Corriere 3.5.18
I rischi nella regione
l’inquieto maggio in Israele
di Paolo Mieli
Attenzione
al maggio israeliano. Già domani saremo probabilmente costretti ad
assistere al sesto venerdì consecutivo di incidenti lungo la frontiera
tra Gaza e Israele. Gli scontri — che hanno già provocato oltre quaranta
morti e cinquemila feriti (per i quali le Nazioni Unite hanno
stigmatizzato l’«uso eccessivo della forza» da parte di Israele) — si
protrarranno fino alla metà del mese di maggio quando, nel «giorno della
Nakba» (in arabo «catastrofe», «cataclisma»), potrebbero trasformarsi
in qualcosa di più impegnativo. I palestinesi chiamano queste
manifestazioni «Grande marcia del ritorno», indetta in ricordo
dell’uccisione, nel 1976, di sei loro connazionali che avevano
protestato per la confisca di terre. Una «festa pacifica per non
dimenticare» la definisce il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, funestata
però, a suo dire, da «cecchini israeliani». Israele risponde sostenendo
che l’ottanta per cento degli uccisi lungo la frontiera erano «membri
attivi o fiancheggiatori di gruppi terroristici». Abu Mazen, pur senza
prendere pubblicamente le distanze, si è mostrato perplesso sulle
iniziative prese a Gaza. Poi, però, per rimettersi in sintonia con i
tempi che si annunciano, si lascia andare a considerazioni antiebraiche
davvero strabilianti: parlando a Ramallah al cospetto del Consiglio
palestinese, in un discorso di novanta minuti ripreso integralmente
dalla tv, Abu Mazen ha detto che gli ebrei la Shoah se la sono cercata.
Secondo
lui quel che accadde agli israeliti ai tempi del nazismo non va
ricondotto alla loro fede religiosa o appartenenza etnica (tra l’altro, a
suo giudizio, gli ebrei ashkenaziti non sarebbero nemmeno semiti),
bensì alle loro «funzioni sociali», vale a dire «usura, attività
bancaria e simili». Ha aggiunto infine che lo Stato ebraico è un
«prodotto coloniale» e in quanto tale meriterebbe di far la fine che
hanno fatto tutte le entità simili. In che tempi? Il generale Abdolrahim
Mousavi — dal fronte iraniano — pochi giorni fa ha detto che la
distruzione di Israele dovrebbe essere realizzata «entro un massimo di
25 anni». «Entro un massimo», si noti bene.
Ma tutto deve essere
ben visibile fin da adesso. Questo mese di maggio dovrebbe chiarire
all’intero mondo arabo che è giunto il momento di vendicare la Nakba. Il
14 maggio cadranno i settant’anni dalla fondazione di Israele avvenuta
nel 1948 in ottemperanza alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (29
novembre 1947) che stabiliva dovessero nascere in quella regione due
Stati, uno ebraico (che nacque) e l’altro palestinese (che non nacque).
Quel giorno, nell’ambito della ricorrenza, l’ambasciata degli Stati
Uniti verrà trasferita a Gerusalemme, in seguito ad una decisione, dal
fortissimo impatto simbolico, presa dal presidente americano Donald
Trump nelle settimane immediatamente successive alla sua elezione
(l’impegno lo aveva preso nel corso della campagna elettorale). Il 15
maggio, il giorno successivo, cadrà l’anniversario dei settant’anni
della Nakba: in quella data l’intero mondo arabo ricorda la fuga dalla
Palestina a cui furono costretti centinaia di migliaia di palestinesi,
al termine della prima guerra arabo-israeliana (1948-1949). Negli ultimi
anni anche importanti storici dello Stato ebraico, primo tra tutti
Benny Morris, hanno riconosciuto le colpe del proprio Paese a danno dei
palestinesi, gravissime colpe. Qualche altro storico ancor più radicale,
come l’ex militante del Partito comunista israeliano Ilan Pappé, ha
denunciato atti di vera e propria «pulizia etnica» commessi in quei
frangenti dai propri connazionali. È stato più volte riesaminato — e non
solo da Morris e Pappé — il massacro di Deir Yassin in cui, il 9 aprile
1948, furono uccisi da formazioni paramilitari ebraiche, Irgun e banda
Stern, oltre cento palestinesi (forse duecento, forse più, secondo fonti
arabe). Due personalità che all’epoca erano al comando dell’Irgun e
della banda Stern e che successivamente sarebbero state elette alla
guida del governo israeliano, Menachem Begin e Itzhak Shamir, si sono
giustificate dell’atto sanguinoso sostenendo che la conquista di quel
villaggio era indispensabile per aprire la via di collegamento tra la
costa e Gerusalemme e che, nelle ore precedenti all’attacco, loro stessi
si premurarono di esortare la popolazione «non combattente» di Deir
Yassin ad abbandonare le proprie case. Ma è un fatto che lo stesso capo
del nuovo Stato, David Ben Gurion, condannò l’accaduto.
