che dai grandi porti di Shanghai e Canton scende lungo il Mar Cinese meridionale, l’Oceano Indiano, fa tappa in Kenya, risale il Mar Rosso, giunge nel Mediterraneo con scalo al Pireo e approda a Venezia. Storicamente affascinante. Ma,intanto, il porto greco è stato acquistato da un consorzio cinese e molti Paesi dell’Europa centrale e orientale si sono fatti attrarre nell’orbita commerciale di Pechino. La Cina, con l’arretramento dei ghiacci, pensa anche a una via artica.
Ci sono molti dubbi sulla sostenibilità economica dei piani e sui loro veri fini. Lo storico Niall Ferguson ha detto a «la Lettura» che nell’ipotesi migliore la Nuova Via della Seta è «un’idea romantica ma poco fattibile. Dubito che i percorsi terrestri siano praticabili, troppa instabilità politica. La via marittima invece è possibile, però resta da vedere se la Cina non la userà come copertura per dotarsi di una Marina militare capace di sfidare la supremazia americana». Una sola certezza: Xi ha lanciato un nuovo Grande Gioco geopolitico per creare un mondo globalizzato nel quale tutte le strade portano a Pechino. Sostiene l’accusa l’India, convinta che «Pechino sta cercando di creare, e in parte ha già realizzato, una psicologia internazionale che riconosca l’inevitabilità dell’egemonia cinese». Il Fondo monetario internazionale avverte che le infrastrutture sono vitali per lo sviluppo ma, investendo e prestando centinaia di miliardi sulla Via della Seta, Pechino crea una schiera di Paesi debitori che rischiano di essere schiacciati dal peso. Dei 68 Paesi nel progetto, 23 sono vulnerabili e tra questi Pakistan, Laos, Mongolia, Montenegro, Gibuti, Maldive e Sri Lanka.
C’è un problema di «rischio sociale», conferma Sameh El-Shahat, nato in Egitto, cittadino britannico, a capo dell’agenzia di risk management China-i. Sameh tiene seminari per i manager governativi a Pechino e spiega che «gli investimenti da soli non bastano, la popolarità dei cinesi all’estero è bassa perché la loro comunicazione non è mirata sulla gente, le imprese parlano con chi è già convinto, con i governi che hanno concesso la licenza di costruire. Così manca la “licenza sociale” e questo porta al “rischio sociale” che può minare progetti e collaborazione». Per El-Shahat non bisogna avere paura «perché i cinesi a differenza degli europei non sono mai stati colonialisti, per questo non li conosciamo; sono nuovi arrivati e così li temiamo». Ecco la necessità del soft power. Ma quando è la Cina a usarlo, si parla di sharp power, influenza aguzza, autoritaria. Mentalità da guerra fredda, noi non vogliamo governare il mondo, rispondono a Pechino. «Il problema è che la Cina ha scarsa propensione a mettersi in discussione, un atteggiamento che al contrario la farebbe accettare meglio da noi. Ha poca consapevolezza dell’importanza di saper ricevere critiche costruttive», dice a «la Lettura» Davide Cucino, sinologo, dirigente industriale e presidente della Camera di Commercio italiana a Pechino.
Tutto chiaro? Henry Kissinger, nel suo Cina (Mondadori, 2011)ha teorizzato che mentre la tradizione occidentale esalta gli scontri decisivi, la Cina privilegia le tortuosità, il paziente e graduale consolidamento delle posizioni di relativo vantaggio. Un concetto riassunto nel weiqi, gioco da tavolo con 180 pezzi per parte. Nel weiqi si perseguono diversi obiettivi contemporaneamente, non serve lo scacco matto, basta un vantaggio minimo, che l’occhio non esperto, non cinese, non saprebbe cogliere. Invasione morbida.

Corriere La Lettura 13.5.18
L’Occidente è colpevole. Ma l’Occidente è la salvezza
Psichiatra e antropologa marocchina, Rita El Khayat parla in questa intervista di colonialismo, migrazioni e Primavere Arabe.
«In certi momenti storici è meglio un regime forte. Tra Assad e Isis scelgo Assad»
di Lorenzo Cremonesi


Non si tira indietro nell’accusare «il colonialismo e i danni gravissimi che ha causato ai Paesi arabi e nelle province del mondo islamico». Però è anche profondamente innamorata della cultura occidentale, della sua difesa per i diritti umani e delle donne in particolare. «La mia salvezza intellettuale e civile è cominciata quando giovanissima ho studiato la lingua francese», non si stanca di ripetere. E ai migranti che attraversano il Mediterraneo per approdare in Europa non lesina critiche. «Mi stupisce la caparbietà con cui restano attaccati ai valori e alle tradizioni dei loro Paesi d’origine. Proprio non li capisco!», esclama. «Hanno rischiato la vita per venire in Occidente. Ma se non vogliono cambiare ciò che hanno lasciato, allora perché non se ne rimangono a casa loro? Se credono che a Roma o a Parigi si possono uccidere le figlie che rifiutano di sposare i mariti scelti per loro dalle famiglie non hanno compreso davvero nulla di questo nuovo mondo, meglio che tornino da dove sono partiti».
Il coraggio intellettuale di Rita El Khayat sta anche nella sua aperta disponibilità ad affrontare la complessità delle contraddizioni di un pensiero libero come il suo. Nata nel 1944 a Rabat, marocchina legata alle tradizioni del Maghreb profondo, è scrittrice (ha pubblicato una quarantina di saggi, di cui 14 tradotti in italiano), ma anche psichiatra, antropologa, ha scelto di esercitare a Casablanca la professione di «antropo-psichiatra». Il prossimo 18 maggio parteciperà a Milano a un convegno promosso dall’Asla (Associazione studi legali associati) in un seminario dedicato a Donne e potere.
Partiamo dal tema che tratterà in Italia: non crede vi siano ben poche differenze tra donne e uomini di potere?
«Assolutamente sì. Non cambia niente. Le donne al comando si comportano esattamente come hanno sempre fatto gli uomini, con le stesse ingiustizie, le stesse prevaricazioni e nepotismi, lo stesso sistema di privilegi per chi obbedisce e di punizioni per chi si oppone. Semmai le donne sono ancora più dure, più spietate e più forti degli uomini, proprio per il fatto che hanno dovuto faticare molto di più per imporsi. Lo noto in Francia come in Marocco e nel resto del Maghreb. Ma sono in atto mutamenti epocali. Dove le donne sono diventate economicamente indipendenti avvengono importanti processi di adattamento reciproci tra i due sessi; necessiteranno decenni per trovare nuovi equilibri».
In Medio Oriente ci eravamo illusi che le Primavere Arabe portassero giustizia e libertà. Ma alle vecchie dittature laiche si sono contrapposti i radicalismi islamici oscurantisti e fanatici. Ci siamo trovati a dover scegliere tra la repressione di Bashar Assad e gli orrori di Isis. Lei cosa sceglierebbe?
«Nel 2011, all’inizio delle cosiddette Primavere arabe, stavo con le piazze della rivoluzione. Consideravo Assad uno spietato e sanguinario dittatore. Ma poi, quando ho visto cosa Isis faceva alle donne, lo scempio dei diritti umani, le ragazze yazide vendute in piazza come schiave sessuali, mi sono detta: “Mio Dio, meglio Bashar. Se vince Isis torneremo al Medio Evo”. Ho scritto un libro su questo mio ripensamento. Al caos preferisco un regime ordinato che garantisca la crescita economica e la scolarizzazione diffusa. In certi periodi storici un regime forte come quelli di Franco o Salazar può rivelarsi utile. Più tardi potranno arrivare le riforme in senso democratico ed emergere quelle che Karl Marx definiva le sovrastrutture volte a migliorare la qualità della vita umana».
Dunque, in Egitto, meglio Hosni Mubarak e il regime ancora più duro di Abdel Fattah al Sisi? Un Libia meglio Gheddafi, meglio la vecchia nomenklatura corrotta in Tunisia?
«Le Primavere arabe sono state un movimento di protesta elitario esaltato dalla stampa occidentale, che però non era una vera rivoluzione per il fatto che mancava di leader e di chiare ideologie. Le minoranze che manifestavano in piazza sapevano cosa volevano abbattere, ma non avevano alcuna idea su come e con cosa sostituirlo. Così sono arrivati i movimenti islamici ben organizzati. Alcune conseguenze sono stati i peggioramenti dei diritti civili, inclusi quelli delle donne. Però poi ogni Paese va visto e compreso nella sua storia particolare».
Per esempio?
«Molti anni fa visitai l’Iraq di Saddam Hussein. Era una dittatura, certo. Ma il livello delle scuole era buono, il Paese funzionava. Gheddafi però non lo pongo sullo stesso piano: era un pazzo, uno psicopatico, una personalità con gravissimi disturbi psichici. Aggiungo che il Maghreb è una realtà diversa dai Paesi arabi. In Marocco, dopo gli attentati terroristici di Casablanca nel 2003, abbiamo avuto riforme radicali, è stato cambiato il diritto di famiglia. Nel 2012, dopo il caso di Amina Filali, la sedicenne suicida perché secondo le nostre vecchie leggi costretta a sposare il suo violentatore, abbiamo riformato ulteriormente i nostri codici. Ora sono vietati i matrimoni ai minorenni e le ragazze hanno diritto di scelta. Però resta il problema dell’ignoranza diffusa. Per i poveri che non vanno a scuola in realtà cambia ben poco. Se non conosci i tuoi diritti non sai neppure come difenderti. È una legge universale. Noi oggi abbiamo una donna a capo del ministero della Famiglia che ha avuto il coraggio di affermare che le famiglie che hanno un reddito quotidiano pari a 1,80 euro non sono povere. Quando le è stato chiesto cosa farebbe se sua figlia fosse violentata lei ha risposto che la cosa è impossibile, lasciando intendere che le violenze sessuali accadono solo tra poveri. Può anche essere vero. Ma i poveri costituiscono la maggioranza della popolazione dall’India all’Afghanistan al Medio Oriente allargato».
Nel suo libro «Il complesso di Medea», dopo aver trattato delle ingiustizie subite dalle donne nelle società mediterranee dove imperano le tre religioni monoteiste, affronta anche un tema molto delicato: sovente sono le donne anziane a comportarsi nel modo più duro e intransigente nei confronti delle ragazze, specie se belle e vergini. Tra l’altro spesso nelle società tribali sono le anziane a effettuare l’infibulazione sulle bambine e sono prima di tutti le madri a costringere le figlie nei matrimoni combinati. Donne vecchie contro giovani?
«In Marocco diciamo che il paradiso è sotto i talloni delle madri. In un mio libro del 1986 ho analizzato il vecchio sistema patriarcale giungendo alla conclusione che senza un forte matriarcato non può esistere il patriarcato. Parliamo di un sistema sociale che privilegia il gruppo, la tribù, il nucleo familiare allargato. Il maschio anziano domina, ma alle sue fondamenta sta la madre, la donna che da giovane ha rispettato le regole, ha generato figli funzionali al gruppo e nella maturità assurge a pilastro fondamentale della casa perpetuando le leggi che stanno alla radice di quel modo di essere. In quel mondo gli anziani non saranno mai abbandonati. I vecchi sono come i totem freudiani, rappresentano il potere e la sua continuità. Si tratta di un sistema sociale chiuso, assolutamente diverso dall’individualismo liberale occidentale, dove le giovani donne devono stare in casa a generare e curare i bambini. I figli maschi sono formalmente più liberi delle sorelle, però la loro dipendenza dalla madre è molto più forte».
Ovvio che lei abbia sempre scelto l’individualismo occidentale al tribalismo orientale, vero?
«Sempre. Non ho mai avuto dubbi! La mia libertà di donna, di intellettuale, di individuo con diritti e doveri non poteva esprimersi in altro modo se non nei canoni culturali e sociali occidentali. Mia madre non ebbe la mia libertà, sognava di studiare francese, ma le fu vietato, fu una vittima. Io amo scrivere negli aeroporti, viaggiare, essere sola a pensare. Se avessi dovuto sacrificare le mie aspirazioni personali alle regole sociali tribali non sarei mai diventata ciò che sono».

