il manifesto 13.5.18
Wieviorka spoglia un mito
Storia. Una
ricostruzione fedele anche all’egoismo degli interessi che guidarono i
paesi coinvolti nella guerra contro il nazismo: «Storia della Resistenza
nell’Europa occidentale 1940-1945»
di Philip Cooke
Nel
luglio del 1940, appena passata la Darkest Hour, fu creato lo Special
Operations Executive (SOE), sotto la direzione del deputato laburista
Hugh Dalton. Educato a Eton, poi a Cambridge, Dalton era un personaggio
imprevedibile, ma di notevole ingegno: ribelle nei confronti della
classe sociale dalla quale proveniva, si era dedicato alla causa del
socialismo, tanto che a Cambridge lo chiamavano «il compagno Hugh».
Combatté nella prima guerra mondiale sul fronte italiano, fu decorato e
scrisse le sue memorie in Con gli inglesi sul fronte italiano: era
quindi veterano di una guerra regolare. Ma il suo compito fu in seguito
ben diverso. Churchill gli chiese infatti di organizzare una struttura
capace di appoggiare, gestire e armare movimenti di resistenza in tutti i
paesi occupati dai nazisti. Come spiegava una famosa relazione
strategica elaborata qualche mese prima, Churchill, insieme a altri
fautori della shadow war, la consideravano come una specie di quarta
armata. Nel documento, intitolato «British Strategy in a Certain
Eventuality» (la «eventuality» sarebbe stata la caduta della Francia, un
processo già iniziato) si prevedevano tre strategie: pressioni
economiche, bombardamenti aerei e «la creazione di una rivolta
generalizzata nei territori conquistati».
«Ora incendiate l’Europa»
Questa
visione di un movimento resistenziale capace, con le armi necessarie,
di liberare interi paesi dall’occupante tedesco, trova la sua più piena
espressione pubblica nella riduzione cinematografica del romanzo di
Steinbeck, the Moon is Down, realizzata nel 1943: il film mostra tutte
le capacità di resistenza di un piccolo paese della Norvegia, dove un
eroico sindaco si rifiuta di collaborare con l’occupante tedesco
nonostante le terribili violenze e le paure dei civili. Altrettanto
efficace, e meno divertente, è la famosa frase indirizzata da Churchill a
Dalton: «set Europe ablaze» («ora incendiate l’Europa»). Data
l’efficacia dell’immagine evocata, non sorprende che la frase sia stata
molte volte citata, nel corso degli anni.
Churchill parlava allora
di Europa, non solo della Francia, ma la realtà della guerra fu ben
diversa, e i movimenti resistenziali nei paesi occupati dai tedeschi
ebbero caratteristiche molto più limitate di quelle auspicate nel 1940,
sviluppandosi lungo linee nazionali e più spesso locali, con qualità ed
esiti eterogenei a seconda dei vari paesi. Proprio questo ha impedito
che potesse formarsi una memoria europea: nel caso italiano, i musei e
altri luoghi della memoria si focalizzano spesso, e giustamente, sulle
esperienze dirette e locali di violenze subite, di stragi ed eccidi,
oppure evidenziano il ruolo di personaggi chiave (penso ad esempio al
monumento di Kounellis dedicato ai tre rettori antifascisti
dell’Università di Padova). Unico tentativo di ricordare una resistenza
sperimentata su scala transnazionale, il monumento alla Resistenza
europea di Como situato vicino al lago, coinvolge lo spettatore in un
processo di attiva ricreazione della memoria, sollecitando il percorso
di tre differenti scalinate che costeggiano grandi lastre di metallo a
forma di leggii, sulle quali sono incisi alcuni brani in lingua
originale e in italiano tratti dalle lettere dei condannati a morte
della Resistenza europea.
Sul versante storiografico, invece, il
primo tentativo di considerare la Resistenza in tutta l’Europa risale
già al 1958, quando venne organizzato un convegno in Belgio, dedicato ai
paesi occidentali. Altri seguirono a Milano, e nei primi anni sessanta a
Oxford, dove il tema centrale era il rapporto tra gli alleati e la
Resistenza. Dagli atti ciclostilati (e quindi quasi del tutto sfuggiti
agli storici successivi) vengono fuori le tensioni e i contrasti tra i
vari attori, ma anche un senso di reciproco rispetto.
Un tentativo temerario
Ora,
il saggio che Olivier Wieviorka dedica alla Storia della Resistenza
nell’Europa occidentale (Einaudi, pp. XIV – 464, euro 35,00, ben
tradotto da Duccio Sacchi, sebbene l’originale del titolo sia più
modestamente Une histoire de la Résistance en Europe Occidentale), si
presenta come un tentativo ambizioso, anzi temerario, di osservazione
sotto un’ottica dichiaratamente transnazionale. Se restano esclusi i
paesi dell’est, sotto l’influenza dell’Unione Sovietica, è perché essi
costituiscono, come motiva lo storico francese, un caso separato. Il
libro appartiene al genere che i francesi chiamano «haute
vulgarisation», un orientamento non sempre apprezzato dagli addetti ai
lavori in Italia: il suo principale merito è offrire al lettore
italiano, e soprattutto alle giovani generazioni, un quadro panoramico,
pieno di interessanti paragoni e spunti comparativi.
Wieviorka ci
aiuta a capire – e non è poco – una vicenda che spesso trascendeva
angusti confini locali e a vedere meglio i nostri comuni legami storici.
Per dare coerenza al suo libro, lo storico e sociologo francese sceglie
di concentrarsi, soprattutto nella prima parte, sulla situazione a
Londra, dove si stabilirono i vari governi in esilio (non solo quello di
de Gaulle, ma anche di vari altri paesi come il Belgio e i Paesi Bassi)
e dove comandava lo Special Operations Executive. Da qui venivano
trasmessi vari programmi radiofonici, da Radio Orange a Radio Londra,
cui Wieviorka riconosce una notevole importanza nella prospettiva del
suo saggio, che opera una sorta di rovesciamento, dal bottom up al top
down, facendo perdere le tracce dei vissuti in prima persona di quegli
uomini e donne coinvolti nell’esperienza della guerra, ma offrendo – in
compenso – un resoconto estremamente convincente delle condizioni,
spesso difficili e contraddittorie, sotto le quali lavoravano gli
esponenti dello Special Operations Executive.
In uno dei capitoli
migliori del libro, Wieviorka studia la questione dei famosi lanci
alleati, i cui arrivi tardivi e spesso in luoghi fuorimano, restano
legati da sempre alla «leggenda nera» degli inglesi poco comprensivi, se
non liquidatori, di fronte alle esigenze della guerra partigiana. Il
quadro che ne viene fuori, tuttavia, correttamente ritrae un alleato nel
pieno senso della parola, non condizionato politicamente, ma certamente
tormentato da vincoli sia strategici sia pratici.