giovedì 3 maggio 2018

Corriere 3.5.18
Il ritorno del profeta
Perché i conti con Marx non finiscono mai
Intuizioni geniali e grandi illusioni nel pensiero del filosofo tedesco che capì l’ambiguità del capitalismo
di Marcello Flores


Il bicentenario della nascita di Karl Marx cade nel mezzo di un periodo dominato, su scala internazionale, da una robusta presenza di regimi e ideologie politiche che hanno sempre considerato la sinistra, il marxismo, i diritti dei lavoratori e l’aspirazione all’uguaglianza come i principali nemici di un capitalismo che intende esprimere le sue potenzialità e i suoi successi attorno alla crescita del profitto e del mercato. Ma è anche un momento in cui, attorno a studi scientifici e a divulgazioni per un largo pubblico (ultimo il film Il giovane Karl Marx di Raoul Peck) si è ripreso a parlare del pensatore di Treviri, europeo per contingenza e cosmopolita per convinzione, autore del «tentativo audace di dare una risposta, con gli strumenti sofisticati della filosofia e della scienza economica, all’eterna aspirazione all’eguaglianza». Sono parole, queste, con cui Antonio Carioti introduce il volume a più voci da lui curato Karl Marx vivo o morto? (Solferino).
È grazie al filosofo ed economista tedesco che per un secolo e mezzo il capitalismo è stato studiato e analizzato in profondità, ma anche combattuto per modificarlo e trasformarlo o per distruggerlo e sostituirlo con il socialismo e il comunismo. Nessuno, ormai, dubita della profondità e dell’ampiezza della riflessione compiuta da Marx, anche se Michele Salvati ci ricorda che egli «elaborò e mise in circolo le sue analisi e il suo messaggio proprio mentre la rivoluzione industriale stava trasformando le società europee più avanzate», mentre oggi «con la globalizzazione del capitalismo quasi completa è il mondo intero a esserne il soggetto, un mondo però frammentato in una miriade di Stati con interessi diversi e spesso conflittuali». Anche se le previsioni di Marx sulla caduta tendenziale del saggio di profitto o sull’immiserimento e l’omogeneità crescente della massa dei lavoratori dipendenti non si sono verificate, resta valida la sua grande intuizione che lo sviluppo della produzione affidata al profitto e al mercato avrebbe incontrato e creato tensioni e crisi continue.
La forza rivoluzionaria e trasformatrice del capitalismo fu, secondo molti autori del volume, una delle scoperte più importanti che Marx lasciò in eredità al pensiero moderno, capace di cogliere il «processo di distruzione creatrice», come lo chiama Alberto Martinelli, che lo caratterizzava e di analizzarne la natura ambigua e cioè — nelle parole di Umberto Curi — «il fatto che esso sia un momento di progresso e di incivilimento, e insieme uno strumento di oppressione». Se è quindi nella visione «critica» di Marx che risiede ancora la sua attualità, non si può dimenticare tuttavia, come suggerisce Maurizio Ferrera, il fallimento della sua teoria politica, la liquidazione come sterile di ogni discussione sulla giustizia e il diritto, «la sua riduzione del politico a mera sovrastruttura alla mercé dell’economia».
Una storia parallela e successiva alla vita di Marx — che Carioti tratteggia con finezza e vivacità in uno schizzo biografico accurato, capace di cogliere le vicende familiari e politiche, intellettuali e finanziarie, lavorative e individuali in una sintesi di rara efficacia — riguarda necessariamente lo sviluppo del marxismo dopo Marx, l’irrigidimento dottrinario e spesso il fraintendimento che ne fecero i dirigenti politici del movimento operaio, come ci raccontano Fulvio Cammarano e Gianfranco Pasquino, mentre Giulio Giorello mette a confronto due tra i critici più acuti del pensiero di Marx — Bertrand Russell e Karl Popper — per cogliere in profondità il suo «intreccio di scientificità dichiarata e di emotività latente» emersa negli scritti più orientati alla costruzione di una organizzazione internazionale dei lavoratori.
Invece Marcello Musto analizza con finezza le critiche post-coloniali fatte a Marx, mostrando come l’accusa di «inesorabilità storica del modo di produzione borghese» risulti strumentale e carente, soprattutto se confrontata col pensiero degli ultimi anni, nella polemica con Michailovskij e nelle lettere a Vera Zasulic riguardo alla Russia e al suo rapporto col capitalismo e con la tradizione rurale comunitaria.
Alla ricchezza degli spunti che emergono da questo utile volume fa da controcanto Alain Badiou, che in un’intervista rivendica l’attualità del comunismo di Lenin e di Mao, sulla cui opera un bilancio può essere però fatto solo da «noi comunisti», della «corrente maoista» emersa nel maggio 1968 a Parigi, «principale novità politica» dell’anno.

Corriere 3.5.18
Una vita passata in esilio, sognando la rivoluzione
L’amore per la moglie Jenny, l’amicizia con Engels, le lotte della Prima Internazionale


Figlio di un avvocato discendente di rabbini ebrei, ma convertito al cristianesimo, Karl Marx nasce nella città tedesca di Treviri, allora parte del Regno di Prussia, il 5 maggio 1818. Da giovane abbandona gli studi giuridici per quelli filosofici, poi si mette in luce alla guida del giornale «Rheinische Zeitung», che viene soppresso per le sue critiche al governo.
Nel 1843 Marx sposa Jenny von Westphalen, figlia di un barone, e si trasferisce a Parigi, dove nel 1844 nasce la sua amicizia con Friedrich Engels, figlio di un industriale, ma indignato per le condizioni miserevoli della classe operaia. I due maturano posizioni di critica radicale della società borghese, favorevoli all’abolizione della proprietà privata.
Nel 1845 Marx viene espulso dalla Francia, su richiesta del governo prussiano, e si rifugia a Bruxelles. Più tardi insieme ad Engels si unisce alla Lega dei giusti, che i due fanno ribattezzare Lega dei comunisti. Per quella organizzazione scrivono il famosissimo Manifesto del partito comunista, che esce nel febbraio 1848, mentre si avvia un ciclo rivoluzionario destinato a sconvolgere l’Europa. Marx, cacciato dal Belgio, torna a Colonia, dove dirige il quotidiano «Neue Rheinische Zeitung», ma il prevalere delle forze reazionarie lo costringe nel 1849 a fuggire a Londra e nel 1852 a sciogliere la Lega dei comunisti.
Nella capitale britannica Marx vive con la famiglia in condizioni di grave indigenza, alleviate dall’aiuto di Engels, e pubblica scritti storici sulle vicende francesi del periodo 1848-51, ma soprattutto si dedica allo studio del sistema industriale. Il frutto più maturo del suo lavoro è il primo libro del Capitale, pubblicato nel 1867: gli altri due libri di questa critica dell’economia borghese usciranno postumi a cura di Engels.
Dal 1864 al 1872 Marx è la figura più importante della Prima Internazionale dei lavoratori, dove si trova in dissidio con gli anarchici, capeggiati dal russo Mikhail Bakunin. Nel 1871 prende le difese della Comune di Parigi, esperienza socialista repressa nel sangue. Poi segue dall’esilio con occhio critico le vicende del movimento operaio in Europa. Muore il 14 marzo 1883.

il manifesto 3.5.18
A quarant’anni dalla legge Basaglia
Fra normale e patologico una frontiera sensibilmente politica
A cura di Vittorio Lingiardi e Nancy Mc Williams, il «Manuale Diagnostico Psicodinamico», da Cortina
di Franco Lolli