Repubblica 13.5.18
Intervista a Amos Oz
“Il mondo ha voglia di fanatici Ma sono i coraggiosi a evitare le guerre”
di Juan Carlos Sanz


TEL AVIV Sembra lo stesso di tre anni fa, ma la sua voce si perde spesso nel registratore tra le fusa del suo gatto Freddie. «Le mie condizioni di salute mi permettono di viaggiare solo con la mia immaginazione», si scusa il più noto scrittore in lingua ebraica.
Amos Oz parla nella sua casa di Tel Aviv sugli zeloti, gli estremisti e i settari che preferiscono affrontare un mondo complesso nel modo più semplice, ma finisce col riconoscere che il suo ultimo libro, “Cari fanatici”, è in realtà un lascito: «L’ho dedicato ai miei nipoti. Ho concentrato ciò che ho imparato nella vita, come una storia. La cosa più pericolosa del XXI secolo è il fanatismo. In tutti i suoi aspetti: religioso, ideologico, economico... perfino femminista.
È importante capire perché ritorna ora. Nell’islam, in certe forme di cristianesimo, nell’ebraismo... »
Lei scrive della tua terra. Il Medio Oriente è la culla del fanatismo?
«È un’idea comune, ma non penso sia vero. L’ascesa del fanatismo e del razzismo negli Stati Uniti è molto più pericolosa. C’è il fondamentalismo in Russia e nell’Europa orientale. Ed è pericoloso anche il fanatismo nazionalista nell’Europa occidentale».
Condividiamo questo peccato originale?
«Penso che in ognuno di noi, forse, ci sia un gene di fanatismo. È la tendenza dell’essere umano a voler cambiare gli altri. Diciamo ai bambini: “Devi essere come me”. È una cosa molto comune».
Come si cura il fanatismo?
«Bisogna essere curiosi. Mettersi nei panni dell’altro. Anche se è un nemico. La ricetta è immaginazione, senso dell’umorismo, empatia. Ma non per compiacere l’altro. Io cerco di immaginare che cosa fa sì che l’altro si comporti in un certo modo».
Lei è fuggito dal clima che si respira a Gerusalemme, la città dove è nato. È difficile non diventare un fanatico in quella città?
«Amo Gerusalemme. Ma ho bisogno di mantenere una certa distanza. È troppo conservatrice, in termini ideologici e religiosi. A Gerusalemme quasi tutti hanno una loro formula personale per ottenere la salvezza o la redenzione. Cristiani, musulmani, ebrei, pacifisti, atei, razzisti, tutti.
Una caratteristica di Gerusalemme?
«Di Israele in generale, anche se è più evidente a Gerusalemme. Una fermata dell’autobus può diventare un seminario. Persone del tutto estranee discutono di politica, morale, religione, storia o di quali sono le vere intenzioni di Dio. Ma nessuno vuole ascoltare l’altro, tutti pensano di avere ragione.
Nello Stato ebraico, dove la religione è un segno di identità, come vive un laico, un ateo?
«Il mio problema non è la religione, ma il fanatismo religioso. Non è il cristianesimo, ma l’Inquisizione.
Non è l’Islam, ma il jihadismo. Non è il giudaismo, ma gli ebrei fondamentalisti».
Un governo ultraconservatore in Israele, Trump alla Casa Bianca: un periodo storico favorevole all’intransigenza?
«La maggior parte del mondo si sta muovendo velocemente da una prospettiva complessa a una molto semplicistica. Succede anche nella sinistra radicale».
Il nazionalismo, il conflitto palestinese, non hanno condizionato questa visione in Israele?
«È naturale. Quando un conflitto dannato e crudele dura più di cento anni ci sono ferite da entrambe le parti. Immagini cupe dell’altro. Ci sono persone sentimentali in Europa che credono che si possa risolvere tutto parlando e andando a prendersi un caffè. Una piccola terapia di gruppo e amici più di prima. No. Ci sono conflitti che sono molto reali. Quando due uomini amano la stessa donna. O due donne lo stesso uomo. C’è uno scontro che non può essere risolto andandosi a bere un caffè. Il conflitto tra israeliani e palestinesi è reale».
Ci vuole un divorzio: due Stati?
«Fondamentalmente, si tratta di questo. La casa è molto piccola.
Dobbiamo fare due appartamenti.
Israele e, nella porta accanto, la Palestina. Poi dovremo imparare a dirci “buongiorno” per le scale. Più avanti saremo in grado di farci una visita. E perfino di cucinare insieme: un mercato comune, una federazione o confederazione... ma prima bisogna dividere la casa. In fondo, tutti sanno che l’unica soluzione possibile è quella dei due Stati. Anche se non gli piace. Per i palestinesi e gli israeliani è come un’amputazione, come perdere una parte del proprio corpo.
In Israele, c’è chi la considera un fanatico della formula dei due Stati.
«L’altra soluzione funziona solo in Svizzera. In Jugoslavia finì in un bagno di sangue. Ci fu un divorzio pacifico nell’ex Cecoslovacchia. Chi può pensare che israeliani e palestinesi debbano andare a letto insieme e fare l’amore e non la guerra? Dopo un secolo di massacri non è possibile.
Non sembra che la leadership israeliana abbia fretta di trovare una soluzione.
«Questo è il cuore del conflitto, la mancanza di una leadership.
Nessuno ha il coraggio che ebbe De Gaulle quando concesse l’indipendenza all’Algeria».
Né gli israeliani, né i palestinesi?
«Nessun leader del mondo. Per esempio non vedo leader coraggiosi a Madrid o Barcellona. Una nuova frammentazione dell’Europa non mi fa piacere. Non capisco perché, ma se in Catalogna c’è una maggioranza di cittadini che vuole vivere per conto proprio, lo farà.
Può darsi che sia un grande sbaglio.
Ma non puoi forzare due persone a condividere un letto se uno dei due non vuole. Persino la Scozia vuole uno Stato».
Dunque, viviamo in un’epoca di vigliacchi e di fanatici?
«È un’epoca di semplificazioni. La gente si aspetta risposte semplici e non teme più di sembrare estremista. 80 anni fa avevamo paura di Hitler o di Stalin».
Se l’immunizzazione provocata dalla seconda guerra mondiale non funziona più, ci vorrà un nuovo vaccino?
«Non voglio un altro bagno di sangue. Ma il rischio c’è: il fanatismo porta alla violenza. Il mio libricino contiene un milligrammo di vaccino: tolleranza e curiosità.
Sorridere, anche ridere di se stessi.
Non ho mai visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo».

Corriere La Lettura 13.5.18
Ahmed Shaheed Il «rapporteur» Onu
«Io combatto l’analfabetismo religioso»
di Marco Ventura


Dal 2016 Ahmed Shaheed è special rapporteur Onu per la libertà religiosa. In quanto esperto indipendente, lo special rapporteur non ha potere sugli Stati. I suoi rapporti, tuttavia, non sono privi di peso culturale e politico.
Lo «special rapporteur» per la libertà religiosa è un diplomatico maldiviano musulmano. In esilio.
«Con il colpo di stato salafista del 2012 il rischio è diventato troppo grande. Ho ricevuto minacce di morte. I parenti di mia moglie sono stati aggrediti. Hanno saccheggiato per due volte la nostra casa».
Però crede nella diplomazia...
«Credo nella diplomazia della libertà religiosa».
Ci dia un motivo perché ci credano anche i lettori.
«C’è una crescente mobilitazione. Le cose si stanno muovendo. Cresce la consapevolezza di governi e istituzioni. La stessa Ue ha finalmente un inviato speciale per la libertà religiosa. Il problema maggiore è la paura. La paura dell’altro. È fondamentale parlarsi, conoscersi».
La libertà religiosa non è uguale per tutti. I cristiani sembrano più perseguitati di altri. È d’accordo?
«Come si misura chi soffre di più? Conta riconoscere la sofferenza, la grande sofferenza. E agire in difesa delle vittime, quale che sia la loro fede».
Vi sono priorità geopolitiche nella sua azione?
«I Paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente preoccupano particolarmente. Anche l’Iran…».
Lei è stato per sei anni «special rapporteur» delle Nazioni Unite per l’Iran.
«Appunto. Ma non dimentichiamo altre aree problematiche, come l’Asia centrale e l’Asia sud orientale, dall’India alla Cina e al Vietnam. E neppure l’Africa subsahariana, dove Senegal e Sudafrica sono l’eccezione».
Da dove viene la minaccia?
«Dal secolarismo antireligioso, come nei Paesi dell’Asia centrale ex sovietica. E dalle teocrazie».
Su quali problemi si sta concentrando?
«Sull’azione. I principi e le strategie ci sono. Dobbiamo compattare le forze, dentro e fuori le Nazioni Unite, nel dialogo attraverso le frontiere e le religioni».
È la sua diplomazia della religione.
«Dobbiamo alfabetizzare alla libertà religiosa. Far capire che noi non promuoviamo una religione. Questa è la differenza decisiva. Non il cosa ma il come: non promuoviamo una religione ma il diritto a una religione. Grande o piccola. Vecchia o nuova».
Le minoranze sono sotto pressione.
«Mi preoccupa l’antisemitismo. Anche per le nuove comunità religiose sono tempi difficili. E per i cristiani, e i musulmani dissidenti o in certi Paesi dell’Asia».
E gli atei e gli agnostici?
«Sono rapporteur per la libertà di religione “o di credo”, proteggiamo pure agnostici, atei, indifferenti».
Non sono certo gli agnostici che uccidono in nome di una fede. La sicurezza è un problema cruciale.
«In nome della sicurezza si minaccia la libertà religiosa. È un approccio che va rovesciato. La religione è una risorsa fondamentale per l’armonia sociale. L’ignoranza è il nemico. Se vogliamo lottare contro la radicalizzazione dobbiamo combattere l’analfabetismo religioso. È il tema del Rapporto che pubblicherò in ottobre. La lotta alla strumentalizzazione politica delle fedi è una mia priorità, il populismo religioso è un enorme problema. Non dobbiamo accontentarci dei bei discorsi di Ginevra».
Sul terreno c’è tanto su cui lavorare.
«Mi premono in particolare i diritti delle donne, dei minori, degli omosessuali. Poi ci sono le leggi che puniscono la blasfemia e la conversione».
La sfida riguarda in particolare i Paesi a maggioranza musulmana.
«Lì c’è davvero tanto da fare. Mi guidano quattro principi. Primo, l’educazione: basta col pregiudizio e l’intolleranza nelle scuole, ci vuole una seria educazione ai diritti umani e alla libertà religiosa ma anche alla religione. Secondo, l’inclusione: tante comunità si sentono escluse. Terzo, lo stato di diritto. Quarto la separazione tra Stato e religione: non è vero che sia impossibile per l’islam».
Lo dica ai sauditi.
«Chi non educa buoni cittadini e si crea mostri in casa, è destinato a esserne vittima».
I governi islamici più conservatori le metteranno i bastoni tra le ruote.
«Ci proveranno di sicuro».
Eppure lei crede nel cambiamento.
«Ho 54 anni. Ho visto crollare il Muro di Berlino. Ho visto che la trasformazione sociale è possibile».
Anche quella in peggio.
«Le mie tolleranti Maldive sono in mano ai salafisti».
Lei impersona un altro islam.
«Sono cresciuto in una famiglia di giudici. Fin da piccolo ho sentito parlare di circostanze, di prove, di procedure. Poi ho studiato diritto. Anche islamico».
Cosa le resta della sua formazione, del suo islam?
«La giustizia viene prima di tutto».

