Corriere 5.5.18
Antifascismo Il presidente emerito dell’Anpi
conversa con Francesco CampobelloSmuraglia partigiano del diritto La
Costituzione come stella polare
di Corrado Stajano
«Erano
momenti grandiosi, di immensa, comune felicità». Si lascia andare, nel
ricordo di quel lontano aprile, Carlo Smuraglia, illustre giurista,
senatore per più legislature, avvocato in processi che hanno lasciato il
segno, in difesa delle vittime, dei poveri, degli offesi, uomo della
Repubblica democratica e antifascista. Partigiano e poi soldato nel
Corpo italiano di liberazione, racconta la festa indimenticata, la
commozione di quando, con il suo plotone, entrava nei paesi e nelle
città riconquistate ai nazisti lungo l’Adriatico, fino a Venezia, dove
furono proprio i soldati della divisione Cremona, di cui faceva parte, a
piantare il tricolore sul campanile di San Marco: «Venivamo accolti con
fiori e con doni di cibo. Io ero tra quelli che entravano per primi
perché, essendo diventato marconista, la radio sulle spalle con cui
trasmettevo gli ordini del nostro sottotenente, stavo sempre al suo
fianco alla guida del plotone. Eravamo i primi due e si scherzava sul
fatto che entrando per primo il tenente, era lui a ricevere gli abbracci
e i baci delle ragazze e a me, che venivo subito dopo, venivano
riservati quelli delle donne più anziane».
Carlo Smuraglia, con
Francesco Campobello, assegnista di ricerca di Storia del diritto
all’Università di Torino, è l’autore di questo piccolo-grande libro, Con
la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica,
pubblicato dalle Edizioni del Gruppo Abele.
Dopo l’armistizio
dell’8 settembre 1943 era stato istintivo per lui scegliere la parte
della libertà: aveva vent’anni ed era studente di Giurisprudenza alla
Scuola Normale Superiore di Pisa. Le discussioni tra i compagni
cresciuti negli anni del fascismo, con in testa generiche idee
politiche, non avevano fine, ma il dissolversi dello Stato, l’esercito a
brandelli, la fuga del re, la mortale tenaglia dell’occupazione
nazista, risvegliarono lo spirito di ribellione. Contribuirono nel
profondo gli echi del discorso, giunti alla Normale, di Concetto
Marchesi, rettore all’Università di Padova, che invitava gli studenti a
battersi.
Una lunga vita, quella di Smuraglia, tra l’università,
la politica, le istituzioni. Professore ordinario di Diritto del lavoro —
e non doveva esser facile diventarlo per un comunista negli anni
Cinquanta — con una bibliografia ricca, di alto livello, da La
Costituzione e il sistema del diritto del lavoro pubblicato da
Feltrinelli nel 1958, a La Sicurezza del lavoro e la sua tutela penale
(Giuffré, 1967), al Diritto penale del lavoro (Cedam, 1980) alle
innumerevoli pubblicazioni sullo statuto dei lavoratori, fino all’oggi
in nome dei diritti dei cittadini e contro le diseguaglianze che
umiliano il nostro infelice Paese.
Al Consiglio superiore della
magistratura, poi, dal 1986 al 1990. Sarebbe dovuto diventare
vicepresidente, ma «per scongiurare questa eventualità», dice Smuraglia
nel libro, «Francesco Cossiga decise di votare, rompendo la tradizione
secondo la quale il presidente della Repubblica, in tali occasioni, non
vota». Al Csm fu tra quelli, sconfitti, che votarono per la nomina di
Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, una scelta
che forse avrebbe salvato la vita al giudice. Fu eletto invece un
magistrato che distrusse il pool di Palermo autore della
sentenza-ordinanza del maxiprocesso del 1986.
L’avvocatura. Ai
suoi inizi il giovane Smuraglia difese i partigiani perseguitati negli
anni della Guerra fredda e gli operai comunisti chiusi nei reparti
confino delle fabbriche e poi via via Piazza Fontana — fu uno dei
protagonisti nel processo sulla morte in Questura, a Milano, di Giuseppe
Pinelli —, vinse il processo sulla diossina di Seveso, fu parte civile
nel doloroso processo sul sequestro di Cristina Mazzotti, uccisa nel
1975 dalla ’ndrangheta legata alla criminalità del Nord. Senza
dimenticare il processo per lo scandalo Lockheed del 1978 davanti alla
Corte costituzionale, eletto dal Parlamento commissario d’accusa, con
Alberto Dall’Ora e Marcello Gallo, contro i ministri Gui e Tanassi.
Il
Senato, poi. Smuraglia fu presidente della Commissione lavoro per sette
anni, dalla XIII legislatura in avanti, e fece quel che poteva per la
tutela dei diritti.
È un fautore del dialogo, Smuraglia. Un
realista, non un estremista, sempre preoccupato delle conseguenze di
quel che si sta facendo.
È un uomo rigoroso: «Non si può difendere
bene un imputato se non si è convinti delle sue ragioni», dice, «Non si
può vendere la coscienza per una parcella».
La Costituzione, per
Smuraglia, è la stella polare, «regola la nostra vita, la convivenza
quotidiana, la vita delle istituzioni».
Fu criticato quando
l’Anpi, l’Associazione dei partigiani, di cui era allora presidente, si
schierò per il No al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. La
politicizzazione dell’ Anpi era l’accusa. È giusto far politica,
replicava Smuraglia, se significa opporsi allo stravolgimento della
somma Carta quando la riforma «tocca la libertà di voto e la sovranità
popolare». In quell’occasione incontrò in un dibattito televisivo Matteo
Renzi. Il presidente del Consiglio davanti al professore, rigido ma
sereno, sembrava uno scolaro balbettante e impreparato.
Tante
volte sconfitto, non quella volta, Carlo Smuraglia non rinuncia mai. Non
si è mai arreso, il lume della speranza per lui non si spegne.