Corriere La Lettura 20.5.18
Il razzismo uccide il welfare
Quale destino per lo Stato sociale?
I partiti xenofobi sono una minaccia: difendono in modo cieco uno status quo che non può durare
conversazione di Maurizio Ferrera con Ellen Immergut
Negli
ultimi quattro anni Ellen Immergut ha coordinato il progetto di ricerca
europeo forse più ampio e ambizioso sul welfare. Il titolo è Welfare
State Futures e in un certo senso contiene già un messaggio: gli scenari
possibili sono tanti, nessuno è predeterminato, ci sono margini di
scelta. Le chiediamo innanzitutto se tra i futuri possibili c’è anche la
fine del welfare, o quanto meno l’estinzione dell’impegno pubblico su
questo fronte.
ELLEN IMMERGUT — Il welfare state è una delle
istituzioni chiave per la promozione della solidarietà. Le sue politiche
hanno praticamente eliminato la povertà fra gli anziani. Le persone
tendono a dimenticare com’era la situazione negli anni Trenta e
Quaranta. In tutta Europa, l’assistenza sanitaria è ormai universale e
di buona qualità. Esistono ovunque reti di sicurezza di base per
disoccupazione, invalidità, indigenza estrema. Il punto di partenza deve
quindi essere il riconoscimento di un grande successo europeo. E la
stragrande maggioranza degli europei concorda (molto più che gli
americani o i giapponesi) sul fatto che sia compito dello Stato
occuparsi degli anziani e delle persone malate o invalide. Oggi però
tendiamo a dare le realizzazioni del welfare per scontate. Così le
persone iniziano a chiedersi: perché ce l’abbiamo? Ne vale la pena?
Perché dovremmo pagare così tanto? Non sono solo i vincoli economici a
minacciare le realizzazioni dello Stato sociale, ma anche una certa
erosione del sostegno dei cittadini. È a questo processo che dobbiamo
guardare, se ci sta a cuore l’impegno pubblico per il welfare.
MAURIZIO
FERRERA — In una società che invecchia bisogna certo proteggere le
persone fragili, ma al tempo stesso assicurare che vi siano abbastanza
persone attive e produttive proprio per pagare i costi del welfare.
Senza crescita, lavoro e gettito fiscale, non potremo più permetterci
gli attuali livelli di protezione. Con il calo della natalità, le
dimensioni delle forze di lavoro si stanno rapidamente riducendo, mentre
aumenta il numero degli anziani. Possiamo davvero aspettarci che i
lavoratori più giovani siano disposti a versare contributi e tasse
inevitabilmente crescenti?
ELLEN IMMERGUT — È chiaro che in regime
di democrazia il futuro dello Stato sociale dipenderà da quanto gli
elettori sono disposti a pagare e da quali prestazioni esattamente
verranno considerate meritevoli di essere erogate. Per mantenere un po’
di equilibrio fra popolazione attiva e anziana bisogna puntare di più su
giovani e immigrati, facendo molta attenzione alla quantità e qualità
degli investimenti che facciamo (in particolare creando servizi) per
sviluppare, consolidare e incrementare nel tempo il loro capitale umano.
Peraltro i servizi sociali creano lavoro e aumentano le entrate
fiscali. Sappiamo che la diseguaglianza inizia ancor prima della
nascita, e questo è esattamente ciò che gli investimenti sociali (ad
esempio per l’istruzione e la cura della prima infanzia fra 1 e 3 anni)
possono combattere.
MAURIZIO FERRERA — Da un paio di decenni le
disuguaglianze stanno crescendo ovunque e la grande recessione ha
esacerbato questa tendenza. È un noto paradosso della politica il fatto
che, al crescere delle diseguaglianze, tende a diminuire il sostegno per
la redistribuzione, a erodersi l’ethos della solidarietà.
ELLEN
IMMERGUT — Le nostre ricerche confermano che ciò che le persone
sostengono non è la redistribuzione, ma la condivisione dei rischi. Ciò
che si desidera e si apprezza è l’assicurazione contro l’insorgenza di
bisogni a cui non potremmo far fronte da soli nel corso della vita. Di
conseguenza, più grande è la platea di persone che sentono di
condividere dei rischi considerati come «comuni», più forte è l’impegno
per la solidarietà e più forte il sostegno allo Stato sociale. Se i
rischi diventano parcellizzati, allora il supporto cala. La crescita
delle diseguaglianze non ha riguardato solo il reddito, ma anche la
distribuzione dei rischi fra i vari strati sociali, rendendo alcuni di
questi ceti potenzialmente più autosufficienti, altri molto più
vulnerabili.