Corriere 13.5.18
Qaedisti o disturbati
Quelle armi facili per spargere panico in mezzo alla folla
di Guido Olimpio


Spuntano all’improvviso in mezzo alla folla. Menano fendenti con pugnali. In talune situazioni prendono di mira un agente. E’ il modus operandi dei militanti jihadisti ma anche la scelta di disturbati. Al punto che, nei primi momenti, c’è sempre il dubbio su quale sia la matrice. Nel caso di Parigi la Procura francese, a tarda notte, ha precisato che l’inchiesta è stata affidata alla sezione anti-terrorismo, un’indicazione sui sospetti delle autorità, in parte confermati da una rivendicazione, piuttosto rapida, dell’Isis che dovrà essere verificata.
I coltelli, così i veicoli-ariete, sono nati come arma «povera»quanto distruttiva in mano a estremisti e fuori di testa. Due strumenti di morte, purtroppo, alla portata di chiunque voglia spargere il panico. Il filo rosso ha unito stragi in Europa, Nord America, ma anche la lontana Cina, insanguinata da episodi dove le motivazioni dei separatisti uighuri si sono mescolate a quelle personali di individui definiti quasi sempre come «folli»spinti dal desiderio di «vendetta».
I simpatizzanti dell’Isis rimasti in Occidente hanno trovato nell’uso delle lame una via rapida per obbedire agli appelli dei loro referenti. Iniziò il portavoce Al Adnani suggerendo di investire, di sgozzare, usare persino una pietra nel caso non avessero a disposizione una pistola. Così hanno fatto. In seguito lo Stato Islamico ha diffuso video per insegnare come tagliare la gola ad una vittima. E fu proprio un istruttore francese a tenere una lezione impiegando – si disse – un prigioniero: scena atroce registrata in un breve filmato. Una ripetizione del sacrificio di molti ostaggi. Chiaro il messaggio: anche voi potete imitare le esecuzioni condotte dai mujaheddin, non serve alcun addestramento. Basta aprire il cassetto della cucina e prendere un oggetto tagliente.
L’esempio inciso su quelle clip è stato devastante. Con il passare del tempo, insieme al declino operativo dei militanti – almeno sul fronte esterno -, l’attentato con il coltello è diventato quasi una scelta obbligata. Non possono inviare commando con i Kalashnikov e allora ripiegano su incursioni semplici che però fanno danni. Indicazioni ripetute anche negli ultimi messaggi dei dirigenti, segnalazioni captate dai servizi di sicurezza memori di eventi avvenuti anche in Francia, come le due donne accoltellate mortalmente a Marsiglia.
In tanti hanno ripetuto il gesto accompagnandolo, in alcuni casi, con l’invocazione «Allah è grande». Frase pronunciato - sembra - anche dal killer di ieri sera nei pressi dell’Opera. Quindi avrebbe affrontato la polizia gridando «ammazzatemi o vi uccido». Scenario già visto. Gli inquirenti dovranno a precisare meglio il profilo dell’assassino guardando a 360 gradi, lasciando aperta qualsiasi ipotesi.
Del resto il ripetersi degli attacchi e la copertura mediatica hanno avuto un impatto su «lupi solitari»radicalizzati rapidamente, su instabili che hanno abbracciato la Jihad e su uomini affetti da turbe senza alcun rapporto con l’islamismo. Tutti uniti dalla convinzione che l’atto di violenza, sotto i riflettori, è la sola via d’uscita.

il manifesto 13.5.18
Firenze, licenziati i due carabinieri accusati di stupro
Giustizia. Prima ancora dell'udienza per l'eventuale rinvio a giudizio del tribunale militare e di quello civile, l’Arma destituisce i due accusati. Decisione senza precedenti ma nel codice militare la violenza sessuale non è reato
di Eleonora Martini


Licenziati, ancor prima di essere giudicati da qualsiasi tribunale. A pochi giorni dall’udienza preliminare del tribunale militare di Roma prevista per il 30 maggio, e mentre si attende che la procura ordinaria di Firenze depositi davanti al Gip la richiesta di rinvio a giudizio, dopo aver chiuso l’inchiesta il 14 marzo scorso, L’Arma – a conclusione di un’indagine disciplinare interna – ha deciso di destituire i due carabinieri accusati da due studentesse statunitensi di averle violentate, nella notte tra il 6 e il 7 settembre scorsi.
Una decisione con pochi precedenti, anche a memoria di chi, come Luca Marco Comellini con la sua associazione «Partito dei diritti dei militari», si occupa della tutela dei diritti dei militari e delle forze di polizia. Difficilmente infatti le sanzioni, prima del processo, vanno oltre la sospensione dal servizio, in via cautelativa.
E invece l’appuntato scelto Marco C., di 44 anni, e il 32enne carabiniere scelto Pietro C. – che quella notte accompagnarono a casa con l’auto di servizio le due studentesse ventenni ubriache con le quali ebbero un rapporto sessuale, «imposto e violento» secondo l’accusa, «consenziente» secondo la difesa – sono stati destituiti. Sulla base dell’articolo 1393 del codice dell’ordinamento militare (modificato nel 2015 dalla legge Madia) che autorizza questo tipo di provvedimenti disciplinari anche a giudizio non concluso. Il codice però prevede pure la possibilità di reintegro dei militari, a conclusione dell’iter processuale, nel caso di un’assoluzione piena e definitiva da quei crimini ritenuti «particolarmente gravi o infamanti», tanto da meritare il licenziamento.
Eppure, il tribunale militare dovrà decidere a fine mese se processare i due carabinieri per i reati di violata consegna continuata e pluriaggravata e peculato militare aggravato, ma non di violenza sessuale perché nel codice non è prevista. Sì, proprio così: come spiega Comellini, ex maresciallo dell’Aeronautica e autore di una rubrica su Radio radicale, tra i reati sanzionati nell’ambito dell’attività, per i circa 320 mila militari italiani di ogni ordine e grado, «non è contemplata la violenza sessuale, ma neppure i comportamenti sessisti». Benché i militari «siano gli unici cittadini italiani sottoposti ad un doppio giudizio penale», polemizza il segretario del Pdm che da anni si batte per l’abolizione del tribunale militare.
L’accusa di stupro, «repentino e inaspettato», delle due ragazze che avevano chiesto di essere accompagnate a casa perché ubriache (1.68 e 1.59 grammi di alcol per litro, il loro tasso alcolico registrato in pronto soccorso al mattino) sussiste invece nell’ipotesi di reato formulata dal pm Ornella Galeotti della procura di Firenze che, dopo l’incidente probatorio, ha concluso l’inchiesta e sta per depositare la richiesta di rinvio a giudizio per i due carabinieri che finora erano stati sospesi dal servizio e ricevevano metà stipendio.
Ora, contro la «perdita del grado e rimozione», i due militari stanno valutando un ricorso al Tar, secondo quanto annunciato dall’avvocato Giorgio Carta. «Nella decisione disciplinare – ha scritto il legale su Facebook – ha pesato per entrambi di aver avuto rapporti sessuali in servizio con le due americane. Ma nessuno ha stuprato nessuno e sarà dimostrato al processo». «Il comando generale – prosegue il difensore del carabiniere più giovane – sembra aver avuto una certa fretta ad irrogare la sanzione nei confronti dei due militari. In questo modo la presunzione d’innocenza non è rispettata».

Repubblica 13.15.18

Intervista
La studentessa violentata
“Cacciati i due carabinieri piango per questa vittoria”
di Gaetano Adinolfi


FIRENZE «Sono così felice di sentire queste buone notizie. È una vittoria per tutte le donne » . È il primo commento a caldo della studentessa americana di 21 anni che insieme ad un’amica accusa di violenza sessuale due carabinieri che nella notte tra il 6 e il 7 settembre erano in servizio a Firenze. La notizia è quella della destituzione di Marco Camuffo e Pietro Costa, i due carabinieri che sono stati di fatto radiati dall’Arma al termine di un’indagine disciplinare avviata subito dopo la denuncia. Il ministero della Difesa ha accolto la richiesta dell’Arma che, senza aspettare un’eventuale condanna, ha deciso di togliere loro il grado. In pratica di licenziarli. A consentirlo è l’articolo 1393 del codice dell’ordinamento militare che dal 2016 prevede la destituzione anche solo in presenza di un’accusa, se questa è particolarmente grave e infamante. Ma prevede anche il reintegro, qualora l’imputazione dovesse cadere.
»Passeranno anni e nel frattempo Costa e Camuffo saranno senza lavoro — dice il difensore Giorgio Carta — I due carabinieri sono stati negligenti e inopportuni ma non hanno stuprato nessuno » .
L’avvocata Francesca D’Alessandro, invece, assiste Mary ( nome di fantasia), la ragazza più grande, quella di 21 anni. « Come tutte le vittime di violenza ha bisogno di essere creduta » , dice.
Insieme all’amica, Mary non ha mai tentennato e ha continuato ad accusare i due carabinieri di averle violentate dopo averle accompagnate a casa da una discoteca vicino al piazzale Michelangelo, a Firenze. Mentre i militari hanno sempre parlato di un rapporto consenziente. La procura di Firenze ha chiuso le indagini e deve decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio.
Mary risponde dagli Stati Uniti, dove è tornata, quando in Italia è ormai sera. Mostra la sua gioia con un emoticon, la faccina sorridente e un pollice in alto. E scrive in inglese: « Crying from this small win » , « Sto piangendo per questa piccola vittoria » .
A otto mesi da quella notte e dalla sua denuncia, Costa e Camuffo sono stati destituiti.
«Ho sempre creduto che sarebbe stata presa la decisione giusta».
Che cosa ha pensato quando la sua avvocata le ha comunicato la decisione del Comando dell’Arma?
«Che questa non è solo una vittoria per me, ma per tutte le donne le cui voci contano, e che hanno il diritto di sentirsi al sicuro non solo in paesi stranieri ma anche tra i rappresentanti onesti della legge».
Un provvedimento che le fa avere fiducia nella giustizia italiana?
«Sì e mi fa ben sperare anche in vista di un futuro processo».
Ora i due militari sono senza lavoro, nonostante non ci sia stata ancora nessuna condanna. Pietro Costa ha riferito al suo avvocato di sentirsi «devastato».
«Lui si sente devastato? Non so cosa potrei rispondergli.
Davvero non mi dispiace per lui».
Il ricordo di ciò che ha denunciato quella notte è ancora forte?
«Sto cercando di superarlo e di recuperare le mie forze. Sento che Camuffo me ne ha tolte così tante».
In questi mesi ha più sentito la sua amica?
«Siamo amiche molto strette, ci sosteniamo a vicenda specialmente nei giorni più brutti».
Crede che questa vicenda, anche alla luce del movimento #metoo, possa servire a dar voce alle donne che subiscono violenze?
«Ogni donna che denuncia, incluse me e la mia amica, aiuta le donne a farsi avanti e a superare le loro orribili esperienze. Non siamo sole».
Secondo lei è stato giusto quindi licenziare i due carabinieri?
«Sì, ma non so dire se tutti i media saranno di questa opinione».
Lo dice perché pensa che siano state scritte o raccontate inesattezze su di voi?
«Ripeto, non so se tutti i media siano dalla nostra parte. Ma io sono molto felice, questo provvedimento è meritato».

Corriere 13.5.18
Un milione di bimbi in povertà
di Alessio Ribaudo


Un milione e 300 mila minori italiani vivono in condizioni di povertà assoluta. Oltre la metà non legge un libro, quasi uno su tre non usa Internet e più del 40 per cento non pratica sport. Sono alcuni dei dati che fanno più riflettere del rappor-to «Nuotare contro corrente. Povertà educativa e resilienza in Italia» di Save the Children. Campania, Sicilia, Calabria, Puglia e Molise sono le regioni che arrancano di più

