Corriere La Lettura 6.5.18
Visioni Narra aborigeni e armeni,
chi fu discriminato in passato. E oggi vuole essere accessibile a ogni
ospite. Parla l’ideatore
Il museo canadese che include tutte le diversità
di Michela Rovelli
Non
ci sono scale, solo lunghe rampe in alabastro che portano i visitatori
dall’oscurità del piano sotterraneo, incastonato tra quattro blocchi di
pietra, fino alla sommità dell’alta torre panoramica. Ad ogni piano,
sulle porte dei servizi igienici, nessuna indicazione a parte la scritta
«toilet». Non ci sono bagni per uomini o per donne. Solo bagni.
Neutrali. Il più grande esperimento di inclusive design (design
inclusivo) si trova nel cuore del Canada, a Winnipeg, cittadina a un
centinaio di chilometri dal confine con gli Stati Uniti. All’interno del
Canadian Museum for Human Rights (Museo canadese per i diritti umani),
inaugurato nel 2014, tutto è studiato affinché l’esperienza di visita
sia fruibile nello stesso modo da qualunque utente. Azzerando ogni
barriera. Un ambiente innovativo, dove si genera un flusso continuo tra
reale e digitale.
«Non è solo un approccio tecnico, alla base c’è
una concezione più ampia: creare un luogo di cui tutti si sentano
parte», spiega Corey Timpson, vicepresidente dell’area mostre, ricerca e
progettazione del museo fino allo scorso 28 marzo. Il designer sarà
ospite di Meet the Media Guru. Il 16 maggio alla Triennale di Milano
racconterà come ha superato quella che definisce «la più grande sfida di
design della mia vita» e come è diventato uno dei massimi esperti di
inclusive design, adesso consulente per diversi progetti. «È
un’evoluzione del cosiddetto universal design — spiega —. Lo scopo è
raggiungere la totale accessibilità, in tutte le declinazioni. Non ci si
riferisce solo alle disabilità fisiche o mentali, ma anche
linguistiche, culturali o dal punto di vista del gender». Per ottenerla,
ci si affida anche alla tecnologia: «È uno mezzo potente che a volte
però è usato con timidezza. I musei raccontano storie, devono aiutare a
imparare. E la tecnologia può veicolare il messaggio in modo che abbia
più impatto. Spesso invece se ne abusa o, al contrario, è sfruttata in
modo superficiale».
Nel Canadian Museum for Human Rights il
percorso su 6 livelli, diviso in 11 gallerie, è disseminato di 120
iBeacon: piccoli trasmettitori radio che inviano allo smartphone,
tramite Bluetooth, informazioni sulle esposizioni. L’utente può fruirle
nelle due lingue ufficiali canadesi, inglese e francese, o nel
linguaggio dei segni. Gli iBeacon sono inseriti negli Universal Access
Points, dispositivi fisici, accanto a ogni opera, dove si accede anche
al codice braille. Ci sono i touch screen, e pure le Universal Keypad,
tastiere che rispondono ai comandi sia gestuali sia vocali. Grazie al
jack audio, si possono collegare gli auricolari e ascoltare la
spiegazione. «Inclusive» sono pure le grafiche che accompagnano la
mostra: carattere, colore e proporzione delle scritte sono studiati
perché siano il più possibile leggibili.
L’innovazione culturale è
fondamentale: «La tecnologia si presta come grande strumento di
facilitazione — spiega Timpson — permette di raggiungere la piena
interattività. Non solo schiacciare un bottone e far partire un
contenuto digitale. Interattività significa creare un dialogo vero, in
modo più semplice». È questo l’obiettivo del progetto, nato dalla mente
dell’imprenditore e filantropo canadese Israel Asper e portato avanti,
dopo la sua morte, dalla famiglia. Il primo museo nazionale costruito in
Canada dal 1967. Timpson ha partecipato sin dagli inizi, nel 2007: «Per
creare un luogo di inclusive design non c’era niente di meglio. Ho
avuto carta bianca. Pianificare un’intera struttura con questa filosofia
ha dei vantaggi. Permette di raggiungere la più ampia accessibilità a
partire anche solo dall’estetica».
Il luogo è nato per i diritti
umani. Che non solo racconta, ma promuove. «Qui non ci sono oggetti, ma
storie intangibili — aggiunge il designer —. Non è una raccolta del
passato, è in divenire». Si torna indietro all’Olocausto e al genocidio
degli armeni, si affronta il tema della discriminazione e della
condizione degli aborigeni canadesi. Un percorso che parte
dall’oscurità, dai drammi più profondi della storia umana. Le rampe pian
piano salgono verso la luce — naturale, entra dalle pareti trasparenti —
per raggiungere metaforicamente la consapevolezza di ciò che ciascuno
di noi può fare per ispirare il cambiamento. «La difficoltà sta nel
fornire gli strumenti per interpretare le storie. Senza prendere
posizione. E lasciando sempre un barlume di speranza». Una concezione
innovativa dello spazio museale, che Timpson promuove: «A giudicare
dall’attenzione che ha avuto, è la giusta strada. C’è stato un processo
di sofisticazione nel modo di passare il tempo libero. Le aspettative
sono cresciute, anche per i luoghi culturali serve più impegno. Alla
base deve esserci un dialogo». Dal museo al visitatore. E viceversa.