Corriere La Lettura 13.5.18
Misteri svelati Un reporter
francese ha fatto esaminare (con il via libera della Lubjanka) i resti
del Führer. «Sono autentici», dice. E conservati «alla russa»
Basta teorie del complotto Hitler è morto nel bunker
di Stefano Montefiori
Quarant’anni
fa, nell’aprile del 1978, la Nbc trasmetteva una miniserie in quattro
puntate da 120 minuti destinata a sconvolgere il pubblico di gran parte
del mondo. Si tratta di Holocaust, una fiction tratta dal bestseller di
Gerald Green e diretto da uno dei registi di Radici, Marvin J. Chomsky.
Racconta la storia parallela di due famiglie berlinesi, quella ebrea dei
Weiss e quella ariana dei Dorf, negli anni tra il 1938 e il 1945. Della
prima non resterà che un superstite: il figlio minore, Rudi; tutti gli
altri (nonni, padre, madre e due figli) vivranno un atroce calvario
prima di essere catturati dai nazisti e trucidati nei campi di
sterminio. La storia della famiglia Dorf, altrettanto tragica, descrive
il passaggio dalla normalità alla follia, in un vortice di rabbia e di
esaltazione assassine.
Holocaust ha un impatto senza precedenti
sul pubblico (battuto ogni record d’ascolto negli Usa: i giornali
dell’epoca parlano di un coinvolgimento di circa 120 milioni di
spettatori; dopo anni, la Nbc batte le concorrenti Abc e Cbs): un
fremito di orrore e vergogna attraversa gli Stati Uniti, come se la
quasi totalità degli americani venisse a conoscenza soltanto ora dello
sterminio nazista. Nel gennaio dell’anno dopo, Holocaust arriva in
Germania e innesca un tale sussulto morale collettivo da provocare
lacerazioni nella coscienza di un intero popolo e, allo stesso tempo,
apre un dibattito storiografico, culturale e civile. Dopo tribunali e
processi, i tedeschi sembravano aver voglia di dimenticare che cos’era
successo, un ingombro fastidioso di cui liberarsi.
Nel maggio
1979, Holocaust (Olocausto) viene proiettato anche in Italia su Raiuno,
la domenica sera, in una versione di otto puntate di circa 50 minuti.
Intervistato dal «Corriere della Sera» (20 maggio), Primo Levi esprime
tutta la sua perplessità: «In Holocaust non c’è degradazione, gli attori
hanno la barba rasata, parlano, sono ancora uomini, non sono animali
disperati come eravamo noi. Eravamo degli automi, con un unico pensiero,
quello di non morire. Una volta alla settimana ci facevamo la barba… Ma
Holocaust è meglio che niente». Anche il regista Claude Lanzmann,
autore di Shoah, un film-fiume della durata di più di nove ore, opera
fondamentale anche dal punto di vista storico sullo sterminio degli
ebrei, storce il naso nei confronti della serie. Sulla rivista «Les
Temps Modernes» accusa Holocaust di raccontare la tragedia in modo molto
convenzionale e hollywoodiano (allora l’aggettivo connotava spregio),
di scuotere solo la sfera emotiva e quindi di appiattire e sminuire
l’enormità del dramma del genocidio, uno «sterminio irrappresentabile»
(stesso giudizio Lanzmann manifesterà poi su La lista di Schindler e La
vita è bella).
Paradossalmente, l’aspetto più interessante è
proprio questo: può un prodotto televisivo di massa scuotere le
coscienze di una nazione e, insieme, stimolare una riflessione su quanto
è stato rappresentato? Bisogna, sì o no, prendere atto che la
televisione seriale sta diventando il più suggestivo libro popolare di
storia? La cultura pop è in grado di affrontare temi così delicati?
L’effetto Holocaust, per riprendere le parole di Heinrich Böll, ci
costringe «a riflettere sulle concezioni che abbiamo di “popolare”, di
“emozionante”, di “divertimento”»? Per la prima volta, nel profluvio dei
dibattiti, si fa strada l’idea che la televisione possa aiutarci a
capire anche la storia. Che l’emozione non sia solo ostacolo alla
conoscenza.