A quarant’anni dalla legge Basaglia, che venne varata il 13 maggio del 1978, uno sforzo ancora ci attende: riaffermare non solo la dimensione soggettiva del fenomeno psicopatologico, ma anche il suo profondo legame con la struttura macro-sociale di cui è espressione. Si tratta – come scrive Mark Fisher, in Realismo capitalista – di «ripoliticizzare la malattia mentale»: la diagnosi psicologica deve intrecciarsi a quella sociale (e, più in generale, politica) del fenomeno psicopatologico e a una simultanea analisi critica delle dinamiche (economiche, in special modo) che ne sono, in parte, all’origine.
In assenza di questa attenzione, gli operatori della salute mentale corrono il rischio di mettersi al servizio di quelle che Günther Anders, già nella prima metà del secolo scorso, definiva le «potenze conformanti» (e dalle quali, inascoltata, metteva in guardia la psicoanalisi statunitense).
SAPPIAMO, del resto, che lo strumento diagnostico può trasformarsi in uno strumento di potere, della cui forza eventi drammatici della storia recente hanno chiaramente dato testimonianza. La domanda dalla quale partire riguarda sempre e comunque il limite oltre il quale l’eventuale eccentricità di una condotta (o di un pensiero) è da valutare come disturbo psichico. Questa questione investe i criteri che stabiliscono il confine tra la «normalità» e la «malattia», e pone una questione di enorme portata, perché pone le basi, per esempio, per stabilire (e autorizzare) la necessità di un intervento psicofarmacologico, oppure, l’opportunità di giustificare l’assenza dal lavoro causata da una dichiarata condizione di sofferenza psichica o, ancora, la possibilità di avviare una pratica assicurativa di riconoscimento del proprio stato di malattia. Ora, i parametri che fissano questa soglia mutano al mutare delle condizioni storiche, il che pone, evidentemente, questioni cliniche ed etiche di straordinario rilievo. La recente uscita, a cura di Vittorio Lingiardi e Nancy Mc Williams, della seconda versione del Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM-2, Cortina editore, pp. 1142, euro 89) offre lo spunto per una duplice riflessione sulla diagnosi in ambito psicopatologico, costituendo la risposta al famoso Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali e a quella che molti considerano la sua tendenza a una eccessiva medicalizzazione.
LINGIARDI e Mc Williams sembrano, in effetti, voler rettificare l’impostazione del manuale voluto dall’American Psychiatric Association introducendo, nella classificazione dei disturbi psichici, l’idea che espressioni esistenziali «fuori norma», se in grado di assicurare una certa tenuta dell’equilibrio della persona, non siano da iscrivere necessariamente nel registro del patologico. In questa prospettiva, il concetto di soglia della malattia tiene conto della particolarità di ciascuno di noi, e della nostra capacità di trovare soluzioni (anche se, a volte, bizzarre e non convenzionali) alla questioni che ci incalzano. Come scrivono gli autori nell’introduzione al volume, il Manuale Diagnostico Psicodinamico intende evidenziare «l’importanza di considerare chi è quella persona e non solo che cosa ha quella persona»: ed è proprio grazie a questa attenzione allo specifico funzionamento psichico di soggetti diversi che la valutazione della diagnosi diventa uno strumento di conoscenza, piuttosto che di catalogazione.
SPETTA AL CLINICO – ed è questa la seconda riflessione che si impone – un uso ragionato e ragionevole di questo strumento: un uso, cioè, che non colluda – anche se inconsapevolmente – con la tanto silenziosa quanto insidiosa richiesta del sistema socio-culturale dominante di medicalizzare a tutti costi il disagio e di cancellare le differenze soggettive, per uniformare gli esseri umani al modello del «cittadino consumatore» che sostiene l’attuale regime economico. L’operazione diagnostica, in psicoanalisi, non deve misurare lo scarto dalla norma: serve invece a indicare il modo in cui ogni singolo essere umano «se l’è cavata» con le sue questioni più radicali, con il desiderio e le attese dell’altro, incarnato tanto nelle figure genitoriali, quanto nei messaggi (educativi, culturali, valoriali, e così via) di cui ogni essere umano è, sin dalla sua nascita, involontariamente destinatario. Come ci ha ricordato Mark Fisher, il sistema «nutre e riproduce» strutture di funzionamento collettivo che, inevitabilmente, riverberano i loro effetti sul piano individuale.
LA DIFFUSIONE di sintomatologie psichiche (per esempio i disturbi infantili dell’attenzione e dell’apprendimento, le sindromi depressive, i quadri clinici bipolari, il fenomeno degli attacchi di panico, l’ampio spettro delle dipendenze) non può, dunque, essere correlata ai soli fattori costituzionali o biografico-familiari, ma deve tener conto del sistema economico-culturale nel quale quelle specifiche patologie proliferano. Occorre prendere atto del contesto politico entro cui il disagio psichico si produce: associare, cioè, la valutazione diagnostica in senso psicopatologico a quella del sistema socio-economico del quale esso è, in una certa misura, il prodotto.

il manifesto 3.5.18
Tutti armati fino ai denti
Rapporto Sipri. Le spese militari crescono a 1.739 miliardi di dollari, pari al 2,2% del Pil mondiale Pesante riarmo soprattutto di Arabia Saudita Francia e Cina. Il rapporto del Sipri
di Rachele Gonnelli


L’orologio della guerra, la celebre timeline del Doomsday Clock, che segna il cronometro che ci separa dell’apocalisse atomica, bellica o climatica, fissata dagli scienziati dell’Università di Chicago segnala che nel 2016 la lancetta era distante tre minuti dalla «mezzanotte» cioè dalla fine del mondo, nel 2017 si era spostata a due minuti e mezzo e nel 2018 è andata ulteriormente avanti, a due minuti dal disastro.
Più o meno lo stesso andamento della spesa mondiale per gli armamenti e i sistemi d’arma, sempre più tecnologici e sempre più automatizzati, tanto che adesso si sperimentano droni bellici a riconoscimento facciale, micro soldati-robot.
Il rapporto 2018 del Sipri, cioè dello Stockholm international Peace Research Institute, pubblicato ieri, segnala come il Medioriente (+ 6,2% di spesa la regione, + 19 l’Iran e + 22% l’Iraq) sia il vero pozzo di San Patrizio per le industrie armiere anche in questa fase di ribassi dei prezzi petroliferi. «A livello planetario il peso della spesa militare si sta chiaramente spostando dalla regione euro-atlantica», sintetizza Nan Tian, ricercatrice del Sipri.
LE NUOVE ROTTE dei commerci di strumentazioni militari si dirigono sempre più verso Cina e Arabia saudita. Il regno guidato da MbS, con l’abbreviazione con cui viene chiamato il giovane e spigliato rampollo della famiglia Saud, il principe ereditario Mohammad bin Salman ha aumentato la spesa militare nel 2017 del 9,2 % e portato Riyad d’un balzo al terzo posto nel mondo per produzione e acquisti di armi. Un valore tra l’altro sottostimato, visto che una parte di questa spesa – quella stimata è pari a 69,4 miliardi di dollari – come quella che serve a finanziare le milizie jihadiste, passa per canali non del tutto tracciabili.
GLI STATI UNITI di Donald Trump – che di recente ha omaggiato il suo principale alleato MbS di una accoglienza principesca a Washington – si attestano per il momento al vertice della top ten. Gli Usa restano leader mondiali almeno della spesa bellica, con investimenti pari a 610 miliardi di dollari. La quota risulta invariata rispetto al 2016 ma «la tendenza al ribasso delle spese militari statunitensi iniziata nel 2010, si è conclusa», certifica Aude Fleurant, direttrice del programma Sipri-Amex.
E nel 2018 le cifre aumenteranno significativamente per sostenere gli aumenti nel personale militare e la modernizzazione delle armi convenzionali e nucleari. In più c’è da considerare che disinvestendo sulla Nato, gli Usa hanno «cartolarizzato» agli alleati europei una parte degli oneri.
LA FRANCIA in effetti è già in pieno riarmo, nel 2017 è diventata il sesto paese al mondo in questo campo, come sottolinea Le Monde, anche se è stata superata dall’India, che è quinta. Ma è solo l’inizio per entrambi i Paesi. Parigi con un plafond attuale di 57,8 miliardi di dollari di budget per la difesa, pari al 2,3 per cento del suo Pil, ha intrapreso piani di ammodernamento tecnico per il 2025 che la porteranno a mantenere gli stanziamenti al 2% del Pil, come la Nato vorrebbe facessero tutti gli alleati.
L’EUROPA, complessivamente, ha una parte imponente della spesa armiera: nei 29 Paesi l’anno scorso hanno impiegato così 900 miliardi di dollari, il 52% della torta mondiale. Il trend è più accentuato nell’ Europa centrale, dove la crescita è pari al 12 %, con l’alibi della minaccia russa in Ucraina e nella zona danubiana. Minaccia che però al momento non c’è. Il Sipri avverte i che Mosca ha diminuito il budget per il suo esercito per la prima volta dal 1998, una decrescita del 20 per cento fino a 66,3 miliardi di dollari a causa – spiega il ricercatore senior Siemon Wezenam – «dei problemi economici che il Paese vive dal 2014».
L’ITALIA questa volta purtroppo non è fanalino di coda. Vede un rialzo del2,1 per cento, come aveva certificato il rapporto Milex della Rete Disarmo. E la Germania una crescita del 3,5 per cento.
LA CINA ha raggiunto la vetta della classifica, è seconda per volumi dopo gli Usa, con 228 miliardi di dollari, e intende investire ancora con “buona pace” dei venti di pace tra le due Coree. Mentre l’India ha piani molto ambiziosi. Il nuovo regime ultra induista di Narendra Modi, come segnala l’Agenzia Nova, intende passare da essere il principale importatore – deriva dall’estero il 65 per cento delle armi in dotazione all’esercito indiano, in gran parte da Usa e Israele – a esportatore di componenti e prodotti finiti attraverso joint venture e una rete di fornitori, subfornitori, micro fornitori della sua industria bellica principale, statale, attraverso il programma governativo Make in India per l’innovazione del suo sistema produttivo. Per il momento secondo l’Institute for Defence Studies and Analysis la spesa bellica va quasi tutta in stipendi e pensioni e tolte quelle dal 2,1 si passa all’1,6 per cento del Pil in spese per la difesa.

il manifesto 3.5.18
Terroristi, estrema destra e militari: prolifera il mercato nero delle armi
Europa. Sempre più facile procurarsi un'arma da fuoco: l'allarme nel rapporto del Flemish Peace Institute. Il Belgio uno dei paesi più toccati dal fenomeno; In Italia a gestire il traffico sarebbe la mafia
di Gabriele Annicchiarico


