domenica 20 maggio 2018

Corriere La Lettura 20.5.18
Gli Sforza , magnifici parvenu
Dopo l’estinzione dei Visconti conquistarono il ducato con le armi ma non furono amati dalla città
di Paolo Grillo


Il 5 settembre del 1395, Gian Galeazzo Visconti fu proclamato duca di Milano. Sembrava che il potere dei Visconti fosse giunto al culmine, ma in realtà la carica si rivelò una camicia di forza che finì col soffocare la dinastia. Dopo il 1395, infatti, un solo ramo della famiglia poté assicurare una successione legittima al titolo e così, quando nel 1447 il figlio di Gian Galeazzo, Filippo Maria Visconti, morì senza fratelli viventi e senza eredi maschi, il ducato rimase vacante. Mentre i grandi sovrani europei — dal re di Francia ad Alfonso di Aragona, all’imperatore eletto — rivendicavano il titolo ducale e i veneziani avanzavano in armi, sperando di impadronirsi della città, i maggiorenti milanesi assunsero il potere, rinnovando il Comune: un ordinamento poi conosciuto col nome di Repubblica Ambrosiana. Con un enorme sforzo finanziario, la Repubblica arruolò i migliori condottieri dell’epoca e colse vittorie su tutti i fronti. Particolarmente importante fu la sconfitta inflitta ai veneziani nella battaglia di Caravaggio, il 15 settembre 1448, ad opera della compagnia di Francesco Sforza. Il grande successo, però, si volse a danno per la Repubblica, dato che lo Sforza decise di approfittarne per conquistare il governo di Milano.
Nato nel 1401, Francesco era figlio del romagnolo Muzio Attendolo Sforza, uno dei primi grandi condottieri italiani, comandante di una compagnia di mercenari che fu al servizio dei principali Stati italiani dell’epoca. Alla morte del padre, nel 1424, Francesco gli subentrò alla guida dell’unità e in breve si conquistò una fama di abile comandante e sottile diplomatico, che portò con sé contratti sempre più lauti e importanti con le maggiori potenze della penisola. Nel 1441, per assicurarsene i servigi, Filippo Maria Visconti gli diede in moglie la figlia naturale, Bianca Maria, accompagnata, come dote, dalla città di Cremona. Insomma, egli aveva già importanti interessi in Lombardia e la parentela con Filippo Maria gli permetteva di rivendicare il titolo ducale. Lo Sforza marciò quindi in armi contro Milano: per tutto il 1449 si combatté e alla fine la cittadinanza, stremata dal lungo conflitto, accettò di sottomettersi al condottiero, il 26 febbraio 1450.
La situazione però non era favorevole. Francesco, come illustra Carlo Maria Lomartire nel libro Gli Sforza (Mondadori), era entrato a Milano imponendosi con la forza delle armi e il suo consenso fra la popolazione era minimo, dato che anche agli occhi più benevoli restava un parvenu forestiero. Grave era anche il problema del titolo ducale. Nel Trecento impadronirsi del potere con le armi era pratica comune. A metà Quattrocento tutto era più complicato: per i potenti europei, Milano doveva continuare ad avere un duca, ma lo Sforza non aveva reali diritti di successione e gli imperatori si rifiutarono per decenni di mettere in regola la sua posizione e quella dei discendenti.
Il condottiero, però, era anche un politico assai abile e riuscì a trasformare queste due debolezze in elementi di forza. Con una mossa molto ardita, ribaltò completamente il senso della carica ducale: se Gian Galeazzo Visconti l’aveva utilizzata per fondare il suo potere sull’Impero e non sul popolo di Milano, ora Francesco decise di ignorare l’imperatore e di proclamarsi duca per volontà della cittadinanza. Inoltre, egli concluse con Milano e con le altre città del dominio dettagliati patti di sottomissione, che regolavano diritti e doveri delle parti e davano un fondamento contrattuale al potere del duca, limitandone le possibilità di agire ad arbitrio.
Un’attenta politica di sostegno alle attività produttive e la lunga stagione di tranquillità seguita alla pace di Lodi (1454) fra le maggiori potenze italiane contribuirono a creare un certo consenso attorno al nuovo signore. Questo venne però in gran parte cancellato dai suoi eredi: il figlio Galeazzo Maria intraprese una politica sempre più dispotica e accentratrice, tanto da finire assassinato da una congiura nel 1476. Gli succedette il bambino Gian Galeazzo Maria, che però non governò mai, sottoposto alla reggenza della madre prima e dello zio Ludovico il Moro poi. Quest’ultimo divenne duca nel 1494, alla morte del nipote, e il suo governo si distinse per la magnificenza della corte, ma anche per il pesante fiscalismo, necessario per sostenerne le ambizioni politiche.
Lo sforzo di legittimazione della dinastia sforzesca passò anche attraverso la politica culturale, che rappresentò sicuramente la sua più grande eredità. Attorno a Francesco si raccolse un gruppo di intellettuali umanisti, fra cui l’architetto Filarete, che per il duca progettò il grande e innovativo Ospedale maggiore. Dal 1463 venne edificato l’imponente convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, al cui finanziamento parteciparono largamente gli Sforza. Nel 1477 giunse a Milano il Bramante, che lavorò a diverse chiese cittadine, ma l’apogeo si ebbe sotto il governo di Ludovico il Moro, che fu per quasi un ventennio il mecenate di Leonardo da Vinci. Leonardo lavorò per lo Sforza come pittore, architetto, musicista e organizzatore di feste.
Ma il rapporto degli Sforza con i milanesi non fu mai del tutto risolto. Fra i monumenti dell’età sforzesca non bisogna dimenticare il grande castello di Porta Giovia (noto appunto come Castello Sforzesco), completamente ricostruito e ampliato fra il 1452 e il 1476. Ancora oggi si vede bene come le più possenti fortificazioni — le due grandi torri rotonde — siano rivolte contro Milano e non a sua difesa. La rocca rimase simbolo di un potere che desiderava l’appoggio dei cittadini, ma che in fondo ne diffidava e li teneva sotto controllo con la forza. La dinastia, come è noto, fu travolta dalle guerre d’Italia seguite all’ingresso nella penisola del re di Francia Carlo VIII, senza trovare soccorso nella popolazione di Milano e delle altre città soggette. Il Castello Sforzesco si rivelò nei fatti dannoso per gli Sforza, dato che per un principe, come ammoniva Niccolò Machiavelli, «la migliore fortezza che sia è non essere odiato da’ popoli».