Nel presentare la serie su «La Stampa» del 20 maggio
1979, Primo Levi non nasconde i suoi dubbi: «Non mi è stato possibile
vedere per intero il filmato Olocausto: non ne ho visto che alcune
puntate, per di più prima del doppiaggio. Ho assistito alla proiezione
con diffidenza, la stessa diffidenza che tutti i testimoni di quel tempo
provano davanti ai molti tentativi, recenti e meno recenti, di
“adoperare” la loro esperienza». Ma Levi ha il coraggio di affrontare il
tema della risonanza mediatica: «In tutti i Paesi, il filmato è stato
visto da decine di milioni di persone; non benché fosse una story, una
vicenda romanzata, ma perché è una story. Sul tema del genocidio
hitleriano sono stati pubblicati centinaia di libri, e proiettati
centinaia di documentari, ma nessuno di essi ha raggiunto un numero di
fruitori pari all’uno per cento del numero degli spettatori televisivi
di Olocausto. I due fattori associati, la forma romanzesca e il veicolo
televisivo, hanno mostrato appieno il loro gigantesco potere di
penetrazione». A conclusione dell’intervento, Levi si augura solo che un
tema «diverso e opposto» non venga trattato da «un Paese in cui la
televisione fosse voce esclusiva dello Stato, non sottoposta a controlli
democratici né accessibile alle critiche degli spettatori».
Buona
coscienza estetica della catastrofe. Sui «Cahiers du Cinéma», numero
301 del giugno 1979, esce un articolo di Jean Baudrillard (il cui stile
di scrittura non ha retto al tempo), molto critico nei confronti
dell’operazione: «Quello che nessuno vuole comprendere è che Holocaust è
innanzitutto (ed esclusivamente) un evento, o piuttosto un oggetto
televisivo (regola fondamentale di McLuhan, che non bisogna
dimenticare); si tenta cioè di riscaldare un evento storico freddo,
tragico ma freddo, il primo grande evento dei sistemi freddi, dei
sistemi di raffreddamento, di dissuasione e di sterminio che si
dispiegheranno poi sotto altre forme (ivi compresa la guerra fredda,
ecc.) e che interessa le masse fredde (anche gli ebrei più interessati
alla loro morte, e che l’autogestiscono, eventualmente, masse ancora più
ribelli: dissuase fino alla morte, dissuase dalla loro stessa morte),
di riscaldare questo evento freddo attraverso un medium freddo, la
televisione, e per delle masse anch’esse fredde, che non avranno che
l’occasione di un brivido tattile e di un’emozione postuma, brivido
dissuasivo esso stesso, che li farà rotolare nell’oblio con una sorta di
buona coscienza estetica della catastrofe».
Tra le innumerevoli
prese di posizione, interventi, riflessioni che dilagarono nel discorso
pubblico, si segnalano come vere folgorazioni le note diaristiche del
filosofo Günther Anders, del 1997, raccolte poi nel volume Dopo
«Holocaust», 1979 (Bollati Boringhieri, 2014). Il filosofo difende la
serie, riconoscendole diversi meriti. Tra questi, gli effetti della
ricaduta sul pubblico tedesco, per anni esonerato dal rimorso: «Grazie a
Dio, ora si disperano, finalmente si disperano… hanno trovato la
fermezza di guardare in faccia, per ore e ore, l’indicibile».