BRUXELLES Procurarsi un’arma da guerra sarebbe sempre più facile sul territorio europeo. È l’allarme lanciato dal rapporto Firearms acquisition by terrorists in Europe, presentato al Parlamento fiammingo (una delle regioni federali del Belgio) la scorsa settimana dal Flemish Peace Institute. E proprio il Belgio sarebbe uno degli Stati in cui più facilmente si possono acquistare armi da fuoco, leggere o da guerra, forte di uno dei mercati neri fra i più proliferi del continente.
Una reputazione nota da tempo e che aveva spinto, nel 2010, un quotidiano locale, La Dernière heure, a mostrare quanto facile fosse l’acquisto di un’arma, inviando un giornalista camuffato da acquirente alla ricerca di un kalashnikov. Una missione, ripresa in un reportage, che aveva fatto scalpore, compiuta in pieno giorno e in meno di sei ore.
Secondo il rapporto, la maggior parte delle armi oggi presenti sul mercato nero proviene dai Balcani, come diretta conseguenza della fine del conflitto degli anni ’90. La maggior parte sarebbero in dotazione a organizzazioni criminali e in parte forse anche a individui appartenenti o simpatizzanti dell’estrema destra.
«Parliamo soprattutto di armi da fuoco leggere usate da organizzazioni criminali e in misura minore di armi da guerra come i kalashnikov, commercializzate sotto forma di armi acustiche disattivate, ma che possono essere attivate con facilità da esperti e gruppi criminali», spiega Nils Duquet, ricercatore e relatore del rapporto.
Queste armi sarebbero infatti state acquistate dai fratelli El Bakarauoi, morti kamikaze negli attentati di Bruxelles del 22 marzo 2016 e usate per compiere gli attentati di Parigi del 15 novembre 2015. «I fratelli El Bakraoui rappresentato i prototipi degli utilizzatori d’armi da fuoco, passati dalla piccola alla criminalità organizzata e poi migrati nelle frange jihadiste», precisa Duquet. Sarebbero state acquistate in Slovacchia, dove una legislazione soft avrebbe permesso ai gruppi terroristici di armarsi. Flusso che raggiunge spesso paesi come Belgio, Olanda e Francia.
Un fenomeno che coinvolge anche simpatizzanti dell’estrema destra, «individui che spesso riescono ad acquisire armi depotenziate per vie legali», precisa Duquet, che aggiunge: «È questo un fenomeno che riguarda anche persone appartenenti alle forze armate, affascinate dall’estrema destra e in grado di attivare queste armi acustiche; in Germania ad esempio sarebbero 400 i militari sotto sorveglianza dall’intelligence perché considerati potenzialmente a rischio».
In Italia il mercato nero delle armi sarebbe altrettanto prolifero, per lo stretto rapporto fra organizzazioni criminali italiane e albanesi. La vendita delle armi sarebbe gestita direttamente dalle organizzazioni mafiose che però non vendono (almeno direttamente) questo tipo di armi a organizzazioni terroristiche, limitando (per così dire) il mercato alle sole organizzazioni criminali.
Un’azione repressiva per limitare il fenomeno, si legge nel rapporto, dovrebbe passare per un ruolo di primo piano di Europool (la polizia europea) che però trova grossi limiti nella bassa collaborazione fra Stati membri.
«Un’azione efficace dovrebbe passare per una maggiore collaborazione fra le strutture di intelligence degli Stati e da una armonizzazione delle legislazioni in materia di possesso d’armi da fuoco, al fine d’evitare che in alcuni Stati sia più facile entrare in possesso di armi da fuoco», conclude Duquet.

il manifesto 3.5.18
Serve una prova di lealtà costituzionale
Governo . Il parlamento è, per colpa esclusiva della legge elettorale, in una situazione di stallo. E, per uscirne, altro rimedio non esiste all’infuori di quello che prevede la scrittura di una nuova formula per ripetere le elezioni evitando, con fantasiosi accorgimenti tecnici, che il popolo ancora sbagli
di Michele Prospero


La fabbrica delle ideologie, come coscienza falsa, è pronta a riaprire. E quindi già si ripresentano in parlamento i soliti progetti per il passaggio al presidenzialismo. Anche una nuova legge elettorale (la sesta) è invocata per risolvere il male della ingovernabilità. Insomma: la solita retorica sulla riforma delle istituzioni, come pozione salvifica, che dura da trent’anni.
Un accanimento così testardo postula che il voto di marzo sia stato un incidente, risolvibile solo con altre prove tecniche di semplificazione.
Gli elettori, che non hanno visto il bene supremo del vincitore incoronato a urne chiuse, vanno invitati a ripetere le operazioni di voto. Tocca però prima al grande riformatore sciogliere il nodo. Il parlamento è, per colpa esclusiva della legge elettorale, in una situazione di stallo. E, per uscirne, altro rimedio non esiste all’infuori di quello che prevede la scrittura di una nuova formula per ripetere le elezioni evitando, con fantasiosi accorgimenti tecnici, che il popolo ancora sbagli.
Questa pretesa di correggere, con alchimie strane, la volontà popolare insensibile è assurda. Anche con il meccanismo elettorale più selettivo, all’inglese, che viene celebrato dagli apprendisti stregoni come garanzia di governabilità, a marzo avrebbe consegnato una situazione di perfetto equilibrio. Le tre forze hanno infatti riportato, anche nei 231 collegi uninominali, una quantità di voti che esclude una loro traduzione in seggi tale da regalare il nome del vincitore al calar della sera. Proprio come accaduto nella quota proporzionale con le liste bloccate, anche nei collegi uninominali all’inglese si conteggiano 111 seggi per la destra, 93 per il M5S, e 28 per il centro sinistra. Nessuno dei tre poli ha raggiunto la maggioranza assoluta.
Il difetto dell’attuale sistema misto non è certo quello di aver mancato di santificare il vincitore (peraltro non lo ha espresso per un soffio, e se solo la Sicilia avesse confermato il voto delle regionali di qualche mese prima, la destra sarebbe andata vicina alla conquista della maggioranza assoluta). Il deficit della normativa vigente riguarda la lista bloccata, l’assenza del voto disgiunto. Il nome del capo politico eletto rientra invece in una aspettativa illusoria collegata alla nefasta cultura della democrazia «immediata», che danni immensi ha già prodotto nella struttura della forma di governo.
Quale che sia la tecnica elettorale, in nessun sistema parlamentare, anche quello che prevede il doppio turno o il maggioritario secco di tipo anglosassone, con il voto si elegge il governo. In presenza di tre poli incomunicanti, la responsabilità delle scelte, per superare la paralisi, non ricade su pretesi vincoli dettati dalla legge elettorale, ma solo sulla testa della leadership politica. Il Pd, che rifiuta contrattazioni con il M5S e invoca il doppio turno (come terza forza sarebbe residuale ancora più di adesso), vuole semplicemente che ciò che ai parlamentari è precluso, l’intesa con altre forze, piombi sulle mani degli elettori, costretti a compiere scelte costose riversando i voti sul meno peggio che accede al secondo turno.
Il parlamento è il naturale luogo dei compromessi, alla luce dei rapporti di forza. Il Pd non può che prendere atto della situazione per cui un governo (uno qualsiasi, anche quello di tregua, di scopo, di garanzia, ponte) va concordato con uno dei due vincitori. Lega e M5S hanno avuto una forza parlamentare per cui, senza il sostegno in aula di uno dei gruppi, non si fa maggioranza. E quindi tocca al Pd valutare chi, tra i due vincitori, è più compatibile per siglare una intesa programmatica minima che operi nel solco di essenziali valori costituzionali.
La proclamazione di una destinazione naturale all’opposizione, perché tocca solo ai due più grandi partiti vedersela tra loro (avrebbero stretto l’alleanza senza l’incomodo Berlusconi!), rasenta l’irresponsabilità istituzionale. Nel 2013 non fu così, il Pd cercò allora un governo di larghe intese con Fi, vista la indisponibilità del M5S a un governo del cambiamento. La questione non è di ordine di classificazione dei partiti al voto, ma è politica.
Consentire un governo, anche senza parteciparvi in maniera organica, è una prova di lealtà costituzionale cui il Pd non può sottrarsi. E il trucco di governi pseudo-tecnico-istituzionali (con Cassese?) concordati dai renziani con la destra avrebbe conseguenze catastrofiche. Al timore di una marginalizzazione, che certo potrebbe scaturire da un dialogo con il M5S, il Pd non può di sicuro rispondere con un arroccamento che consegnerebbe proprio al duello tra Di Maio e Salvini le condizioni per il consolidamento del nuovo bipolarismo.

il manifesto 3.5.18
Legge elettorale, le proposte impossibili
Rosatellum. Cambiare ancora il sistema di voto, per la terza volta in tre anni? Per Salvini e Meloni si può fare in "una riga" e "un pomeriggio". Ma il premio di maggioranza che immaginano è certamente incostituzionale
Schede elettorali, si riapre il dibattito sul sistema di voto
di Andrea Fabozzi