il manifesto 13.5.18
Jerusalem day senza Trump, ma è il trionfo di Netanyahu
Gerusalemme. Oggi migliaia di israeliani sfileranno in corteo per affermare il controllo su tutta Gerusalemme alla vigilia delle celebrazioni per il trasferimento dell'ambasciata Usa nella città santa. Scioperi e raduni dei palestinesi. Le proteste più imponenti sono previste a Gaza domani e martedì
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Celebrazioni così sontuose forse Israele non le aveva organizzate ‎neppure dopo aver occupato nel 1967 la zona Est, araba, di ‎Gerusalemme e preso il controllo di tutta la città. L’euforia è alle ‎stelle tra gli israeliani per il trasferimento dell’ambasciata ‎statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Tra i palestinesi invece ‎crescono rabbia e frustrazione per un passo che viola le risoluzioni ‎internazionali proprio come il riconoscimen0to di Gerusalemme ‎come capitale di Israele fatto da Donald Trump il 6 dicembre. Il ‎‎”Giorno di Gerusalemme” – che cade oggi secondo il calendario ‎ebraico – è la vigilia perfetta, spiegano gli ultranazionalisti, del 14 ‎maggio del 70esimo anniversario della proclamazione dello Stato di ‎Israele. E domani l’inviato Usa in Medio oriente Jared Kushner, la ‎moglie Ivanka Trump, l’ambasciatore finanziatore del movimento dei ‎coloni David Friedman e centinaia di rappresentanti ‎dell’Amministrazione, del Congresso e di altre istituzioni e ‎organizzazioni americane, parteciperanno alla cerimonia di apertura ‎dell’ambasciata statunitense ad Arnona, alla periferia meridionale di ‎Gerusalemme. Assieme a loro ci saranno il premier Benyamin ‎Netanyahu, il capo dello stato Reuven Rivlin, ministri, parlamentari e ‎personalità politiche per celebrare quella che in Israele ritengono una ‎‎”vittoria” di eccezionale importanza.‎
 A breve distanza i palestinesi, molti dei quali giungeranno dalla ‎Galilea, tenteranno di far sentire la loro protesta. Tenteranno perché il ‎dispiegamento delle forze di polizia sarà enorme in tutta ‎Gerusalemme. ‎«Abbiamo deciso di tenere la manifestazione nello ‎stesso luogo e nello stesso momento delle celebrazioni israeliane – ‎spiega Mohammed Barakeh, dell’Alto Comitato di Direzione della ‎minoranza araba in Israele – intendiamo alzare la voce contro la ‎politica statunitense di sostegno all’occupazione israeliana e agli ‎insediamenti coloniali che punta ad uccidere ogni possibilità di creare ‎uno Stato palestinese indipendente e sovrano sui confini del 1967 ‎con Gerusalemme come sua capitale‎». Raduni si annunciano per ‎domani anche in Cisgiordania, in particolare a Ramallah. Le ‎manifestazioni più imponenti si prevedono a Gaza dove domani e ‎martedì 15 maggio, nel 70esimo anniversario della Nakba, decine di ‎migliaia di palestinesi – si dice oltre 100mila – arriveranno nella ‎fascia orientale di Gaza a poche centinaia di metri di distanza dalle ‎barriere di demarcazione con Israele. L’esercito israeliano sta facendo ‎affluire rinforzi di uomini e mezzi corazzati lungo le linee con Gaza ‎ed è forte il timore che i tiratori scelti, ripetendo quanto avvenuto ‎nelle ultime settimane durante la “Grande Marcia del Ritorno”, ‎aprano di nuovo il fuoco sui dimostranti che si avvicineranno o ‎proveranno a superare le recinzioni. E il bilancio di sangue di oltre ‎‎50 morti e di migliaia di feriti registrato sino ad oggi potrebbe ‎lievitare a cifre drammatiche. Ieri Israele ha bombardato il nord di ‎Gaza – un presunto tunnel sotterraneo – poche ore dopo la chiusura ‎del valico commerciale di Kerem Shalom danneggiato dai palestinesi ‎durante le ultime proteste.
Marce contro il trasferimento ‎dell’ambasciata Usa a Gerusalemme si prevedono anche in vari Paesi ‎arabi ed islamici. Gli Usa sono consapevoli che la loro mossa a ‎Gerusalemme aggrava le tensioni in Medio Oriente e per questo, ‎riferiva ieri la Cnn, stanno inviando contigenti di marines a ‎protezione delle sedi diplomatiche in diversi Paesi della regione.‎
L’Unione europea riafferma la sua opposizione al trasferimento ‎delle ambasciate a Gerusalemme ma all’appuntamento di domani non ‎pare arrivare con una posizione condivida da tutti i Paesi membri. ‎Secondo le indiscrezioni la repubblica Ceca, l’Ungheria e la Romania ‎‎– alleate di Israele – hanno impedito l’adozione di un documento ‎comune che riaffermava lo status di Gerusalemme come città ‎internazionale. ‎
Sui poster apparsi in questi giorni nelle strade della Gerusalemme ‎ebraica (ovest) domina un’esortazione: “Trump rendi grande Israele”. ‎E il presidente americano non si tira indietro ma sta rendendo ‎‎”grande” soprattutto Netanyahu . Il primo ministro israeliano sta ‎vivendo – grazie alla sua linea del pugno di ferro contro Iran, Siria e ‎Palestinesi appoggiata dalla Casa Bianca – un momento di popolarità ‎senza precedenti. I sondaggi danno il suo partito, il Likud, in forte ‎crescita e il 69% degli israeliani approva con entusiasmo la sua ‎politica. Delle tre inchieste giudiziarie che lo vedono coinvolto per ‎truffa e corruzione non parla e scrive più nessuno da settimane.‎

il manifesto 13.5.18
In 5mila a Roma a 70 anni dalla Nakba palestinese
Palestina. Corteo anche a Milano, adesioni da decine di associazioni, comunità e realtà del territorio. L’appello al mondo e all’Italia: «La Palestina esiste e continuerà a esistere»
di Chiara Cruciati


ROMA «Sono palestinese, nata e cresciuta a Roma. Non sono mai stata in Palestina: i miei nonni scapparono nel 1948 da Haifa e si rifugiarono in Giordania. Non posso entrare in Palestina, vorrei tanto vederla». Tra le 5mila persone che ieri hanno marciato a Roma a 70 anni dalla Nakba c’erano tantissimi giovani palestinesi.
Alcuni di loro, come la ragazza che abbiamo incontrato in testa al corteo romano, sono figli e nipoti di rifugiati, loro stessi rifugiati. Nessuno dei 7 milioni di profughi palestinesi nel mondo ha mai esercitato il diritto al ritorno che dal 1948 le Nazioni unite riconoscono a ogni rifugiato palestinese e ai suoi discendenti.
Sette decenni dopo la fondazione dello Stato di Israele, il popolo palestinese resta un popolo in diaspora: i due terzi vivono fuori dai confini della Palestina storica.
«La manifestazione di oggi è nazionale, all’altezza di quanto sta accadendo in Medio Oriente e in Palestina in particolare – ci dice Bassem Salah della comunità palestinese di Roma, mentre i manifestanti si radunano in Piazza dell’Esquilino, tra bandiere, kufieh, striscioni per i prigionieri politici e per Gaza – Siamo oggi qui contro il trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme e per porci al fianco di Gaza nella Grande Marcia del Ritorno. E per dire al mondo e ai governi europei: la Palestina esiste e continuerà a esistere. Va presa subito una posizione chiara e netta contro chi non rispetta le risoluzioni dell’Onu».
In un periodo di escalation belliche e politiche in Medio Oriente, la questione palestinese resta al centro dei conflitti regionali e globali, specchio di uno dei principali focolai di tensione, mai spento ma anzi acceso da scellerate prese di posizione internazionali e dalla negazione costante del diritto all’autodeterminazione.
«La lotta contro il razzismo sudafricano io l’ho combattuta lì, in Angola – spiega al manifesto Marco Ramazzotti Stockel, storico membro di Ebrei contro l’Occupazione – Non posso non combattere per i palestinesi, è la stessa lotta, per le stesse ragioni e contro gli stessi nemici. Il Giro d’Italia come il trasferimento dell’ambasciata Usa sono atti di un enorme valore politico. Trump ha sconvolto il quadro mediorientale. Io sono antisionista: combatto per la Palestina, ma combatto anche per la mia cultura. Stanno distruggendo la cultura ebraica e la parte migliore della sua tradizione».
Tante le realtà che hanno preso parte alle due manifestazioni nazionali di ieri, a Roma e Milano: il Coordinamento delle comunità palestinesi in Italia, l’Unione democratica araba palestinese in Italia, Arci, Anpi, Potere al Popolo, Rifondazione Comunista, Fiom, decine di associazioni, gruppi studenteschi, collettivi e spazi sociali di tutto il paese.

Il Fatto 13.5.18
Ora pecunia olet: Mediaset rifiuta gli spot di “Loro”
Scelta - L’azienda di Berlusconi non vuole pubblicizzare il film di Sorrentino: “Sky lo farebbe con un film contro Murdoch?”
Ora pecunia olet: Mediaset rifiuta gli spot di “Loro”
di Gianluca Roselli


Mediaset si rifiuta di trasmettere gli spot sul film di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi. I trailer di Loro 1 e Loro 2 in questi giorni stanno andando in onda su tutte le reti nazionali, ma non sui canali del Biscione. E questo nonostante le sollecitazioni da parte della casa di produzione, la Indigo Film. Una decisione che appare totalmente politica presa dall’azienda con l’obiettivo di non fare pubblicità a una pellicola considerata denigratoria nei confronti del leader di Forza Italia.
Una scelta a dimostrare che, di fronte alla politica, non ci sono ragioni commerciali che tengano. Perché, facendo a meno degli spot sul film, Mediaset rinuncia comunque a degli introiti. Dall’azienda preferiscono non commentare, ma tendono a escludere che si tratti di una decisione presa ai vertici. “Se dovesse uscire un film contro Rupert Murdoch, non ci sarebbe da stupirsi se a Sky non mandassero in onda i trailer”, commenta una fonte interna.
Tra l’altro, c’è da ricordare che Sorrentino nemico del Biscione proprio non è. Basti pensare che La grande bellezza, il film vincitore di un premio Oscar, ma anche This must be the place e Youth, la giovinezza, sono stati distribuiti da Medusa, la casa di distribuzione di famiglia, guidata da Carlo Rossella: “Sono appena rientrato dall’estero e non ho ancora visto nemmeno Loro 1. Posso però dire che in Francia c’è molta attesa, i francesi non vedono l’ora di vedere il film”, racconta Rossella.
“Il film, Berlusconi non l’ha visto”, fa sapere Licia Ronzulli. E alla sua uscita lo stesso leader azzurro aveva annunciato di non essere interessato. Dalle parti di Forza Italia, però, c’è chi scommette che alla fine verrà sopraffatto dalla curiosità. Del resto il Caimano, venuto a sapere della lavorazione, qualche mese fa ha invitato a pranzo ad Arcore lo stesso Sorrentino. Incontro sul quale il regista ha mantenuto il più stretto riserbo. “È stato un incontro privato e tale deve restare”, ha detto Sorrentino.
In Forza Italia, invece, dopo roboanti attacchi alla pellicola, ora si tende a minimizzare. “Il film non l’ho visto e non ho sentito nemmeno commenti al riguardo. In questo periodo abbiamo cose più importanti cui pensare…”, sussurra Gregorio Fontana, deputato tra i più assidui frequentatori di Arcore. Del film, però, all’interno della truppa parlamentare si parla eccome. Chi l’ha visto, chi non l’ha visto e non andrà, chi non l’ha visto ma vuole sapere tutto. “Non ho avuto tempo, ma sicuramente andrò. La decisione di Mediaset? Non commento, sarebbe un conflitto d’interessi…”, risponde l’ex direttore di Panorama oggi deputato, Giorgio Mulè. “Sono andato a vedere Loro 1, ma dopo il primo tempo sono uscito. Ero con mia figlia, l’ho trovato di una volgarità assoluta, mi ha dato fastidio. Non so nulla della decisione di Mediaset, ma ogni azienda si regola come vuole”, dice Paolo Romani. “Si tratta sempre del film sulla persona che ha cambiato la vita di tutti noi. Non andarlo a vedere suona quasi come un insulto a ‘Lui’, per dirla come nel film. Poi, che Mediaset non trasmetta i trailer, è legittimo e si può capire”, racconta un altro parlamentare che preferisce l’anonimato.
Tornando a Mediaset, Paolo Del Debbio e Nicola Porro non si appassionano al tema. “Il film non l’ho visto e penso che non lo vedrò. Capisco la decisione dell’azienda: se il prodotto è sgradito, la scelta di non trasmettere i trailer è comprensibile”, spiega Del Debbio. “Penso che andrò. Come giornalista sono curioso. Per quanto riguarda Mediaset, è una decisione che ci può stare”, osserva Porro.
Nel frattempo il film sta andando bene al botteghino. Nella sua prima settimana di programmazione, Loro 1 è stato in testa alla classifica dei film più visti in Italia e, a giovedì, aveva incassato 3,4 milioni di euro. Vedremo se Loro 2, uscito da quattro giorni, avrà la stessa fortuna, nonostante Mediaset non ne trasmetta gli spot.

il manifesto 13.5.18
La fisica irriverente di Richard Feynman
Anniversari. Il celebre scienziato avrebbe compiuto cento anni l’11 maggio. Tra i protagonisti del Novecento, anticipò i computer ma esplorò anche la musica e l’arte. Insofferente all’autorità a Los Alamos si prese gioco dell’Fbi, ma fu contestato dalle femministe in ateneo
di Andrea Capocci