MAURIZIO FERRERA — Uno dei settori in cui la
parcellizzazione dei rischi e delle coperture è stata più marcata è
forse la salute. Da un lato è aumentato il divario in termini di
speranza (e qualità) di vita fra poveri e ricchi. Dall’altro, questi
ultimi hanno le risorse per acquistare polizze private che consentono
loro di accedere alle terapie più costose e sofisticate, senza liste
d’attesa. Avete trovato evidenza che queste dinamiche erodano il senso
di solidarietà e il sostegno per l’universalismo?
ELLEN IMMERGUT —
Abbiamo osservato che cosa succede quando le persone passano dalla
copertura pubblica a quella privata o aderiscono a schemi complementari.
In effetti si nota un certo declino nella disponibilità a sostenere lo
Stato sociale e una minore propensione alla solidarietà. È importante
sottolineare, tuttavia, che la sanità universale non deve
necessariamente essere gestita per intero dallo Stato. Anzi, il sostegno
per l’uguaglianza sanitaria è leggermente più alto nei sistemi basati
su assicurazione obbligatoria (pubblica o su base occupazionale)
rispetto ai sistemi universalistici puri. Il punto chiave è che la
solidarietà viene incoraggiata quando le persone si considerano parte di
un insieme comune di istituzioni: tutti partecipano ai costi e tutti
ricevono uguale trattamento.
MAURIZIO FERRERA — Fammi capire. In
Italia, come in Gran Bretagna o nei Paesi nordici, abbiamo un servizio
sanitario pubblico universale finanziato dalle imposte. I
cittadini/utenti non sanno bene quanto pagano e sono consapevoli che
molti contribuenti evadono le tasse o non pagano il giusto. La tendenza
degli ultimi decenni è stata semmai quella di aumentare i ticket (le
compartecipazioni). Questo disegno non rischia di alimentare un senso di
sfiducia e persino di ingiustizia? Come fanno i Paesi nordici a
conciliare sostenibilità, universalismo, solidarietà, in un contesto
dove gli utenti sono comunque abituati a pagare ticket anche per le
visite del medico pubblico o per i ricoveri ospedalieri?
ELLEN
IMMERGUT — Si tratta di questioni complesse, nessun sistema è immune da
rischi di insostenibilità, delegittimazione e de-solidarizzazione. Però,
ripeto: quanto più estesa e omogenea è la copertura, tanto più elevato
il potenziale di solidarietà. Le compartecipazioni finanziarie da parte
degli utenti più abbienti sono la regola in tutti i servizi sanitari
finanziati tramite imposte. Così come un po’ ovunque si stanno
diffondendo forme di copertura integrative, a volte incentivate dallo
Stato per le categorie più deboli (come sta avvenendo in Francia). Ciò
che conta è evitare la dualizzazione, ossia l’uscita dal sistema
pubblico di intere categorie sociali che si assicurano e si curano solo
nella medicina privata. Poi contano le tradizioni culturali (gli inglesi
sono tradizionalmente molto fieri e gelosi del Nhs), le campagne dei
media (i norvegesi si lamentano perché i Vip ricevono trattamenti
speciali), il grado di corruzione (che erode il sostegno alla
solidarietà pubblica in alcuni Paesi dell’Est europeo). La solidarietà
sanitaria non è solo collegata a fattori organizzativi o regolativi, ma
va costantemente coltivata sul piano politico e comunicativo.
MAURIZIO
FERRERA — E veniamo a un altro tema scottante: l’immigrazione. Hai
detto che, anche per contrastare l’invecchiamento demografico, le
società europee devono non solo accogliere, ma anche investire sugli
immigrati, soprattutto i più giovani. Si tratta però di una sfida
piuttosto delicata, anche sul piano politico.
ELLEN IMMERGUT —
Certo. Ma ormai gli immigrati regolari rappresentano quote vicine al 10%
della popolazione, di più se consideriamo solo la popolazione adulta.