«Basta aggiungere una riga». «Si può scrivere in un pomeriggio». Si parla di cambiare la legge elettorale – sarebbe la terza volta in tre anni, la quinta in un quarto di secolo – e Salvini e Meloni la fanno molto facile. Troppo.
Che l’attuale legge sia pessima è fuori discussione. Lo dicono gli stessi partiti che l’hanno velocemente approvata sul finire della precedente legislatura. È il caso di ricordarli: Pd, Forza Italia, Lega e centristi di Alfano e di Verdini. A intestarsela è stato l’ex capogruppo del Pd alla camera Ettore Rosato, da qui il nome «Rosatellum». Con questa legge i seggi sono slittati da una circoscrizione all’altra rendendo imprevedibile il risultato delle scelte degli elettori e in definitiva penalizzando la rappresentanza del mezzogiorno. Con questa legge anche le donne sono state penalizzate, perché con un uso accorto di capilista e pluricandidature la rappresentanza femminile effettiva è rimasta sotto la soglia «minima» del 40% che era stata individuata per le candidature. Con questa legge si è prodotto uno spostamento di voti da un partito all’altro di cui ha beneficiato soprattutto il Pd, che ha ricevuto in dono quasi 900mila voti della lista +Europa rimasta sotto la soglia del 3% (avendo superato l’1%). Malgrado questo regalo, il Pd è il partito che ha perso di più. Con questa legge non sono stati assegnati definitivamente tutti i seggi, per il caso delle liste eccedentarie e perché a due mesi dal voto sono in piedi ancora decine di ricorsi: dovrebbero passare per le giunte delle elezioni di camera e senato se queste fossero composte. Con questa legge, infine, oltre tre milioni di voti sono rimasti senza rappresentanza (fermati dallo sbarramento) determinando una distorsione maggioritaria che si è sommata a quella prodotta dal meccanismo dei collegi uninominali: due distorsioni inutili visto che nessuna maggioranza si è potuta formare in parlamento.
Salvini sostiene che aggiungendo «una riga» alla legge Rosato si potrebbe ottenere una legge talmente maggioritaria da garantire i numeri per governare alla coalizione (o alla lista, non è chiaro) «che prende un voto in più». Salvini dovrebbe sapere che non è la brevità di una modifica legislativa a definirne la facilità di approvazione. Con una riga si può stravolgere qualsiasi testo e per approvare la modifica che propone il capo leghista dovrebbe trovare i numeri in parlamento, gli stessi che non riesce a trovare per governare. Oltre questo, si può certamente dire – malgrado la genericità della proposta – che una legge del genere sarebbe incostituzionale, perché la Consulta ha già bocciato (nel 2013) l’attribuzione di un premio di maggioranza «a chi arriva primo» senza nessuna soglia minima. Era il primo difetto della legge elettorale cosiddetta «Porcellum».
Appena un po’ più accorta la proposta di Fratelli d’Italia, già tradotta in un disegno di legge a differenza dei proclami leghisti. Eppure impossibile da discutere visto che non sono state ancora formate le commissioni parlamentari, altro che «basta un pomeriggio». La proposta prevede due soglie per attribuire il premio di maggioranza, il 37% dei voti validi darebbe diritto al 51% dei seggi alla camera; il 40% assegnerebbe il 54% dei seggi. Sulla costituzionalità della seconda soglia si può stare abbastanza tranquilli, dal momento che nel 2017 giudicando l’Italicum che la prevedeva identica al primo turno la Consulta non ha avuto nulla da ridire (ha bocciato invece il secondo turno). Sulla prima soglia invece qualche dubbio è lecito, visto che la Corte ha riaffermato l’obbligo di «proporzionalità» tra il «sacrificio» della distorsione della rappresentatività e l’obiettivo di favorire la formazione di una maggioranza. Nell’ipotesi di una soglia fissata al 37% come proposto da Meloni, l’entità del sacrificio è facilmente apprezzabile perché è esattamente la soglia raggiunta il 4 marzo dal centrodestra (un caso?). Con il Rosatellum (legge che già contiene un premio di maggioranza) la coalizione ha conquistato 262 deputati, un eventuale premio gliene regalerebbe altri 54. Prendendoli per la metà dal primo partito, il M5S. Senza garantire la possibilità di governare. Non basta un solo voto di maggioranza, sarebbe un’altra inutile ma pesante distorsione.

Corriere 3.5.17
Consultazioni o preincarico, l’ultima carta di Mattarella Il rischio urne a dicembre
Le ipotesi per «traghettare»: Gentiloni o una figura condivisa
di Marzio Breda


Se Sergio Mattarella parlasse in siciliano — cosa che non fa — direbbe che i partiti si stanno «annacando», si esibiscono cioè a produrre «il massimo di movimento con il minimo di spostamento», secondo la folgorante sintesi dello scrittore Roberto Alajmo. A Palermo la considerano un’arte, mentre per uno come il presidente è un atteggiamento molesto e irresponsabile. Perciò, scaduto il tempo concesso alla politica per associarsi in una maggioranza e dare un governo al Paese, domani tirerà le somme di questa lunga fase. Insomma: dopo aver atteso l’esito della direzione del Pd di oggi (ma ormai solo per sapere chi comanda lì dentro e sarà dunque il suo prossimo interlocutore, visto che l’ipotesi di alleanza con i 5 Stelle è sfumata), prenderà un’iniziativa.
Quale iniziativa? Non ha ancora deciso, ma potrebbe trattarsi di un giro «ultimativo» di consultazioni. A questo punto magari anche parziale. Il condizionale è d’obbligo perché restano ancora inevase troppe domande e aperte pochissime alternative. Soprattutto una: l’ipotesi — al momento assai nebulosa, comunque — di un preincarico sulla base di un’intesa tra centrodestra e Pd (o parte di esso), stavolta con la cooptazione della Lega. È un disegno coltivato quasi in segreto da Silvio Berlusconi, e infatti non è mai emerso pubblicamente. Ci lavora da settimane Gianni Letta e prevederebbe l’insediamento a Palazzo Chigi di Giancarlo Giorgetti, che con la sua vocazione mediatrice risulterebbe figura più rassicurante di Salvini, specie sul piano della proiezione internazionale.
Beninteso, perché si arrivi a un preincarico, la prassi prevede che i partiti spieghino a che titolo e con quali numeri lo chiedono. Per il capo dello Stato dovrebbe quindi esserci una situazione davvero nuova e aritmeticamente solida, stavolta, dopo che in questi due mesi sono state esplorate a vuoto tante altre strade. Insomma, qualora fosse sollecitato in extremis un mandato che si fondi appunto sull’idea di una riedizione del patto del Nazareno allargato alla Lega (che però fino a ieri gridava «mai con il Pd»), Mattarella potrebbe prenderlo in considerazione soltanto quando ne avesse verificato di persona la praticabilità. Per inciso: qualcuno sospetta che l’improvvisa disponibilità di Matteo Renzi per un esecutivo che modifichi la legge elettorale e faccia una riforma della Costituzione nasconda appunto un accordo già concertato con l’ex Cavaliere...
Veri, verosimili o falsi, sono scenari su cui entro domani si dovrebbe alzare il velo. Così come dovrebbero essere spazzate via altre residue variabili politiche, mentre cresce la preoccupazione del Quirinale. Escluso definitivamente il ritorno alle urne in estate, il presidente si concentra su alcune delicatissime scelte in campo economico che l’Italia sarà chiamata ad affrontare nei prossimi mesi. Due su tutte: la manovra finanziaria e l’aumento dell’Iva, che sarebbe utile evitare per i prevedibili effetti recessivi su bilanci delle famiglie, tenuta delle imprese e occupazione.
Il problema è che, anche se si aprissero le urne a ottobre, con l’attuale legge elettorale l’atlante politico non cambierebbe di molto. E, quel che è peggio, non ci sarebbe il tempo di fare le scelte che dovrebbero mettere in sicurezza il Paese. Meglio allora un governo che ci traghetti fino a dicembre? Sarebbe meglio, sì. Lo stesso Gentiloni potrebbe restarne alla guida, in proroga. O potrebbe farlo un’altra personalità che risultasse largamente condivisa. Si vedrà. «Purché tutti escano allo scoperto e dimostrino un’autentica volontà di collaborare», riflettono sul Colle. Sottinteso: smettendo di «annacarsi», fingendo di affrettarsi mentre in realtà tergiversano.

Il Fatto 3.5.18
Un Paese che teme il voto non può dirsi democratico
di Silvia Truzzi


È il caso che anche noi, nel senso del sistema dell’informazione, si faccia un po’ di autocritica per il livello, disarmante, del dibattito pubblico. Le ultime sciocchezze che occupano i giornali e i siti riguardano le “regole”, improvvisamente assurte al rango di oggetto sociale di un nuovo esecutivo che “scongiuri il voto”. Cioè: siccome non si riesce a fare un governo politico, ci propinano di nuovo la bufala del sistema che non funziona. E che per riscrivere le regole serve un nuovo esecutivo. D’accordo, siamo stati male abituati negli ultimi decenni: tutte le riforme di sistema sono state d’iniziativa governativa. Ma le regole sono materia parlamentare per eccellenza: dire che bisogna fare un governo con tutti dentro per riscrivere le regole è una truffa. In campagna elettorale mai si è parlato di riforme, i partiti si sono spesi in proposte politiche, ricette economiche soprattutto. Nessuno ha mai detto: se poi non si riesce, allora facciamo una bella riforma istituzionale. La quale serve solo a giustificare la nascita di un governo purchessia. Abbiamo qui più volte scritto che la revisione dei regolamenti del Senato ha raggiunto alcuni degli obiettivi che la riforma Boschi diceva di porsi (in realtà incasinando molto il sistema). Potrebbe, per cominciare, farlo anche la Camera dei deputati.
È auspicabile poi che il presidente della Repubblica rifletta bene sulle conseguenze che avrebbe somministrare al Paese l’ennesimo “governo non eletto”. Ci scusino i signori che nei talk show parlano per frasi mandate a memoria, se ci permettiamo di usare una formula scorretta: sappiamo come funziona un sistema parlamentare, abbiamo letto la Costituzione. Ma il punto è che un altro governo tecnico o di unità nazionale o delle larghe intese non solo sarebbe una presa in giro dei cittadini (che votiamo a fare?), ma anche una sconfitta della politica. Alla manifestazione del primo maggio, Susanna Camusso ha detto (ed è in ottima compagnia) che l’Italia non si merita un’altra tornata elettorale. “Mi sembra che il Paese non si meriti il voto in autunno, non ci si avvicina ai problemi del Paese continuando a invocare il voto: servono cose concrete. Mi pare che ci sia una responsabilità che le forze politiche devono assumersi, devono decidere su quale programma governare”. È vero certo, ma qui purtroppo abbiamo a che fare con una classe dirigente inadeguata, infantile, opportunista. Gente che intende la “responsabilità” come un salvagente per non annegare, e si tiene ben lontana dal concetto di responsabilità politica. Infatti i governi tecnici, o in qualunque modo li si voglia chiamare, servono prevalentemente ad attuare politiche che i partiti non vogliono vedersi imputare. Tira una brutta aria, un 2013 atto secondo. Ma certi cammini si sa quando cominciano e non si sa quando finiscono: potremmo beccarci altri cinque anni di governo “irresponsabile”, magari tenuto a galla da qualche “ineludibile” riforma. Tutto questo è francamente meno augurabile di un ritorno alle urne. Certo sarebbe meglio che i partiti facessero uno sforzo di maturità, visto che questa legge elettorale (ora disconosciuta da tutti) in Parlamento l’hanno votata loro. Ora dicono che bisogna cambiarla, attenzione, perché non c’è una maggioranza. Detto che il Rosatellum va modificato perché fortemente sospettato di incostituzionalità, non è per nulla scontato che un altro voto dia nuovamente lo stesso risultato. E soprattutto, un Paese che ha paura del voto dei suoi cittadini, dove è lecito qualunque compromesso pur di non votare, non è una democrazia sana.