Venerdì 11 maggio, il grande fisico Richard Feynman avrebbe compiuto cento anni. È stato uno degli scienziati più popolari del secolo. Insieme a Julian Schwinger e Sin-Itiro Tomonaga, vinse il premio Nobel per la fisica nel 1965 per le ricerche sull’elettrodinamica quantistica, cioè sulle leggi che governano le interazioni tra le particelle elementari e la luce. Ma in carriera si dedicò a tutte le forze fondamentali della natura, fino ai quark e alla gravità. In un sondaggio della rivista Physics World, i colleghi lo inclusero tra i dieci fisici più importanti della storia, al settimo posto dopo Galileo Galilei e prima di Dirac.
NATO A NEW YORK da una famiglia ebrea, Feynman ha dato un contributo notevolissimo alla fisica del Novecento. Oltre alle sue azzeccate previsioni teoriche su fotoni ed elettroni, ci ha lasciato in eredità una cassetta degli attrezzi imprescindibile per qualunque ricercatore. Ogni studioso delle interazioni fondamentali oggi utilizza i cosiddetti «diagrammi di Feynman» per capire cosa succede quando le particelle interagiscono tra loro. Allo stesso tempo, i «diagrammi» sono uno strumento di calcolo matematico indispensabile e una visualizzazione grafica potentissima. Quando, negli anni ‘50, Feynman spiegò le regole dei suoi «disegnini» (li definiva così lui stesso), rivoluzionò il campo. Un segmento continuo rappresentava un elettrone, uno ondulato un fotone, i bosoni W e Z corrispondevano a linee tratteggiate, e per calcolare la probabilità di un certo fenomeno fisico bisognava capire come questi elementi base potevano combinarsi. Nei laboratori di fisica delle particelle, i calcoli si fanno ancora così. A fine carriera si dedicò allo sviluppo dei calcolatori, e anticipò l’avvento delle nanotecnologie e dei computer «quantistici», immensamente più veloci di quelli che usiamo oggi.
Come racconta la migliore biografia di Feynman, quella scritta da James Gleick, i «diagrammi» addirittura infastidivano gli scienziati più anziani, convinti che i giovani avessero a disposizione un’arma difficile da controllare – stiamo parlando di un modo di calcolare gli integrali, non di una moto da corsa. Anche per il coetaneo Schwinger, «come i chip di silicio negli anni più recenti, i diagrammi di Feynman hanno portato il calcolo alle masse», e rappresentano «pedagogia, non fisica». Schwinger non intendeva complimentarsi, ma forse raccontò meglio di tutti l’impatto della nuova tecnica matematica.
Pochi fisici sono stati altrettanto capaci di diventare personaggi pubblici nell’era della comunicazione di massa. Oltre a lui, si citano i soliti Einstein, Sagan o Hawking, oppure fenomeni nostrani come Margherita Hack e Carlo Rovelli. Hawking, Hack e colleghi hanno raggiunto la fama soprattutto in quanto abilissimi divulgatori del loro campo di ricerca, e solo in seguito l’attenzione si è spostata sulle loro biografie. Einstein, invece, se la conquistò con le scoperte.
Il caso di Feynman, invece, è anomalo. Oltre ad essere uno scienziato di prim’ordine, è quello che più si è impegnato nell’insegnamento della fisica, cosa diversa dalla divulgazione. Dal punto di vista editoriale, il suo maggior successo è un manuale, le Feynman Lectures on Physics. Un libro di testo introduttivo ma niente affatto divulgativo, amatissimo dai fisici (lo possiedono quasi tutti) per la brillantezza e l’originalità, ma ritenuto troppo difficile per essere adottato nelle università. È la trascrizione fedele del suo corso di fisica all’Università Caltech di Pasadena, in California: lezioni preparate in maniera maniacale, con esempi geniali e un’esposizione teatrale, ma senza perdere un briciolo di rigore teorico. A Caltech, dove rimase dal 1952 alla morte, fu un insegnante amatissimo.
AL DI LÀ DEGLI STUDENTI, la fama di Feynman è invece legata al suo personaggio geniale e politicamente scorretto. Il grande pubblico, infatti, lo conosce soprattutto per un’autobiografia scritta in due parti in cui di fisica si parla poco o nulla, Sta scherzando, Mr. Feynman! (Zanichelli) e Che t’importa di ciò che dice la gente? (Adelphi). I due libri portano entrambi nel sottotitolo «avventure di uno scienziato curioso». Effettivamente ciò che ha trasformato Feynman da grande scienziato a mito è la sua insaziabile curiosità, che lo portava ad assumere posizioni politicamente scomode e a dedicarsi con lo stesso rigore a hobby inconsueti per un fisico teorico.
Feynman si era fatto notare già durante gli anni della guerra. Era stato tra i primissimi e più giovani collaboratori del segretissimo «Progetto Manhattan», in cui gli scienziati misero a punto la bomba atomica di Hiroshima. A Los Alamos, nel deserto in cui si svolgevano le ricerche, Feynman stupiva tutti per irriverenza sia dentro che fuori i laboratori. Fece ammattire gli agenti che controllavano gli scienziati, perché si divertiva a aprire le cassaforti in cui venivano nascosti i segreti militari. Scriveva lettere in codice alla moglie (che morì di tubercolosi proprio in quel periodo) regolarmente scambiate per spionaggio tanto che l’Fbi accumulò un nutrito dossier su di lui all’epoca del maccartismo. In realtà, Feynman non aveva nulla della spia sovietica. Era iscritto alle liste degli elettori repubblicani, non nutriva alcuna fiducia nei governi e al momento del servizio militare (quando era già uno scienziato famoso) fece il matto fino a farsi riformare per ragioni psichiatriche.
La curiosità di Feynman lo portò anche a suonare professionalmente la frigideira (uno strumento musicale simile a una padella) al carnevale di Rio, i bonghi nelle foreste, a testare sostanze allucinogene, diventare un artista apprezzato con lo pseudonimo di Ofey, frequentare i locali di striptease senza nascondersi. Abitudini anomale che oggi sarebbero giudicate meno teneramente.
IL SECONDO MATRIMONIO finì per gli atti di «estrema crudeltà» sul piano fisico e psicologico inflitti alla moglie e confessati dallo stesso scienziato. Le relazioni con le studentesse di Caltech, alle quali però nascondeva il suo status di professore, non sarebbero ammesse nelle università attuali, né le sue richieste di posare per dei nudi. Le femministe lo contestavano già in vita, in ogni caso. Come lui stesso racconta in Che t’importa di ciò che dice la gente?, non gli perdonavano il ricorso ai luoghi comuni maschilisti nei suoi esempi, come quello della donna al volante che discute di velocità con un poliziotto che la multa, e glielo comunicavano interrompendo le sue conferenze.
L’insofferenza per l’autorità durò fino agli ultimi anni, quando Feynman ebbe un ruolo di primo piano nella commissione Rogers che indagò sull’esplosione dello Shuttle del 1986: vi persero la vita sei astronauti e un’insegnante, Christa McAuliffe, la prima docente destinata a volare nello spazio. Fu proprio Feynman a scoprire cosa non andasse in alcune insignificanti guarnizioni di gomma e a rivelare la catena di errori organizzativi che aveva portato la Nasa a un disastro che poteva essere evitato. Feynman dovette minacciare di cancellare la firma dalla relazione finale per ottenere che i dettagli più scomodi non fossero censurati da Rogers.
LA STESSA VIVACITÀ intellettuale, tuttavia, non lo avvicinò mai alla filosofia, tantomeno alla filosofia della scienza. Considerava un sintomo della crisi di mezza età le riflessioni sul ruolo della scienza nella società, e riteneva che i filosofi della scienza fossero utili agli scienziati «quanto gli ornitologi sono utili agli uccelli». Attribuì al matematico John Von Neumann il consiglio di non sentirsi responsabili del mondo in cui si vive: «dopo quel consiglio ho sviluppato un potentissimo senso di irresponsabilità sociale, e da allora sono stato un uomo felice», scrisse Feynman. Tale leggerezza deve averlo aiutato non poco, soprattutto quando molti suoi colleghi riflettevano sul ruolo avuto dalla scienza nel conflitto mondiale e nella guerra fredda.
Con la stessa facilità poteva accettare inviti dall’Urss e poi declinare su consiglio governativo, sottrarsi all’esercito simulandosi folle ma dedicarsi a tempo pieno a una commissione di inchiesta sulla Nasa, farsi beffe della censura militare ma votare per Eisenhower alle elezioni presidenziali. Morì a 69 anni di tumore nella sua casa californiana e adesso è sepolto a Mountain View, a due passi dai laboratori in cui Google sperimenta i computer quantistici che lui aveva previsto. Oggi gli avrebbero chiesto consiglio in tanti, da Trump in giù. Quanto si sarebbe divertito.

il manifesto 13.5.18
Pedofilia in Cile, l’esame del papa
Chiesa. Resa dei conti in Vaticano, Francesco convoca 33 vescovi per i casi di abusi coperti e insabbiati. La sterzata della Santa sede dopo «i gravi sbagli di valutazione». Cadranno delle teste?
di Luca Kocci


Tre giorni a porte chiuse fra papa Francesco e i vescovi cileni, dal 15 al 17 maggio, per affrontare i numerosi casi di pedofilia verificatisi nel Paese andino negli ultimi anni e che hanno avuto come protagonisti decine di preti e religiosi. È probabile che salterà qualche testa: quella del vescovo di Osorno, Juan de la Cruz Barros – il principale imputato -, ma anche quelle di altri vescovi e prelati le cui responsabilità e silenzi complici sono stati evidenziati dalle indagini portate avanti dagli inviati speciali del papa in Cile, monsignor Scicluna (arcivescovo di Malta) e don Bertomeu (della Congregazione per la dottrina della fede).
L’ANNUNCIO della riunione riservata fra Francesco e i vescovi cileni – nell’aria da settimane – è arrivato ieri dalla sala stampa della Santa sede. Il papa, si legge nel comunicato, «richiamato dalle circostanze e dalle sfide straordinarie poste dagli abusi di potere, sessuali e di coscienza che si sono verificati in Cile negli ultimi decenni, ritiene necessario esaminare approfonditamente le cause e le conseguenze, così come i meccanismi che hanno portato in alcuni casi all’occultamento e alle gravi omissioni nei confronti delle vittime». Parteciperanno 31 vescovi in attività (in tutto sono 33) più due emeriti (in pensione), e il papa sarà affiancato dal cardinal Ouellet, prefetto della Congregazione vaticana per i vescovi, il dicastero che sovraintende ai vescovi di tutto il mondo. L’obiettivo è «discernere insieme», spiega il comunicato, «la responsabilità di tutti e di ciascuno in queste ferite devastanti, nonché studiare cambiamenti adeguati e duraturi che impediscano la ripetizione di questi atti sempre riprovevoli. È fondamentale ristabilire la fiducia nella Chiesa attraverso dei buoni pastori» che «sappiano accompagnare la sofferenza delle vittime e lavorare in modo determinato e instancabile nella prevenzione degli abusi».
LA STORIA DEGLI ABUSI sessuali in Cile non comincia oggi, ma è piuttosto vecchia, sebbene sia sempre stata nascosta sotto il tappeto. Ed è stata aggravata dallo stesso Francesco, che evidentemente si è reso conto degli errori commessi e che, dopo aver chiesto pubblicamente scusa, sembra ora intenzionato a correre ai ripari.
Secondo BishopAccountability.org (un gruppo Usa di monitoraggio sulla pedofilia) dal 2000 ad oggi circa ottanta preti sono stati accusati di aver compiuto abusi sessuali su giovani. Lo scandalo però è esploso nel 2011, quando la Santa sede ha condannato don Fernando Karadima, per anni parroco a Santiago, pedofilo seriale colpevole di numerosi abusi su minori. E soprattutto quando papa Francesco ha promosso da ordinario militare a vescovo di Osorno monsignor Barros, “discepolo” di Karadima, da molti accusato (insieme ad almeno altri tre vescovi) di essere stato a conoscenza delle violenze compiute dal suo maestro.
IN CILE, IN PARTICOLARE ad Osorno, è montata la protesta dei fedeli. Francesco non solo non è riuscito a placare le contestazioni, ma anzi ha contribuito ad amplificarle. Prima nel maggio 2017 quando, incontrando a margine di un’udienza in Vaticano alcuni cattolici di Osorno ha detto loro che contro Barros «non ci sono prove» e che i fedeli «non devono farsi prendere in giro da quegli stupidi che hanno montato la vicenda». Poi a gennaio di quest’anno, durante il viaggio in Cile, quando ha ribadito ai giornalisti che contro Barros «non c’è una prova, sono tutte calunnie». Affermazione grave (criticata persino dal cardinale statunitense O’Malley, presidente della commissione della Santa sede contro gli abusi sui minori voluta proprio da papa Francesco), parzialmente corretta durante il volo di ritorno da Lima a Roma ma in maniera maldestra: «La parola “prova” non era la migliore, parlerei piuttosto di “evidenza”».
SUBITO DOPO FRANCESCO deve essersi accorto di averla combinata grossa e così ha inviato in Cile due “investigatori” (Scicluna e Bertomeu) che, dopo aver sentito oltre sessanta testimoni, hanno presentato al papa un dossier che ha ribaltato la situazione. Tanto che ad inizio aprile Francesco ha convocato a Roma alcuni vescovi cileni e ha consegno loro una lettera di mea culpa. «Riconosco che sono incorso in gravi sbagli di valutazione e di percezione della situazione, specialmente per mancanza di informazione veritiera ed equilibrata», ha ammesso il papa, puntando implicitamente il dito contro chi avrebbe dovuto fornirgli notizie autentiche e non l’ha fatto, come il cardinal Errazuriz (membro del C9, il consiglio dei cardinali che sta lavorando con Francesco alla riforma della Curia romana) e il nunzio in Cile, monsignor Scapolo, grande sponsor di Barros. E alla fine di aprile ha ospitato in Vaticano tre vittime del prete pedofilo Karadima, che hanno accolto le scuse di Francesco ma hanno anche detto di aspettarsi ora delle misure severe nei confronti di tutti i colpevoli: i vescovi che hanno coperto gli abusi e i preti che li hanno commessi.
La prossima settimana la resa dei conti in Vaticano con un episcopato cileno più diviso e lacerato che mai.