Vale la
pena altresì di ricordare che Israele fu immediatamente riconosciuto da
Stati Uniti e Unione Sovietica. Che il Paese ai suoi primi giorni di
vita fu attaccato da milizie egiziane, libanesi, irachene, siriane,
corpi di volontari provenienti da Arabia Saudita, Libia, Yemen e dalla
Legione araba di Glubb Pascià (il generale inglese John Bagot Glubb che,
per conto di re Husayn, guidò fino al ’56 l’esercito giordano). Alla
fine del conflitto, nel ’49, Israele riuscì ad allargare i propri
confini rispetto a quelli decisi dall’Onu e firmò armistizi separati con
gli aggressori. Armistizi, non la pace; l’esercito del Cairo continuò a
«presidiare» Gaza, quello di Amman la Cisgiordania. Per diciotto anni:
fino alla «guerra dei sei giorni» (giugno 1967) al termine della quale
Israele occupò quei «territori» sui quali doveva e dovrebbe ancora
nascere lo Stato palestinese. Per quasi venti anni, in altre parole, lo
Stato di Palestina non nacque per una decisione dei Paesi arabi che
scelsero di utilizzare le terre assegnate al popolo palestinese dalle
Nazioni Unite, come aree militari da cui doveva partire l’attacco
definitivo per rigettare in mare l’«entità sionista».
Ora si può
avere l’impressione che i «venerdì di sangue» susseguitisi dal 30 marzo
lungo le frontiere di Gaza, più che a ricordare la Nakba servano a
distrarre Israele da un’altra partita che si giocherà anch’essa nel mese
di maggio: quella con l’Iran. Qui la scadenza è di poco anticipata
rispetto alla doppia ricorrenza del 14 e 15: due o tre giorni prima, il
12 maggio, Donald Trump renderà nota l’intenzione di non onorare (con
ogni probabilità) l’accordo con Teheran voluto dal suo predecessore
assieme all’Europa. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha
preparato il terreno per una denuncia di quel patto, rivelando come la
sua intelligence sia entrata in possesso di cinquantacinquemila
documenti che proverebbero le menzogne dell’Iran tuttora impegnato, a
dispetto di quanto concordato, nel proprio piano nucleare (il Paese di
Ali Khamenei sarebbe in procinto di mettere a punto cinque ordigni di
potenza equivalente a quello che nell’agosto del 1945 provocò la
distruzione di Hiroshima). Ad un tempo, nella notte di domenica 29
aprile, l’esercito israeliano avrebbe provocato — usiamo il condizionale
perché l’azione non è stata rivendicata — un’esplosione ad una base
militare in Siria nei pressi di Hama. La base, come l’aeroporto militare
siriano di Tayfur bombardato dagli israeliani il 9 aprile, sarebbe a
disposizione dei pasdaran iraniani e un tal genere di bombardamenti
sarebbero stati effettuati da Israele per rendere più difficile ai
militari provenienti da Teheran di mettere «radici in Siria» (e questo
intento Netanyahu l’ha annunciato ufficialmente). Radici che però sono
state già parzialmente messe, se è vero che nel Paese di Assad sono
presenti oltre ottantamila miliziani sciiti pronti a riversarsi su
Israele dalle alture del Golan. Tutto appare pericolosamente in bilico. E
i precedenti ci dicono che in quella regione quando la corda si tende
fino a questo punto, il rischio che scoppi all’improvviso una guerra è
alto. Troppo alto perché il mondo se ne resti tranquillo a guardare.