Repubblica 3.5.18
I rapporti di forza
Tutti i big contro Matteo che ora teme il ribaltone
di Tommaso Ciriaco


ROMA «Stavolta vado fino in fondo», promette Maurizio Martina alla vigilia della resa dei conti in direzione. Lascia intendere che il Pd si trovi davvero a un passo dal ribaltone. E che, assieme al “club dei ministri” guidato da Dario Franceschini, non toglierà il piede dall’acceleratore, a costo di contarsi. «Non ci fermiamo», giura il ministro dei Beni culturali. Se non frena nessuno, l’impatto sarà inevitabile. Anche perché stavolta Renzi ci sarà. E, forse, parlerà.
È mattino quando la sottosegretaria Boschi decide di spostare gli equilibri interni con una raffica di telefonate ai parlamentari in bilico. «Ciao, sono Maria Elena, ti chiedo di sostenere il documento di Guerini. È importante, dobbiamo mostrare ai nemici di Matteo che non possono pensare di metterlo da parte con una manovra di palazzo». Non tutti sono membri della direzione, ma è utile alla causa mostrare che i gruppi di Camera e Senato sono comunque saldamente in mano renziana. La “sponsorizzazione” arriva subito all’orecchio dell’ala governista. E tutto precipita.
L’idea di Lorenzo Guerini, in realtà, era di limare un testo capace di sminare la conta interna. Volare alto, lasciare al reggente qualche margine per il nuovo round di consultazioni, cancellare lo scenario di un patto per la premiership di Di Maio. Ma non basta.
Per Martina, il problema è a monte. Lo spiega ai renziani che provano a mediare. «Sono stato delegittimato e adesso chiedo che la direzione mi legittimi per affrontare una fase così delicata. E certo non mi farò trascinare a parlare di un patto costituente che allo stato è lunare». Pretende un voto sulla sua relazione. E alla vigilia lavora a un testo ricco di dettagli scomodi sugli ultimi mesi del Pd, a partire dalle ragioni della sconfitta del 4 marzo.
I renziani non vogliono la conta. A metà pomeriggio scatta l’ordine, diretto contro alcune “pasdaran”: «Abbassate i toni sui social».
L’obiettivo è evitare che Martina si lanci in un’avventura ad alto rischio, con il rischio di sfasciare il Nazareno. Guerini ha in mano 124 firme dei 215 membri della direzione. E promette che lavorerà fino all’ultimo per la pace, creando le condizioni per far votare ai renziani - e dunque all’unanimità - la relazione del reggente. Ma lo scenario alternativo, quello del redde rationem, mette i brividi.
Si tratta del ribaltone. In realtà a Martina non servirebbe neanche vincere, ma perdere talmente bene (52% contro il 48%) da dividere il partito in due fette quasi esatte, mostrando la fine del dominio assoluto del capo di Rignano. Per mostrarsi determinato, Franceschini resuscita addirittura la sua corrente, Area dem, dando appuntamento per stamane ai suoi componenti più fedeli. Ma è l’elenco dei big che voltano le spalle a Renzi a impressionare, perché si allunga di ora in ora.
Il colpo più duro l’ha assestato Paolo Gentiloni. Va bene l’unità e pure il documento - ha confidato alla vigilia - ma è soprattutto «naturale» che tutti confermino il sostegno a Martina. Insieme al premier si muove una falange di pezzi da novanta accomunati da un giudizio più che negativo sulla sortita televisiva con cui Renzi ha ribaltato il tavolo di dialogo messo in piedi dal Colle. E allora, in ordine sparso, ci sono renziani, ex renziani o anti renziani come Piero Fassino e Walter Veltroni, Marco Minniti e Nicola Zingaretti, Sergio Chiamparino e Andrea Orlando, Michele Emiliano e Gianni Cuperlo, Stefano Bonaccini e Marianna Madia, sindaci come Beppe Sala e Virginio Merola. Né sono sfuggiti i distinguo di Debora Serracchiani, segno che la crisi è approdata nel cuore del renzismo. L’unica certezza, a questo punto, è che l’eventuale frattura in direzione imporrà il congresso.
«Se viene meno l’unità - promette Orfini - non posso che convocare l’assemblea nazionale. Penso il 12 maggio». In quella sede, o più probabilmente con un’assise autunnale, sarà scelto il nuovo leader. Se poi le Politiche arrivassero addirittura prima, toccherebbe proprio a Orfini proporre le liste elettorali alla direzione. E ci sarebbe modo di valutare la profezia di Renzi: «Sapete chi teme più di tutti il voto? Franceschini. E lo sapete perché? Perché i candidati li deciderò sempre io».

Il Sole 3.5.18
Le trattative in salita per un governo di responsabilità che arrivi a dicembre
di Lina Palmerini


Come è naturale al Quirinale sono giorni di grandissima preoccupazione. I tentativi per formare un governo politico fatti durante le consultazioni al Colle e, poi, con i due mandati esplorativi ai presidenti di Senato e Camera non hanno prodotto risultati e domani la parola ritorna a Sergio Mattarella. È stata valutata – e lo sarà ancora oggi – la possibilità di un pre-incarico a Matteo Salvini ma quello che ancora manca sono i numeri parlamentari e fatti nuovi che suggeriscano la possibilità di una maggioranza. Anzi, rispetto a qualche settimana fa la situazione è perfino peggiorata. Nel senso che con Di Maio si è arrivati ai ferri corti mentre si aspetta la direzione del Pd. Potrebbero arrivare segnali da lì per un appoggio a un governo di centro-destra? Può darsi ma quello che per primo ha escluso con sdegno i voti da Renzi è stato proprio Salvini. E dunque il pre-incarico (magari anche a Giorgetti) resta sullo sfondo mentre - seppure in salita - avanza l’idea di nuove consultazioni per un governo di responsabilità. Ecco, la giornata di oggi servirà al capo dello Stato per maturare un’ulteriore riflessione sulla scelta di venerdì.
Di certo il piatto forte sarà la direzione del Pd. Sia per i segnali che possono arrivare rispetto a eventuali appoggi al centro-destra o ai 5 Stelle ma soprattutto perché si aspetta un chiarimento sulla leadership. Chi sarà l’interlocutore del Colle? Sarà Maurizio Martina pienamente investito dal partito a condurre le trattative o sarà Renzi per interposta persona? È stato spiazzante sentire le aperture di Martina all’uscita delle consultazioni con Roberto Fico e poi ascoltare l’intervista di Renzi in Tv che ha chiuso ogni spazio. Capire chi avrà la titolarità a trattare, dopo un passaggio democratico e formale in un organismo del partito, è quindi un altro tassello per la decisione di Mattarella in una fase che diventa sempre più delicata.
I prossimi sei mesi, infatti, sono densi di appuntamenti europei e internazionali e già si discute della proposta di budget Ue per i fondi del 2021-2027, risorse cruciali anche per l’Italia eppure nessuno si preoccupa di avere un Governo operativo che se ne occupi. Aspetti che invece il Quirinale ha ben presente e che lo inducono a ragionare su un governo di tregua – o meglio di responsabilità – per arrivare almeno a fine dicembre, dopo aver votato la legge di bilancio italiana. E questa potrebbe essere la sua scelta di domani, cominciare a impostare un giro di consultazioni per costruire questa ipotesi magari guidata da uno dei presidenti delle Camere.
Non è semplice anche questa via d’uscita, anzi, le trattative partono già in salita visto che i 5 Stelle, dopo aver sperimentato due negoziati andati a vuoto, si sono irrigiditi sulla posizione del voto subito. E dunque chi voterebbe questo Esecutivo? Salvini oscilla tra il sì al governo di scopo per fare la legge elettorale e il ritorno al voto subito. Quel che è certo è che prima dell’estate non si torna alle urne, potrebbe accadere in autunno a settembre-ottobre e si ragiona pure sulla possibilità che resti il Governo Gentiloni. Ecco, Mattarella forse potrebbe mettere i partiti di fronte a questa scelta: la permanenza dell’attuale Esecutivo e il rischio di esercizio provvisorio. Oppure la responsabilità di fare un Governo e un bilancio che servirà a non far aumentare l’Iva degli italiani.