La domanda che ci dobbiamo porre non è solo quanti immigrati in più
possiamo o dobbiamo accogliere, ma quali sono gli orientamenti di coloro
che già sono fra noi, soprattutto quelli che votano o voteranno. In
base alle nostre ricerche, i migranti non richiedono né usufruiscono di
prestazioni sociali in misura maggiore dei nativi. Non sono tuttavia un
gruppo omogeneo e i loro orientamenti sono strettamente correlati alla
cultura dei Paesi d’origine. In generale, i livelli di sostegno alla
spesa per pensioni di vecchiaia e per l’assistenza sanitaria sono
inferiori rispetto ai livelli dei nativi. Se vogliamo assicurare la
sostenibilità del welfare, dobbiamo puntare all’integrazione sociale e
culturale dei migranti, in modo che accettino di fare la propria parte
per sostenere le pensioni dei nativi anziani. L’interesse verso le
politiche di investimento sociale a favore di donne e bambini dipende
poi molto dalla cultura e dai valori dei contesti di provenienza, specie
per quanto riguarda i rapporti di genere: anche questo è un fattore da
considerare.
MAURIZIO FERRERA — Resta comunque il problema
dell’accoglienza. In tutta Europa si è alzato il vento del populismo
sovranista e a volte anche xenofobo.
ELLEN IMMERGUT — Il populismo
è in parte il risultato dell’incapacità dei partiti tradizionali di
governo di spiegare e giustificare le politiche di austerità e la
gestione dei flussi migratori. Il contraccolpo populista non è arrivato
quando abbiamo toccato il culmine dell’austerità, della grande
recessione, della crisi migratoria. È arrivato con un certo ritardo,
quando i nuovi leader populisti sono riusciti a mobilitare gli elettori
più vulnerabili, più colpiti dalla crisi, più arrabbiati per aver fatto
sacrifici senza che vi fosse adeguato riconoscimento dei loro problemi e
difficoltà. E anche una distribuzione equa dei costi della recessione,
visto che alcune categorie si sono addirittura arricchite.
MAURIZIO
FERRERA — Quali spazi esistono oggi per le politiche di investimento
sociale che sembrano indispensabili per assicurare il futuro del
welfare?
ELLEN IMMERGUT — I nostri dati suggeriscono che la
minaccia maggiore è collegata al populismo di destra. Dove il populismo
sovranista è più debole, i partiti di centrosinistra e persino di
centrodestra sono più propensi a promuovere gli investimenti sociali. In
presenza di sfidanti di destra populista, invece, anche partiti
tradizionali si concentrano sulla difesa dello status quo. Questo
effetto è chiaramente connesso alla competizione per il voto della
classe operaia culturalmente conservatrice, che preferisce mantenere le
cose come stanno.
MAURIZIO FERRERA — Dunque le chiavi per i
diversi possibili futuri del welfare sono nelle mani della politica. E
l’ascesa dei populisti non lascia ben sperare: in questo senso ciò che
accadrà in Italia nei prossimi mesi potrebbe essere una cartina di
tornasole per tutta l’Europa. A proposito, non credi che la Ue abbia una
certa responsabilità in ciò che è successo? E che, d’altra parte,
l’uscita dall’impasse populista non possa che passare da una riforma
dell’Unione?
ELLEN IMMERGUT — L’Europa ha un grave problema di
legittimità e l’istituzione chiave che promuove la solidarietà e la
legittimità, ossia lo Stato sociale, è uscita seriamente danneggiata
dalla crisi. A mio parere, alcune recenti iniziative della Ue vanno
nella giusta direzione. Pensiamo all’attenzione per gli investimenti
sociali entro il patto di stabilità e all’istituzione di un pilastro
europeo dei diritti sociali. Tuttavia, bisogna passare dalle
dichiarazioni solenni alla realtà pratica. E soprattutto, abbiamo
bisogno di una «filosofia pubblica europea». Un insieme di princìpi, di
regole condivise ma certe di mutua collaborazione, nonché di pratiche
comunicative che rendano l’azione delle autorità pubbliche — a
cominciare da quelle Ue — eticamente plausibili e difendibili. In Europa
abbiamo molte regole, ma anche molte esenzioni da queste regole. Ciò
ferisce la legittimità dell’Unione. Il pilastro sociale europeo deve
trasformarsi in un piano chiaro ed efficace. Questo è ciò che i pubblici
democratici europei si aspettano e si meritano.