Il Fatto 13.5.18
Caso Karadima e abusi sessuali Bergoglio convoca i vescovi cileni


Durante la visita all’inizio dell’anno in Cile, Papa Francesco era stato contestato per non essere intervenuto in modo diretto su casi di abusi sessuali occultati dalla Chiesa. Una ulteriore puntata della vicenda si svolgerà dal 15 al 17 maggio quando Bergoglio incontrerà i vescovi cileni e l’argomento da sviscerare sarà proprio quello. Fra i casi da trattare quello del vescovo di Osorno, monsignor Juan Barros, accusato di aver coperto gli abusi sessuali. A spingere Papa Francesco alla convocazione dei vescovi il dossier elaborato da monsignor Charles Scicluna, con 64 testimonianze sui comportamenti del prete cileno Fernando Karadima nei confronti di Juan Carlos Cruz, James Hamilton e José Andrés Murillo, già incontrate e ascoltate anche da Bergoglio. I tre tennero una conferenza stampa il 2 maggio scorso e Hamilton dichiarò: “Vorrei dire ai vescovi insabbiatori che il maggior danno non è stato quello che mi ha fatto Karadima ma quello che mi hanno fatto loro. Mi hanno ucciso di nuovo quando sono andato a chiedere il loro aiuto”.

il manifesto 13.5.18
Igino, un’enciclopedia del Mito per la rifondazione augustea
Letteratura latina. A Gaio Giulio Igino, un grammatico d’origine iberica, Augusto aveva affidato la direzione della Biblioteca Palatina. Le sue «Fabulae» rivivono in un’edizione a cura di Fabio Gasti, per la Rusconi Libri
di Francesco Massa


«Roma è un luogo di incontro degno per tutte le divinità». Così si esprime – nella rappresentazione poetica dei Fasti di Ovidio (IV, 270) – la dea Cibele, la grande Madre degli dèi, sul punto di lasciare le coste dell’Asia Minore per recarsi nella capitale dell’impero, dove il suo culto sarà integrato nel pantheon romano. La rappresentazione di Roma come città-mondo e come microcosmo in cui confluiscono senza interruzione uomini, donne, costumi e pratiche provenienti da ogni parte del mondo abitato, si diffonde negli autori dell’età augustea e segnerà gran parte della produzione letteraria imperiale. Dopo un ventennio di sanguinose guerre civili che avevano opposto Cesare e Pompeo, prima, e Antonio e Ottaviano, poi, la propaganda ufficiale celebrava l’età augustea come un’epoca di pace e di rifondazione. Una rifondazione che perseguiva l’obiettivo di riformare vari aspetti della vita di Roma e dei territori in cui si estendeva il suo dominio e che concentrava i suoi sforzi in particolare sulle riforme delle istituzioni politiche e sul riassetto urbanistico della capitale. Ciò non significa, certo, che le tensioni interne si fossero definitivamente sopite, ma la superficie che la propaganda imperiale presenta è apparentemente liscia e priva di venature. I versi dei Fasti di Ovidio, che ripercorrono le festività religiose del calendario romano raccontandone le origini, si inscrivono in questo nuovo progetto culturale e politico.
La direzione della Palatina
In questi anni di pacificazione e di profonda riorganizzazione dell’imperium di Roma, Augusto aveva affidato a Gaio Giulio Igino la direzione della Biblioteca Palatina, fatta costruire nel 28 a.C., dunque all’inizio del principato augusteo, in prossimità del tempio di Apollo, sul colle che ospitava le dimore delle famiglie patrizie e dello stesso Augusto. A questo Igino, grammatico di origine iberica, allievo dello storico greco Alessandro Poliistore e amico del poeta Ovidio, la critica attribuisce – anche se non all’unanimità – la paternità di una sorta di manuale di mitologia, le Fabulae, di cui Rusconi Libri pubblica una nuova edizione a cura di Fabio Gasti, Miti del mondo classico (testo latino a fronte, pp. 464, € 28,00). Il volume inaugura una nuova collana di classici greci e latini diretta da Anna Giordano Rampioni e destinata non soltanto agli specialisti, ma anche e soprattutto «ai giovani, curiosi dell’antico» poiché, come sosteneva Mario Vegetti, citato nella presentazione della collana, «l’accesso alle culture antiche è un diritto».
Tutti i testi del mondo greco e romano – che leggiamo ancora oggi – portano spesso, nelle loro pagine, i segni del lungo percorso che hanno compiuto per giungere fino a noi, un cammino fatto di trascrizioni, copie, alterazioni, iniziato nell’antichità e mai veramente concluso. Per le Fabulae di Igino, solo due passi sono stati trasmessi dalla tradizione manoscritta, mentre conosciamo una parziale traduzione in greco attribuita al grammatico latino Dositeo, databile all’inizio del III sec. d.C., che testimonia peraltro il successo conosciuto dall’opera anche nel mondo culturale ellenofono. Il testo di Igino, così come lo possiamo leggere oggi, invece, deriva dalla prima edizione a stampa, pubblicata a Basilea nel 1535 dall’umanista tedesco Jakob Möltzer che si era basato sul testo di un manoscritto lacunoso e in alcuni punti illeggibile, oggi andato perso. Il titolo Fabulae deriva proprio da questa edizione cinquecentesca: il termine rimanda alla radice del verbo latino fari – «dire», «raccontare» –, che rappresenta quindi il corrispettivo perfetto della parola greca mythos. L’opera è composta da due sezioni diverse: la prima presenta una teogonia, declinata come una lista di divinità e inaugurata, come quella esiodea, da Caos; la seconda contiene una raccolta di 277 racconti mitici che ricostruiscono gli episodi principali delle grandi saghe mitologiche antiche, ma che hanno il vantaggio di poter essere letti anche singolarmente. Anche in questa seconda parte, l’esposizione dei miti si fonda, prima di tutto, su un aspetto genealogico: «Atamante, figlio di Eolo», così ha inizio la Fabula 1. Il legame familiare è il primo aspetto che Igino sceglie di evidenziare nella costruzione della sua ‘enciclopedia’. Le strutture di dipendenza familiare possono essere espresse tanto attraverso una parentela genealogica, quanto attraverso le politiche matrimoniali. Accanto a questi aspetti, poi, Igino sceglie di dare ampio rilievo alla prossimità geografica dei miti che racconta al suo pubblico. La cartografia genealogica e geografica si presenta dunque come la cifra specifica della raccolta.
Igino è stato spesso considerato modello per eccellenza della tradizione mitografica latina, così come Apollodoro lo è stato di quella greca. Ci si può chiedere che senso abbia l’operazione di Igino negli anni della pax Romana garantita da Augusto e in che modo le Fabulae si inseriscano nel disegno di più ampio della propaganda augustea. È possibile, infatti, che il concepimento di questa raccolta sulle tradizioni mitiche del mondo antico risponda anche a un segno dei tempi: ripensare e riorganizzare il patrimonio mitico, è anche questo un modo – colto ed erudito – di partecipare alla rifondazione cantata dalla propaganda augustea?
Innumerevoli versioni letterarie
La pubblicazione, oggi, delle Fabulae ha il merito di portare all’attenzione di un pubblico più ampio, e non solo degli specialisti, le ricerche recenti sulla mitografia. Gli studiosi concordano sul fatto che i «miti» non esistono al di fuori delle loro innumerevoli versioni letterarie o iconografiche. In questo senso, le raccolte mitografiche prodotte nell’Antichità e che tanto hanno influenzato la nostra maniera di intendere la mitologia – basti pensare al ruolo di Igino e Apollodoro nella stesura dei vari Dizionari di mitologia –, non devono essere considerate delle mere compilazioni: ogni testo mitografico è il risultato di scelte autoriali precise che hanno adattato, organizzato, selezionato i racconti mitici, secondo una logica ben precisa. Da questo punto di vista, i mitografi, così come i poeti (e si pensi anche solo alle Metamorfosi di Ovidio, per restare nello stesso contesto culturale), utilizzano i racconti mitici con uno scopo ben preciso e sono detentori di un sapere specifico, dotato di regole e strategie retoriche proprie. Il caso delle Fabulae di Igino non è diverso: Gasti rileva, nel suo saggio introduttivo, come il testo fosse pensato per un ambito scolastico, con l’obiettivo non solo di fornire agli studenti una competenza mitologica, ma anche di proporre loro un esercizio nella traduzione dal latino. Il ricco apparato di note di questa nuova edizione della Rusconi Libri restituisce la complessità della struttura e dell’erudizione delle Fabulae.
Tre motivi sono individuati dal curatore per motivare l’importanza di questo rinnovato interesse nei confronti di Igino. Il primo è prettamente scolastico, poiché Igino fa parte di quegli autori considerati «facili» che hanno un posto garantito nelle antologie delle scuole: leggere e tradurre le Fabulae permette agli studenti di «estendere le competenze linguistiche e storico-letterarie in direzioni di altri autori e di altre storie mitologiche» (p. xxxv). Il secondo è più specificatamente filologico, poiché il testo di Igino è un banco di prova utile per interrogarsi sulla storia della trasmissione dei testi antichi che non ci sono pervenuti senza percorsi accidentati. Il terzo e ultimo è l’interesse dell’opera come strumento di riflessione sulle molteplici versioni dei racconti mitici antichi, di cui Igino è talvolta l’unico testimone.
Lo studio dei mitografi antichi non è solo un vezzo da eruditi. Questi testi hanno conosciuto una circolazione importante e vasta non solo nei secoli dell’Antichità, ma anche e soprattutto nel Rinascimento e nel mondo moderno. Autori come Igino, Apollodoro, Antonino Liberale – fra gli altri – hanno costituito, e continuano a essere, una fonte essenziale per la conoscenza e la comprensione della mitologia greca e romana.