Corriere 3.5.18
Milano Oggi e domani un convegno sulla contestazione studentesca nell’università che ne fu protagonista
Il Sessantotto prima del Sessantotto Così la scintilla scoppiò alla Cattolica
di Carlo Baroni


Veniva da lontano. Ma arrivò quasi inaspettato. Tempi e luoghi sembravano sbagliati. Il Sessantotto degli studenti cattolici è stato un’altra cosa. A guardarlo con gli occhi della Storia non poteva che essere così. L’essenza del cristianesimo è (dovrebbe essere) rompere con la tradizione, avere uno sguardo nuovo sul mondo. Un imprinting che riaffiorò prepotente in quegli anni. Towards 1968: catholic students in Europe during the Sixties è il tema del convegno in programma oggi e domani all’Università Cattolica di Milano.
Proprio l’ateneo di largo Gemelli fu l’epicentro di una rivolta che non rimase a lungo solo giovanile e solo studentesca. E anche dire Sessantotto è, in parte fuorviante. Come ricorda la storica Marta Busani, una delle relatrici. I germi si potevano rintracciare addirittura dieci anni prima: nel 1958. Quando gli studenti dell’Azione cattolica milanese scrivevano sul loro giornale: «Siamo giovani […]. Abbiamo uno spirito sufficientemente libero per ribellarci a ogni imposizione, per non venderci al conformismo in cambio della tranquillità e del quieto vivere». In più quella cattolica era una vera rete internazionale, un movimento globale decenni prima della globalizzazione. Una rivolta che prendeva i toni e i colori dei Paesi dove sfociava. La «guerra» alla società del benessere dei ragazzi dell’Occidente diventava la lotta contro le dittature in Sudamerica e dei gruppi sotterranei che si battevano contro l’oscurantismo anti religioso dei regimi dell’Est europeo.
In Italia, a Milano, in Cattolica «il movimento studentesco prese di sorpresa la classe dirigente che scelse il rifiuto del dialogo e la repressione» scrive Luciano Pero, che di quel movimento è stato uno dei leader. Ma non dimentica di evidenziare anche le colpe, gli errori di chi rivendicava più diritti e giustizia. «Il movimento sbagliò a non concedere alle classi dirigenti il tempo della riflessione, del confronto, della decisione politica». Errori legati all’anagrafe, alla voglia di fare, di avere tutto e subito. Nell’ateneo ambrosiano si andava a intaccare anche un’impostazione culturale medievalista, di «opposizione totale al modernismo e al comunismo». Lo scontro era inevitabile. Il big bang, l’occupazione della Cattolica nel novembre del 1967. In anticipo sulla scintilla che avrebbe incendiato il mondo. Una rivolta di cattolici che però non contestò, quasi mai, l’autorità dei vescovi. Nessuno aveva sprangato le finestre al nuovo vento del Concilio.
La storica Maria Bocci riflette sul perché il Sessantotto nacque proprio in Cattolica e per quali motivi «molti dei più attivi contestatori e dei giovani più sensibili al mito rivoluzionario provenissero dal cattolicesimo organizzato e fossero ospitati nei collegi universitari che erano, da sempre, il fiore all’occhiello dell’Università fondata da padre Gemelli, studenti per i quali l’Ateneo del Sacro Cuore, in forza della sua stessa qualificazione confessionale, avrebbe dovuto essere il cuore pulsante della protesta». Fu una risposta a una «domanda incessante di autenticità». Il sociologo Bruno Manghi individua i germi del disagio: «Tanti problemi sociali, educativi, economici “bussavano” da decenni alla porta della Chiesa, delle chiese e delle realtà cristiane: — scrive — erano il portato di bisogni e problemi irrisolti, già dall’inizio del Novecento cattolico, oltre i drammi del modernismo». E mezzo secolo non è bastato a dare risposte convincenti.

il manifesto 3.5.18
La “storia” di Abu Mazen, frasi antisemite di un presidente finito
Israele/Palestina. Le considerazioni del leader dell'Anp sugli ebrei come causa, per le loro attività bancarie e finanziarie, dell'Olocausto hanno scatenato reazioni globali. Il premier israeliano Netanyahu non aspettava altro per demolire la sua immagine e quella dei palestinesi
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Abu Mazen non è un antisemita. La sua storia politica e personale – nel 2014 ‎condannò l’Olocausto come il crimine più odioso in risposta a chi gli ‎contestava le tesi contenute del suo controverso dottorato su Israele – dice non è ‎contro gli ebrei e neppure contro lo Stato di Israele con il quale, invano, ha cercato ‎di raggiungere un accordo per 25 anni. Piuttosto il presidente palestinese è uno ‎‎”stolto”, e abbiamo scelto un termine soft al posto di altri più appropriati. Uno ‎stolto per ciò che ha detto sulle ragioni dietro l’Olocausto nel suo discorso a ‎Ramallah davanti al Consiglio nazionale palestinese. Uno stolto per i danni ‎d’immagine, e non solo, che ha provocato al suo popolo, esposto ieri ad accuse ‎ingiuste, senza fondamento, da parte di chi non perde occasione per disumanizzarlo. ‎Abu Mazen da lungo tempo è inadeguato alla carica di presidente del popolo ‎palestinese. E con quest’ultima uscita ha confermato di essere dannoso per la sua ‎gente. Se fosse nel pieno delle sue facoltà capirebbe che l’unica soluzione è farsi ‎subito da parte e lasciare ad altri il compito di ridefinire strategie e politiche volte a ‎liberare i palestinesi.‎
 All’inizio del suo discorso Abu Mazen ha fatto riferimento al Sionismo e alla ‎creazione dello Stato per gli ebrei come a un progetto coloniale. Su questo il ‎dibattito storico in effetti è aperto da lungo tempo. Persino alcuni accademici ‎israeliani ebrei di fama internazionale, come Ilan Pappè, affermano che il Sionismo ‎fu un movimento coloniale e non solo nazionalista come invece, per decenni, ha ‎ripetuto la storiografia ufficiale. Poi Abu Mazen ha dato a chi lo ascoltava quella ‎che ha descritto come una «lezione di storia» affermando che lo sterminio degli ‎ebrei, l’Olocausto, non fu causato dall’antisemitismo di Hitler e dei nazisti ma dalla ‎‎«funzione sociale‎» degli ebrei legata alle loro professioni che riguardavano il ‎prestito di denaro e le banche‏.‏‎ Un classico stereotipo antisemita che ha scatenato ‎reazioni a raffica, in Israele e in Occidente. Abu Mazen che guarda all’Europa ed agli ‎Usa per garantire la sopravvivenza dell’Autorità nazionale palestinese impopolare e ‎sottomessa a Israele, non sa che questi temi toccano le corde più sensibili in ‎Occidente. Ha scatenato la hasbara (la diplomazia pubblica) israeliana con il suo ‎comportamento abituale: non ascolta, non si consulta prima di agire, non tiene in ‎considerazione le decisioni degli organi istituzionali palestinesi. Ai membri del ‎Consiglio Nazionale che si è riunito lunedì a Ramallah, Abu Mazen non avrebbe ‎dovuto dare delle ‎«lezioni di storia» ma annunciare nuove strategie alternative agli ‎Accordi di Oslo, la volontà di andare ad una riconciliazione vera e defintiva fra tutte ‎le fazioni politiche palestinesi. Avrebbe dovuto proporre nomi nuovi per rinnovare ‎la leadership, chiedere spazio per i rappresentanti del movimento popolare ‎palestinese che vediamo in azione in queste settimane a Gaza. Avrebbe potuto ‎dichiarare la fine del suo embargo di Gaza – basta quello israeliano ed egiziano – o, ‎rispettando ciò che da anni gli chiede la sua gente, sospendere la cooperazione tra i ‎servizi segreti dell’Anp e di Israele. In assenza di tutto ciò le sue dichiarazioni ‎secondo cui la strada per lo Stato palestinese passerà attraverso la lotta popolare non ‎armata in parallelo con passi diplomatici, non solo altro che frasi cerimoniali.
 Il primo ministro israeliano Netanyahu, invitato a nozze, lo ha fatto a pezzi. ‎«A ‎quanto pare il negazionista dell’Olocausto è ancora un negazionista dell’Olocausto. ‎Invito la comunità internazionale a condannare il grave antisemitismo di Mahmoud ‎Abbas (Abu Mazen). Con un picco di ignoranza e faccia tosta, ha dichiarato che gli ‎ebrei d’Europa non son stati perseguitati perché ebrei, ma perché prestavano denaro ‎su interesse», ha detto Netanyahu, che sa bene che anche per questi temi passa la ‎demolizione dei diritti dei palestinesi. Qualche anno fa Netanyahu definì il mufti ‎islamico di Gerusalemme Hajj Amin al Husseini, un accanito oppositore della ‎fondazione di Israele, l’ispiratore della “soluzione finale”, lo sterminio del popolo ‎ebraico messo in atto da Hitler. Una tesi smentita da storici israeliani ed ebrei ma ‎che ha lasciato il segno. Simili le condanne giunte da altri esponenti israeliani. Poi è ‎stata la volta dell’amministrazione americana, con la quale i palestinesi hanno rotto i ‎rapporti dopo che in dicembre Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale ‎d’Israele. ‎«La pace non si può costruire su queste fondamenta‎», ha scritto su Twitter ‎l’inviato americano per i negoziati, Jason Greenblatt. L’Unione europea da parte sua ‎ha detto di considerare “inaccettabili” le dichiarazioni fatte dal presidente ‎palestinese. ‎«Questa retorica – ha scritto l’Ue – farà soltanto il gioco di chi non ‎vuole una soluzione con due stati, che Abbas ha ripetutamente sostenuto‎». ‎