La
tesi del filosofo tedesco è questa. Holocaust ha certamente i suoi
limiti estetici, è un prodotto che segue modelli convenzionali di
rappresentazione, è poco rilevante sul piano storiografico, culturale,
ma ha avuto un grandissimo impatto «artistico» e mediatico, più forte
ancora delle immagini che in passato testimoniarono il genocidio:
«Trentacinque anni fa, era impossibile non confrontarsi con le immagini,
i libri, le riprese dei lager, dei forni, delle montagne di cadaveri. I
film girati dagli Alleati dopo la liberazione dei campi di
concentramento non avrebbero forse dovuto trasformarsi in incubi
collettivi? Niente di tutto questo. Di nuovo: le immagini non furono
percepite, quindi non fu neppure necessario rimuoverle. Non solo non
furono percepite perché bisognava innanzitutto disseppellire sé stessi
dalle macerie; o perché, scampati a stento, non si voleva vedere o
sapere qualcosa di coloro che non erano scampati; o perché si preferiva
non ricordare ciò che non molto tempo prima era stato osannato
istericamente; o perché, nei dodici anni, la capacità di vergognarsi era
stata sistematicamente estirpata a bastonate, e la mancanza di vergogna
per dodici anni inculcata a bastonate come un valore; ma soprattutto
qui, di nuovo, riaffiora il problema della “personalizzazione” — perché
le fotografie mostravano troppi cadaveri e l’orroredavanti alla morte,
anche davanti al crimine, decresce all’aumentare del numero dei cadaveri
mostrati… sempre solo cadaveri anonimi, non i cadaveri di persone
conosciute in vita o che, addirittura, erano state dei vicini».
Da
tempo, la televisione ha rafforzato la nozione di memoria collettiva:
tutti i grandi fatti vengono documentati, addirittura, come nel caso
delle Torri Gemelle, vissuti in diretta. Al punto che qualcuno, ieri
come oggi, teme che il video riduca la storia a rumore di fondo,
decorazione di uno spettacolo che ha smarrito ogni direzione, ogni
senso. La nostra è un’età di simulacri più che di documenti, un’era che
con la sua visualizzazione totale rende tutto perfettamente
contemporaneo. Una accanto all’altra passano le immagini di diverse
datazioni, e ciò le rende perfettamente attuali. Tutto è sincrono. Il
passato non esiste più, se non come forma del discorso.
Il
problema non è se sia giusto o meno mostrare le immagini dell’orrore,
parlarne, discuterne: il contenuto morale di certe scene è fragile, muta
con il mutare dei tempi e dei contesti in cui viene rappresentato. Se
mai vi sono alcune immagini (i lager, la bambina vietnamita sfigurata
dal napalm, le Torri Gemelle…) che hanno raggiunto «lo status di punti
di riferimento morale» (Susan Sontag). È questa la condizione che
bisogna preservare.
Secondo Anders, Holocaust va preso in
considerazione per la sua capacità immaginativa, per aver saputo
suscitare emozioni: «Quando poi non si trattava d’immagini ma di parole,
si ascoltava o si leggeva sempre soltanto la nuda, esangue cifra di sei
milioni, non il gemito dei torturati e gli sghignazzi dei torturatori
moltiplicati per sei milioni o anche solo per seimila o anche solo per
sei… Poiché il messaggio era stato ridotto alla smisuratezza della
cifra, non era arrivato per 33 anni alle orecchie, agli occhi e ai
cuori. Affinché i fatti “arrivassero” era necessario che la limitazione
al risultato e la “riduzione allo smisurato” fossero revocati. Ed è ciò
che ora è stato fatto, qui sta il merito del film. Dobbiamo ringraziare
questa bistrattata riduzione cinematografica se oggi in milioni e questa
volta intendo, eccezionalmente, esseri viventi conoscono la verità.
Mentre il semplice racconto dei fatti, persino il loro conteggio
statistico, non sono riusciti a stimolare e a plasmare la capacità
immaginativa, il film Holocaust lo ha fatto».
Di tutto questo si
discuteva quarant’anni fa. Una volta era più facile distinguere fra
realtà e rappresentazione (e magari riconoscere alla medesima un nuovo,
fondamentale ruolo), ma da qualche tempo i media costituiscono i nostri
nuovi ambienti di socializzazione, «luoghi reali» frequentati
quotidianamente e in cui s’impara a interagire, ad acquisire modelli di
comportamento, insomma a vivere. L’esperienza del reale viene sempre più
sottoposta a un processo di elaborazione virtuale — messo in atto dal
web — che finisce per mutare il nostro modo di percepire le cose. Da che
punto delle questioni sollevate da Levi, da Baudrillard, da Anders
dobbiamo ripartire?