Corriere La Lettura 13.5.18
Il tredicesimo apostolo
Agiografia. La Chiesa cattolica elebra il 14 Maggio SanMattia, il discepolo sorteggiato per sostituire il traditore Giuda tra i Doici e ricostituire il collegio apostolico
Una sola citazione nel Nuovo Testamento, ma una ricca aneddotica successiva
di Marco Rizzi


L’elezione di Mattia nel gruppo dei Dodici in sostituzione di Giuda, il traditore, è narrata da Luca nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli; precede cioè la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti nel Cenacolo, riportata nel capitolo successivo. La notazione è importante, perché aiuta a comprendere le modalità con cui avvenne la scelta: si tratta infatti dell’unico episodio di sorteggio ricordato nel Nuovo Testamento e più specificamente negli Atti degli Apostoli. In altri casi, ad esempio per la designazione dei sette diaconi destinati al servizio dei poveri, citata nel sesto capitolo, o per l’elezione dei missionari da inviare in alcune province dei capitoli tredicesimo e sedicesimo, Luca si limita a ricordare l’imposizione delle mani da parte degli Apostoli, a conferma di decisioni prese di comune accordo, dato che dopo la Pentecoste lo Spirito Santo abitava ormai stabilmente il gruppo dei seguaci di Gesù.
Invece, la scelta di Mattia, celebrato come santo dalla Chiesa cattolica il 14 maggio, si colloca nell’intervallo di tempo tra la presenza di Cristo sulla terra, terminata con l’Ascensione, e la discesa dello Spirito: non poteva quindi essere ricondotta in nessun modo a Gesù, né il gruppo dei Dodici — più precisamente degli undici — poteva vantare in quel momento l’autorità necessaria per una simile decisione. Al contrario, il ricorso al sorteggio era prassi comune nell’ebraismo, in quanto l’esito era ritenuto opera di Dio stesso, come afferma il Libro dei Proverbi: «Nel grembo si getta la sorte, ma la decisione dipende tutta dal Signore». La procedura compare spesso nell’Antico Testamento, ad esempio per la nomina dei sacerdoti al servizio del tempio o per selezionare i capri da sacrificare nel giorno dell’espiazione (il cosiddetto «capro espiatorio»); pure Giona fu estratto a sorte per essere gettato in mare e placare la tempesta. Non è quindi necessario ipotizzare un influsso delle pratiche di Greci e Romani, che ricorrevano al sorteggio per l’elezione ad alcune cariche politiche.
Come che sia, nel caso di Mattia il sorteggio sembra rovesciare le previsioni: infatti, l’ordine e il modo con cui sono presentati i due candidati a sostituire Giuda non è casuale. Negli elenchi che compaiono negli scritti biblici, il primo posto costituisce una posizione di riguardo; inoltre, dell’altro candidato, Giuseppe, vengono riportati il patronimico, Barsabba («Figlio di Saba») e un soprannome, «Giusto», che lo qualifica in modo decisamente positivo. Di Mattia, invece, è ricordato solo il nome. Si può quindi ipotizzare che l’ordine dei nomi riflettesse anche le preferenze di chi li aveva proposti, ovvero il gruppo dei circa centoventi fratelli citati da Luca, dinanzi a cui Pietro aveva espresso la necessità di sostituire Giuda. In quello stesso discorso, troviamo qualche brandello di informazione su Giuseppe e Mattia; Pietro afferma che il sostituto di Giuda doveva aver fatto parte del gruppo allargato di coloro che avevano seguito Gesù insieme ai Dodici «per tutto il tempo che va dal battesimo da parte di Giovanni sino al giorno in cui Cristo è stato assunto in cielo».
Dopo l’episodio dell’elezione, né gli Atti, né gli altri scritti neotestamentari menzionano ulteriormente i due. Gli scrittori cristiani successivi, però, non hanno mancato di interessarsi a Mattia; nelle loro opere si intrecciano dati che rivelano un possibile retroterra storico e altri invece di chiaro sapore leggendario, o quantomeno problematico. All’inizio del IV secolo, Eusebio di Cesarea, autore della prima storia della Chiesa, riteneva che Mattia facesse parte del gruppo dei settantadue discepoli inviati da Gesù in missione, secondo il racconto del Vangelo di Luca al capitolo decimo. Probabilmente, in quella circostanza doveva essersi distinto, così da poter essere proposto in seguito come sostituto di Giuda nel «collegio apostolico». Un secolo prima di Eusebio, Clemente di Alessandria d’Egitto identificava Mattia con Zaccheo, il pubblicano di bassa statura che si era arrampicato sull’albero per vedere Gesù, sempre nel racconto del Vangelo di Luca. Nel II secolo, invece, il romanzo dello Pseudo-Clemente fa coincidere la sua figura con quella di Barnaba, il compagno di Paolo nell’attività missionaria. Ma difficilmente, se fosse stata vera, l’autore degli Atti degli Apostoli non avrebbe menzionato l’una o l’altra identificazione.
Si può ritenere che Mattia abbia ottemperato al mandato ricevuto al momento dell’elezione di «essere testimone della resurrezione di Cristo» insieme agli Apostoli. Ciò avrà comportato una intensa attività di predicazione, che deve essersi svolta nel contesto palestinese o poco lontano. Le notizie relative alla sua morte, infatti, la collocano in Palestina o in Etiopia, che nel mondo antico corrispondeva all’area indefinita che si affaccia sul Mar Rosso. In ogni caso è da escludere una missione verso la Grecia o l’Asia Minore accanto a Paolo. Secondo Niceforo, uno storico della Chiesa di epoca bizantina che però fa uso di fonti precedenti, Mattia sarebbe morto martire in Etiopia, mentre per altri sarebbe stato lapidato dagli Ebrei a Cesarea di Palestina, anche se il colpo decisivo gli sarebbe stato inferto dall’ascia di un soldato romano. Per questo, il suo attributo iconografico è la scure; il che lo ha reso patrono dei macellai e degli ingegneri (che non siamo soliti associare alle armi da taglio, ma nel mondo antico la scure rappresentava un accessorio indispensabile per qualsiasi costruttore). Va però tenuta presente la tendenza delle fonti posteriori a fare di tutti gli apostoli dei martiri, come nel caso di Giovanni, che le testimonianze più antiche fanno morire ad Efeso in tarda età, mentre nel Medioevo si diffuse la leggenda della sua morte in un pentolone di olio bollente (perciò è il santo da invocare in caso di scottature).
Secondo l’eretico gnostico Eracleone, Mattia sarebbe invece morto di morte naturale in Egitto, non senza avere fissato il suo insegnamento in alcune opere, tra cui un Vangelo apocrifo e un altro scritto intitolato Le tradizioni. Insegnamento fatto di brevi e incisive frasi, sull’esempio delle raccolte dei detti di Gesù, del tipo: «Combattere la carne e maltrattarla, senza concedere nessuna licenza al piacere, per accrescere l’anima mediante fede e conoscenza». Proprio lo stile espressivo favorì la fama di Mattia presso i circoli eterodossi e gnostici di ambito egiziano, quale portatore di una rivelazione particolare da parte di Cristo, successiva alla sua elezione, un po’ come accaduto a Paolo al momento della conversione e immediatamente dopo. Per questo motivo, l’eretico Basilide si vantava di aver fatto suo l’insegnamento di Mattia.
Le testimonianze più antiche convergono dunque nel collegare all’Egitto la figura del discepolo sorteggiato. Non è quindi un caso che la Chiesa copta conservi l’antica prassi di scegliere il proprio Papa tramite sorteggio fra tre nomi frutto di una procedura che culmina in una votazione da parte di un’assemblea composta da tutti i vescovi della Chiesa copta e dai rappresentanti, anche laici, delle varie diocesi in Egitto e ora anche nel resto del mondo. Le reliquie di Mattia sono però conservate nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, nella basilica di Santa Giustina a Padova e nella cattedrale di Treviri.

il manifesto 13.5.18
Suprematismo, scuola di provincia
A Parigi, Centre Pompidou, "Chagall, Lissitzky, Malévitch… L’avant-garde russe a Vitebsk, 1918-1922". In mostra il cruciale incontro-scontro, nella cittadina della periferia russa, tra Chagall da una parte, Malévitch e Lissitsky dall’altra, tutti impegnati come insegnanti
di Davide Racca


PARIGI Nel novembre 1919 Kasimir Malévitch si lascia alle spalle Mosca, esacerbata dalla guerra civile, per raggiungere la più tranquilla città di provincia di Vitebsk, all’epoca periferia della Federezione Russa, oggi in area bielorussa. Ad attenderlo c’è un atelier e le iscrizioni aperte al suo nuovo corso di pittura presso la Scuola Popolare d’Arte da un anno inaugurata e diretta da Marc Chagall. Il trait d’union tra Malévitch e Chagall è l’artista, architetto di formazione, Lazar Lissitzky (detto El Lissitzky), che è impegnato a insegnare architettura, disegno e stampa nella stessa scuola. Benché influenzato della poetica chagalliana, Lissitzky è da tempo interessato al lavoro di Malévitch, con cui intrattiene una fitta corrispondenza già da diversi mesi. Lo incontra a Mosca, in missione per recuperare dei materiali didattici. Malévitch versa in condizioni difficili, vive in una dacia non riscaldata fuori della capitale che può raggiungere solo a piedi. La moglie è incinta ma anche l’astrazione pura suprematista è gravida di futuro. Lissitzky lo invita a raggiungere la più tranquilla e meglio vettovagliata città di provincia, dove la neonata Scuola di Chagall, aperta a tutti i fronti dell’arte, è pronta ad accoglierlo. Malévitch si lascia convincere e con la moglie segue Lissitzky che si offre di aiutarli nel penoso ma necessario trasbordo.
Ad attendere il maestro suprematista non è tanto il lavoro al cavalletto, quanto l’elaborazione didattica e teorica della nuova prassi artistica forte degli esiti astratti raggiunti e dell’esperienza a Mosca come professore di pittura presso il Secondo Atelier Nazionale d’Arte Libera. Ben accolto a Vitebsk, già nell’autunno del 1919, insieme all’attività di divulgazione e di didattica Malévitch prepara la sua prima esposizione personale che vedrà la luce nel marzo del 1920 sotto il titolo: Kasimir Malévitch: il suo percorso dall’impressionismo al suprematismo. L’artista fa un bilancio della sua carriera dove mostra come dalla figurazione «per impressioni» delle prime opere, alle tele alogiche e neoprimitiviste dal lucido taglio razionale, sia passato alla frammentazione cubista e cubo-futurista, per arrivare alla forma pura e senza oggetto del suprematismo. Quest’ultimo viene presentato nelle sue tre tappe fondamentali: nero-e-bianco, colore, bianco-su-bianco. Ma l’autopresentazione si mostra ancora più escatologica e radicale nell’ultima opera esposta, che si dà assolutamente bianca, vuota. Malévitch parla della fine della pittura.
Convinto delle solide fondamenta estetiche del suo sistema artistico, che principia con il grado zero della forma (il Quadrato nero), sempre nel 1920 Malévitch, non senza accenti di esaltazione, scrive al critico moscovita Pavel Ettinger: «Il suprematismo è giunto al senza-oggetto per costruire un nuovo mondo fatto di spirito e prassi. Possiamo creare a tale proposito una formidabile storia, e dovremo farlo, perché contiene in sé lo sviluppo del Nuovo Testamento del mondo». Questa affermazione tasta il polso del clima rivoluzionario, utopico e mitopoietico che attraversa non solo il maestro ma anche altri professori delle Scuola di Chagall, come Lissitzky, Vera Ermolaeva, Nina Kogan, e lo scultore David Iakerson, che insieme ai loro allievi formano il collettivo denominato Outverditeli novogo iskousstva (Assertori del nuovo in arte) abbreviato in Ounovis. Nella Scuola viene creata una classe unificata del collettivo, dove si discute del nuovo modo di creare forme inedite attraverso l’assimilazione dei fondamenti della realtà fisica: lo spazio, il piano, la linea, il colore, il volume e il peso. Metodi precisi, rigorose impostazioni didattiche, ragionamenti sui movimenti rivoluzionari in arte e voglia di invadere tutti gli spazi della vita sociale, fanno di questo collettivo un grande attrattore di studenti, che poco alla volta lasciano i corsi di Chagall.
La «rivoluzione» di Malévitch mette nell’angolo, fino a estrometterla, la «rivoluzione» di Chagall a Vitebsk. Quest’ultimo guarderà sempre con rancore a Malévitch, e considererà Lissitzky alla stregua di un traditore, sospettando entrambi di aver manipolato gli studenti della Scuola. Scuola che dopo la dipartita per Mosca di Chagall, avvenuta nel giugno del 1920, cambia nome in Atelier d’Arte Superiore Nazionale di Vitebsk. Tuttavia resta vero che Chagall, durante la sua direzione, aveva fatto diversi tentativi di abbandonare gli obblighi burocratici per dedicarsi interamente alla sua arte. Tentativi più volte ostacolati dagli stessi studenti che poi sposeranno le tesi malevitchiane. Ma in fondo quanto accaduto è ampiamente giustificato dalla libertà di iscrizione ai corsi da parte degli allievi e dal complessivo fermento artistico rivoluzionario nella Russia di allora, non ancora sedimentato nel rigido realismo sociale come unica arte conforme al potere. Inoltre la sete di riconoscimenti ufficiali e la lotta per l’egemonia culturale sono da sempre stati dei fattori impliciti delle avanguardie artistiche. La programmaticità di Malévitch e dell’Ounovis, che ripensa radicalmente il rapporto con il passato e si proietta nel futuro attraverso una pratica collettiva di cambiamento del mondo, non può che trovare più consenso rispetto a un lavoro, quello di Chagall, che invece agisce sulla sfera individuale, sognante, metaforica, anche se teso a riconoscere pari dignità a tutte le manifestazioni d’arte.
Nelle sue memorie, redatte in età avanzata, Chagall ritornerà ancora su quell’esperienza, e rivolto al collettivo Ounovis scrive: «Io commissario per le Belle Arti della provincia di Vitebsk, direttore e professore dell’Accademia, dicevo loro che un quadrato su tela è un oggetto al pari di una sedia e di un comodino. Pensavano di impadronirsi della mia accademia e dei miei studenti, e che un quadrato nero potesse essere un simbolo di vittoria… Ma una vittoria su cosa? Nel quadrato nero sul fondo miserabile della tela, io non vedevo assolutamente l’incantesimo dei colori». Attento ai nuovi linguaggi artistici, ma sempre pronto a rielaborarli nel suo personale basculamento onirico, Chagall in quel semplice quadrato non vede che una sterile astrazione. Ed è proprio qui che in fondo giace la radicale differenza tra la poetica figurativa di Chagall e il puro razionalismo tendente alla mistica di Malévitch. Tra i due è impensabile un compromesso.
Sotto la direzione di Angela Lampe, il Centre Pompidou di Parigi oggi ci racconta di queste dinamiche di avanguardia ma anche delle straordinarie elaborazioni artistiche di insegnanti e allievi avvenute nel breve volgere di un quadriennio in quella piccola realtà di provincia. Attraverso la mostra Chagall, Lissitzky, Malévitch… L’avant-garde russe a Vitebsk, 1918-1922 (catalogo Centre Pompidou, pp. 288, € 45,00), aperta fino al 16 giugno prossimo, una raccolta di duecentocinquanta opere e documenti dal valore altamente scientifico testimonia di un importante capitolo della storia dell’arte scritto al di fuori dalle grandi metropoli. Chagall, che dopo i successi di Parigi rientra nella natia Vitebsk per sposare Bella Rosenfeld, intraprende un’impresa plurale, che a differenza della fusione delle arti pensata nella coeva esperienza del Bauhaus di Gropius a Weimar, vuole aprire l’insegnamento di tutte le arti, anche le più contrastanti tra loro. «Noi possiamo permetterci il lusso di giocare col fuoco», ha detto in uno dei primi discorsi di inaugurazione accademica. E con quel «lusso» Chagall si è bruciato, per poi continuare il suo «gioco» altrove… lontano da Vitebsk.