La Stampa 3.5.18
Abu Mazen: l’Olocausto causato dagli ebrei
Il leader dell’Anp dinanzi al Consiglio palestinese: perseguitati perché praticavano l’usura e attività bancarie simili
di Giordano Stabile


Una «lezione di storia» che ha affossato la credibilità del presidente palestinese Abu Mazen più di mille sconfitte. L’82enne leader si è lasciato andare, la sera di lunedì, a una divagazione sull’antisemitismo e le persecuzioni degli ebrei che ha suscitato un’ondata di indignazione in tutto il mondo e allontanato ancor più l’ipotesi di un rilancio dei negoziati di pace con Israele.
Il momento era importante, e sotto i riflettori dei media, perché Abu Mazen parlava agli oltre 700 rappresentanti del Consiglio nazionale palestinese, un organo rappresentativo di tutte le fazioni, riunito dopo nove anni in vista del trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, il 14 maggio.
Abu Mazen sta cercando di ricompattare in tutti i modi il fronte palestinese. Ha parlato a fiume, per oltre un’ora e mezza, e a un certo punto ha affrontato anche la storia degli ebrei in Europa, e le persecuzioni costanti che hanno subito «fin dall’anno 1100». E qui il leader si è lasciato andare. È tornato su temi già affrontati quando era studente a Mosca. Tutte le persecuzioni, fino all’Olocausto, ha spiegato, non sono state provocate dall’odio per gli ebrei ma dalla loro «funzione sociale», cioè dal fatto che praticavano «l’usura e attività bancarie simili».
Abu Mazen ha citato alcuni testi controversi. Gli ebrei «nell’Europa dell’Est e dell’Ovest», ha continuato in diretta tv, sono stati soggetti a massacri e pogrom: «Ma perché è successo? Loro dicono: perché siamo ebrei. Ma io vi posso portare tre autori ebrei con tre libri che dimostrano come la ragione sia un’altra, cioè la loro funzione sociale, l’usura e attività bancarie simili». Abu Mazen non ha specificato titoli e nomi ma ha comunque toccato uno dei peggiori cliché antisemiti, «l’ebreo usuraio» manovratore della finanza mondiale.
La reazione del premier israeliano Benjamin Netanyahu è stata immediata. Il suo portavoce ha dichiarato che le affermazioni di Abu Mazen «sono antisemite e patetiche». Il viceministro per la diplomazia Michael Oren ha sottolineato con sarcasmo come il leader palestinese sia convinto «che i banchieri ebrei hanno provocato l’Olocausto: ora possiamo dire di avere un partner per concludere un accordo di pace». Ed è questo il primo effetto dello scivolone che ha indignato e allarmato l’Europa, su posizioni più vicine ai palestinesi rispetto agli Stati Uniti.
La Germania ha ribadito di essere contraria a «qualsiasi relativizzazione» della Shoah, con un messaggio su Twitter del ministro degli Esteri Heiko Maas. Il capo della diplomazia dell’Ue Federica Mogherini ha parlato di «commenti inaccettabili sulle cause dell’Olocausto e sulla legittimità d’Israele». «Una tale retorica - ha aggiunto la sua portavoce - non farà che giocare a favore di coloro che non vogliono una soluzione a due Stati». Cioè gli estremisti di Hamas ma anche settori del governo israeliano e dell’Amministrazione americana. Il vecchio raiss è sempre più solo e poco gli è valso, in questa tempesta, aver imposto il suo vecchio braccio destro Nabil Shaath come più probabile successore.

Il Fatto 3.5.18
Abu Mazen incendiario per non sparire
L’Olocausto giustificato - Il leader palestinese sotto accusa per le frasi antisemite
Abu Mazen incendiario per non sparire
di Roberta Zunini


Dopo ben vent’anni, lunedì s’è riunito a Ramallah il Consiglio Nazionale palestinese. Un evento nei Territori Occupati dove le elezioni vengono posticipate da anni e la nomenklatura al potere da decenni non ama fare riunioni a porte aperte tra le diverse anime politiche dei palestinesi. Nei 90 minuti d’intervento in diretta tv il presidente dell’Anp Abu Mazen, malato e sempre più impopolare, ha inanellato una serie di considerazioni “esplosive” verso Israele.
Alla vigilia del controverso trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme (14 maggio) e della commemorazione della Nakba (la “cacciata” 70 anni fa dei palestinesi da parte del nuovo stato israeliano, il 15, ndr) Abu Mazen prova a ingraziarsi ancora una volta l’indifferente opinione pubblica palestinese, che guarda piuttosto con favore ad Hamas, il movimento islamico al governo di Gaza o quantomeno vorrebbe nuovi rappresentanti ritenendo Abu Mazen e il suo entourage corrotto e incapace. Dopo aver annunciato che è “arrivato il momento di disconoscere lo Stato di Israele”, pur avendo a lungo perorato la causa della necessità di riconoscerlo per poter negoziare la soluzione dei ‘due Stati’, ora l’ottuagenario raìs fa marcia indietro in extremis, aggiungendo una affermazione ritenuta dagli ebrei di tutto il mondo falsa e provocatoria. Ovvero che “non esiste una relazione fra gli ebrei e la terra di Israele”, definendo lo Stato ebraico un “prodotto coloniale” britannico. Abu Mazen che dopo la laurea in Siria andò a Mosca, allora capitale dell’Urss, ufficialmente per frequentare un master in Storia, ma secondo molti storici israeliani perché agente del Kgb, ha sempre avuto una posizione ambigua sulla Shoah arrivando a tessere le lodi del Gran Mufti Hussein di Gerusalemme, ammiratore di Hitler e diventato a un certo punto collaboratore dei nazifascisti. Il presidente palestinese ha anche detto che l’Olocausto è stato causato non per ritorsioni di tipo religioso o di razza contro gli ebrei ma per alcuni “comportamenti sociali” tenuti dagli ebrei, come “l’usura, le banche e cose del genere”.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ambasciatore americano David Friedman hanno accusato il leader palestinese di “essere un patetico antisemita”. Abu Mazen, secondo la Bbc, ha anche negato che gli ebrei di ceppo askenazita, che da sempre guidano Israele, siano semiti: “Gli askenazi non hanno alcun rapporto con i popoli semiti”. Secondo il direttore della Anti Defamation League, Jonathan Greenblatt, le dichiarazioni sono “antistoriche e pseudo-accademiche”.

Corriere 3.5.18
I rischi nella regione
l’inquieto maggio in Israele
di Paolo Mieli