Corriere 13.5.18
Cannes 2018 Al Festival gli echi del caso Weinstein e le discriminazioni nel cinema
La marcia delle donne
Blanchett guida la protesta per la parità
Sfilano sul tappeto rosso 82 attrici e registe
prima del film sulle combattenti curde
di Valerio Cappelli


Cannes La giornata delle combattenti, un momento storico per le donne, propiziato dall’onda di rabbia e dalla voglia di cambiamento dopo lo scandalo Weinstein, l’orco di Hollywood che riceveva le attrici in accappatoio. La regista francese Eva Husson suona la carica sul tappeto rosso con un agguerrito e nutrito «battaglione» al femminile capeggiato dalla fascinosa presidente di giuria Cate Blanchett, che rompe la diga dell’imparzialità del suo ruolo, benché qui sposi una causa più che un film in gara, e afferma: «Le donne non sono minoritarie nel mondo eppure la nostra industria dice il contrario».
Les Filles du Soleil è il film sulle soldatesse curde che assurge a simbolo del vulcano esploso. Ecco che sfilano 82 donne del cinema: parità, dignità, rispetto; sono 82 come le registe che il Festival ha ospitato nei suoi 71 anni, contro 1645 registi. La Palma d’oro è andata una sola volta a una donna: Jane Campion con Lezioni di piano nel ’93. Tanto che un giornale della Costa azzurra si chiede: ma che problema ha Cannes con le donne?
In prima fila, seguite da centinaia di persone arrampicate sulle scale, ci sono tra le altre Claudia Cardinale con tutta la fierezza delle sue rughe, e l’icona del cinema francese Agnès Varda, 89 anni, che prende la parola e veloce come un proiettile rivendica «l’eguaglianza salariale e la trasparenza istituzionale»; ecco le giurate Léa Seydoux (ha denunciato anche lei gli abusi di Weinstein, come la Blanchett) e Kristen Stewart, orgogliosa della sua libertà d’amare donne e uomini. E poi Marion Cotillard, amatissima a Cannes, presente per la nona volta al Festival; Salma Hayek, glamour e impegno, tra le poche latine ad aver conquistato Hollywood, attrice di blockbuster, produttrice di film intellettuali; ecco la nostra Jasmine Trinca tra le attiviste di «Dissenso Comune» e le due protagoniste del film, Emmanuelle Bercot e la dissidente iraniana Golshifteh Farahani.
Al suo debutto assoluto a Cannes, Eva Husson non ha peccati originali ma coscienze da svegliare: il suo film è la «wake-up call del post-femminismo», ora che il produttore polipo con le mani fuori posto sembra aver messo gli uomini nel genere sbagliato. Sono i mesi della rabbia, per un po’ di equilibrio serve tempo. Eva riassume il suo film nelle tre parole che sono il canto di battaglia curda «Donne, vita, libertà».
Nel 2014 i fanatici dell’Isis valicano le montagne aride a Nord dell’Iraq e entrano nel territorio Yazidi, territorio strategico. Oltre 7000 tra donne e bambine vengono raccolte, diventano merce di scambio sessuale. Le «Ragazze del sole» si preparano a liberare il villaggio natale dalle mani dei terroristi: «Loro ci rapiscono, noi li uccidiamo». La Husson è nipote di un soldato della Spagna repubblicana anti-franchista, «e sono interessata al concetto di ideali perduti. Il cinema racconta la violenza contro le donne con occhio voyeurista, e qualche volta indulge nel vittimismo. Ho cercato di starne alla larga. Non sono uno strumento di propaganda. Le donne non vanno definite dalla violenza di cui hanno sofferto».
Ma al Festival troviamo altre declinazioni al femminile. Se il cinema intercetta la realtà, c’è poco da stare allegri. Marion Cotillard in Faccia d’angelo ha una figlia bambina e si perde in notti di eccessi e vecchi démoni; Egy Nap è un «thriller matrimoniale» ungherese sulle difficoltà e la bellezza di crescere figli quando si è sole; Agnieszka Smocznynska in Fuga si ispira alla vera storia di una donna che in Polonia ha dimenticato famiglia, figlio e identità, «diventando una persona completamente diversa quando è rimasta da sola»; Alba Rohrwacher in Troppa grazia cresce il figlio da sola. La fatica di essere madri (single).
Il Fattore D irrompe al Festival: il numero anti-molestie; un incontro con il ministro della Cultura francese Francoise Nyssen per strategie comuni dei vari movimenti; il gala di beneficenza AmFar del 17 contro l’Aids presieduto da 25 donne. Tra 21 film in gara, 3 sono di registe donne. «Punteremo su ciò che resterà nella memoria degli spettatori», dice Cate Blanchett. Ma l’effetto Weinstein peserà sul verdetto. A volte non servono proclami, basta una parola al momento giusto. Alla serata d’apertura Cate ha esordito così: «Madame, madame, madame. Madame et monsieur».

Il Fatto 13.5.18
“2001 Odissea nello spazio” atterra a Cannes
Restauri - Nel 1968 Kubrick si tenne alla larga. In sala due di Ingmar Bergman per i 100 anni
di Federico Pontiggia


Nemo capolavoro in patria, nemmeno 2001: Odissea nello spazio. All’anteprima newyorkese di 50 anni fa, ricorda il protagonista Keir Dullea, se ne andarono 250 persone; a quella losangelina, levò le tende anzitempo Rock Hudson, non senza lasciarsi sfuggire una recensione-lampo: “Ma che è ‘sta stronzata?”.
Non furono da meno i critici, a tal punto da meritarsi il rimbrotto di Stanley Kubrick: “Atei e materialisti dogmatici, terra-terra”. Tutto rotola, tranne le pietre miliari. 2001 arriva solo oggi a Cannes: nel 1968 si tenne alla larga, eppure se fosse più rivoluzionario quel Maggio francese o questa insuperata fantascienza è tutto da vedere. Qui, e il 4 e 5 giugno nelle sale italiane, lo vediamo nel formato 70mm Super Panavision e nella versione di 140 minuti, dai 162 iniziali, che Kubrick approntò dopo le prime recensioni negative: Warner Bros. ha desunto una copia in 70mm dal negativo originale, senza ritocchi digitali né modifiche al montaggio. Non è dunque un restauro, bensì un ritorno al futuro: vediamo come allora, eppure stavolta nessuno se ne andrà. Dal monolite alle scimmie, dal computer Hal 9000 allo Star-Child, l’abbiamo introiettato: non è più un film, 2001, siamo noi. Al Palais si attendono code infinite, già ieri è stato invaso per la masterclass di un applauditissimo Christopher Nolan, che ha collaborato alla masterizzazione e oggi introdurrà la proiezione: “Lo vidi a set anni con papà, iniziò per me un viaggio che non è mai terminato. Mi ha insegnato che non ci sono limiti, che i film possono essere tutto”. La figlia Christiane dice che “se fosse ancora tra noi, Stanley ammirerebbe il cinema di Chris”, di certo, sull’equivalenza Nolan = Kubrick Warner punta, e ci marcia, parecchio. Che il regista inglese sia bravo è incontrovertibile, che non sia Kubrick altrettanto: per ora sta al maestro come Interstellar sta a 2001. Seppure tecnicamente non lo sia, nondimeno Odissea nello spazio testimonia la fortuna crescente dei restauri, che Cannes raggruppa nella sezione Classics, unitamente ai documentari sui maestri, quest’anno Orson Welles e Ingmar Bergman (due, nel centenario della nascita).
Ritirato a lucido dalla Cineteca di Bologna, c’è il 70enne Ladri di biciclette. Venendo al qui e ora, registe e attrici sfilano sul tapis rouge di Les filles du soleil sull’onda del #metoo e del Time’s Up con Cate Blanchett e Agnès Varda per paladine, mentre in Concorso si fa apprezzare con qualche riserva Ash Is Purest White. Jia Zhang-ke continua ad affondare la camera nella Cina oggi: modificazioni antropologiche e sociali, cambiamenti industriali e perfino idro e orografici, il capitalismo è onnipotente, i codici d’onore non tengono più, e nemmeno le storie d’amore. Sempre per la Palma oggi passa Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, mentre al Marché si annuncia un altro dittico su Berlusconi: La marchesa, basato sul libro del 2011 di Luca Telese La marchesa, la villa e il cavaliere.
Una storia di sesso e potere da Arcore ad hardcore. Capitali americani, focus sulla marchesa Casati Stampa e la compravendita di Villa San Martino, per il produttore Steve Jones “si vede come tra politici e celebrità nessuno sia davvero irreprensibile”. Sorprende, infine, Jean-Luc Godard che dal buen retiro svizzero si collega via Facetime per rispondere alle domande dei giornalisti sul suo Livre d’image: “Il cinema è come la Catalogna, ha difficoltà ad esistere”, “Più che la politica mi interessano i fatti”, “I giovani non dovrebbero mai smettere di immaginare”.