Attenzione al maggio israeliano. Già domani saremo probabilmente costretti ad assistere al sesto venerdì consecutivo di incidenti lungo la frontiera tra Gaza e Israele. Gli scontri — che hanno già provocato oltre quaranta morti e cinquemila feriti (per i quali le Nazioni Unite hanno stigmatizzato l’«uso eccessivo della forza» da parte di Israele) — si protrarranno fino alla metà del mese di maggio quando, nel «giorno della Nakba» (in arabo «catastrofe», «cataclisma»), potrebbero trasformarsi in qualcosa di più impegnativo. I palestinesi chiamano queste manifestazioni «Grande marcia del ritorno», indetta in ricordo dell’uccisione, nel 1976, di sei loro connazionali che avevano protestato per la confisca di terre. Una «festa pacifica per non dimenticare» la definisce il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, funestata però, a suo dire, da «cecchini israeliani». Israele risponde sostenendo che l’ottanta per cento degli uccisi lungo la frontiera erano «membri attivi o fiancheggiatori di gruppi terroristici». Abu Mazen, pur senza prendere pubblicamente le distanze, si è mostrato perplesso sulle iniziative prese a Gaza. Poi, però, per rimettersi in sintonia con i tempi che si annunciano, si lascia andare a considerazioni antiebraiche davvero strabilianti: parlando a Ramallah al cospetto del Consiglio palestinese, in un discorso di novanta minuti ripreso integralmente dalla tv, Abu Mazen ha detto che gli ebrei la Shoah se la sono cercata.
Secondo lui quel che accadde agli israeliti ai tempi del nazismo non va ricondotto alla loro fede religiosa o appartenenza etnica (tra l’altro, a suo giudizio, gli ebrei ashkenaziti non sarebbero nemmeno semiti), bensì alle loro «funzioni sociali», vale a dire «usura, attività bancaria e simili». Ha aggiunto infine che lo Stato ebraico è un «prodotto coloniale» e in quanto tale meriterebbe di far la fine che hanno fatto tutte le entità simili. In che tempi? Il generale Abdolrahim Mousavi — dal fronte iraniano — pochi giorni fa ha detto che la distruzione di Israele dovrebbe essere realizzata «entro un massimo di 25 anni». «Entro un massimo», si noti bene.
Ma tutto deve essere ben visibile fin da adesso. Questo mese di maggio dovrebbe chiarire all’intero mondo arabo che è giunto il momento di vendicare la Nakba. Il 14 maggio cadranno i settant’anni dalla fondazione di Israele avvenuta nel 1948 in ottemperanza alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (29 novembre 1947) che stabiliva dovessero nascere in quella regione due Stati, uno ebraico (che nacque) e l’altro palestinese (che non nacque). Quel giorno, nell’ambito della ricorrenza, l’ambasciata degli Stati Uniti verrà trasferita a Gerusalemme, in seguito ad una decisione, dal fortissimo impatto simbolico, presa dal presidente americano Donald Trump nelle settimane immediatamente successive alla sua elezione (l’impegno lo aveva preso nel corso della campagna elettorale). Il 15 maggio, il giorno successivo, cadrà l’anniversario dei settant’anni della Nakba: in quella data l’intero mondo arabo ricorda la fuga dalla Palestina a cui furono costretti centinaia di migliaia di palestinesi, al termine della prima guerra arabo-israeliana (1948-1949). Negli ultimi anni anche importanti storici dello Stato ebraico, primo tra tutti Benny Morris, hanno riconosciuto le colpe del proprio Paese a danno dei palestinesi, gravissime colpe. Qualche altro storico ancor più radicale, come l’ex militante del Partito comunista israeliano Ilan Pappé, ha denunciato atti di vera e propria «pulizia etnica» commessi in quei frangenti dai propri connazionali. È stato più volte riesaminato — e non solo da Morris e Pappé — il massacro di Deir Yassin in cui, il 9 aprile 1948, furono uccisi da formazioni paramilitari ebraiche, Irgun e banda Stern, oltre cento palestinesi (forse duecento, forse più, secondo fonti arabe). Due personalità che all’epoca erano al comando dell’Irgun e della banda Stern e che successivamente sarebbero state elette alla guida del governo israeliano, Menachem Begin e Itzhak Shamir, si sono giustificate dell’atto sanguinoso sostenendo che la conquista di quel villaggio era indispensabile per aprire la via di collegamento tra la costa e Gerusalemme e che, nelle ore precedenti all’attacco, loro stessi si premurarono di esortare la popolazione «non combattente» di Deir Yassin ad abbandonare le proprie case. Ma è un fatto che lo stesso capo del nuovo Stato, David Ben Gurion, condannò l’accaduto.
Vale la pena altresì di ricordare che Israele fu immediatamente riconosciuto da Stati Uniti e Unione Sovietica. Che il Paese ai suoi primi giorni di vita fu attaccato da milizie egiziane, libanesi, irachene, siriane, corpi di volontari provenienti da Arabia Saudita, Libia, Yemen e dalla Legione araba di Glubb Pascià (il generale inglese John Bagot Glubb che, per conto di re Husayn, guidò fino al ’56 l’esercito giordano). Alla fine del conflitto, nel ’49, Israele riuscì ad allargare i propri confini rispetto a quelli decisi dall’Onu e firmò armistizi separati con gli aggressori. Armistizi, non la pace; l’esercito del Cairo continuò a «presidiare» Gaza, quello di Amman la Cisgiordania. Per diciotto anni: fino alla «guerra dei sei giorni» (giugno 1967) al termine della quale Israele occupò quei «territori» sui quali doveva e dovrebbe ancora nascere lo Stato palestinese. Per quasi venti anni, in altre parole, lo Stato di Palestina non nacque per una decisione dei Paesi arabi che scelsero di utilizzare le terre assegnate al popolo palestinese dalle Nazioni Unite, come aree militari da cui doveva partire l’attacco definitivo per rigettare in mare l’«entità sionista».
Ora si può avere l’impressione che i «venerdì di sangue» susseguitisi dal 30 marzo lungo le frontiere di Gaza, più che a ricordare la Nakba servano a distrarre Israele da un’altra partita che si giocherà anch’essa nel mese di maggio: quella con l’Iran. Qui la scadenza è di poco anticipata rispetto alla doppia ricorrenza del 14 e 15: due o tre giorni prima, il 12 maggio, Donald Trump renderà nota l’intenzione di non onorare (con ogni probabilità) l’accordo con Teheran voluto dal suo predecessore assieme all’Europa. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha preparato il terreno per una denuncia di quel patto, rivelando come la sua intelligence sia entrata in possesso di cinquantacinquemila documenti che proverebbero le menzogne dell’Iran tuttora impegnato, a dispetto di quanto concordato, nel proprio piano nucleare (il Paese di Ali Khamenei sarebbe in procinto di mettere a punto cinque ordigni di potenza equivalente a quello che nell’agosto del 1945 provocò la distruzione di Hiroshima). Ad un tempo, nella notte di domenica 29 aprile, l’esercito israeliano avrebbe provocato — usiamo il condizionale perché l’azione non è stata rivendicata — un’esplosione ad una base militare in Siria nei pressi di Hama. La base, come l’aeroporto militare siriano di Tayfur bombardato dagli israeliani il 9 aprile, sarebbe a disposizione dei pasdaran iraniani e un tal genere di bombardamenti sarebbero stati effettuati da Israele per rendere più difficile ai militari provenienti da Teheran di mettere «radici in Siria» (e questo intento Netanyahu l’ha annunciato ufficialmente). Radici che però sono state già parzialmente messe, se è vero che nel Paese di Assad sono presenti oltre ottantamila miliziani sciiti pronti a riversarsi su Israele dalle alture del Golan. Tutto appare pericolosamente in bilico. E i precedenti ci dicono che in quella regione quando la corda si tende fino a questo punto, il rischio che scoppi all’improvviso una guerra è alto. Troppo alto perché il mondo se ne resti tranquillo a guardare.

Repubblica 3.5.18
L’ira delle vittime dei preti pedofili “Il Papa rimuova il cardinale Pell”
di Paolo Rodari


Australia, il capo delle finanze vaticane a processo per gli abusi compiuti e per le coperture garantite “ Deludente che Francesco non lo abbia licenziato”
città del vaticano
« Il cardinale George Pell dovrebbe essere dimesso dall’incarico di guida della Segreteria per l’Economia del Vaticano, così come dovrebbe accadere per qualsiasi altro dipendente della Santa Sede davanti a così gravi accuse».
Peter Saunders, inglese, da ragazzo vittima di abusi sessuali da parte di sacerdoti, fu il primo a fare un passo indietro, ormai due anni fa, dalla Commissione pontificia per la protezione dei minori della quale era stato chiamato a far parte. Se ne andò proprio per le resistenze interne di fronte alle accuse che ex vittime mossero al porporato australiano Pell, fra i principali collaboratori del Papa nel governo della curia romana. E oggi, poche ore dopo la notizia che il tribunale di Melbourne ha rinviato a giudizio lo stesso Pell per abusi sessuali, e insieme per l’accusa di aver coperto abusi commessi da altri sacerdoti quando era vescovo a Ballarat e a Melbourne, torna a dire la sua: « Se Pell è stato rinviato a giudizio è perché i pubblici ministeri australiani sentono di avere prove sufficienti in merito » , dice parlando con Repubblica. Tuttavia, spiega, « è comprensibile che Francesco non lo licenzi perché per lui rimane innocente fino a prova contraria ». In ogni caso, «immagino cosa accadrà: se verrà giudicato colpevole il Papa dirà che deve pregare per lui e dimenticherà le vittime. Io, comunque, se accadrà mostrerò a tutti la lettera minacciosa, oggi appesa alla mia bacheca, che ricevetti tre anni fa proprio dagli avvocati di Pell». Parole dure, quelle di Saunders, ma condivise da molte altre vittime. Oltretevere la decisione del tribunale di Melbourne è stata commentata soltanto con poche righe rilasciate dalla sala stampa vaticana. Il portavoce Greg Burke, nelle ore in cui Pell ribadiva di ritenersi « innocente » , ha affermato che «la Santa Sede prende atto della decisione emanata dall’autorità giudiziaria in Australia riguardante Pell. L’anno scorso il Santo Padre gli aveva concesso un periodo di congedo per potersi difendere dalle accuse che gli erano state contestate. Tale disposizione rimane tuttora valida».
Per le vittime tutto ciò non è sufficiente. Così, infatti, hanno commentato, sempre con Repubblica, le vittime statunitensi appartenenti al Survivors Network of those Abused by Priests ( Snap): « Siamo contenti — dicono — di vedere Pell trattato come qualsiasi cittadino comune che è accusato di questo grave crimine. Qualunque sia l’esito del processo, è una grande vittoria per i sopravvissuti. Il fatto che Francesco non abbia licenziato il cardinale non è sorprendente, anche se è deludente. Invitiamo il Papa a sospendere dal ministero attivo tutti i membri del clero che devono affrontare accuse penali, indipendentemente dal loro grado o dalla loro relazione con lui».
La decisione di Melbourne è arrivata nei giorni in cui Francesco ha ascoltato un gruppo di vittime della pedofilia cilene e chiesto loro perdono a nome di tutta la Chiesa. Le vittime che «per quasi dieci anni sono state trattate come nemiche » , così hanno spiegato loro stesse, e « uccise due volte, una con gli abusi, l’altra con il non essere ascoltati » , chiedono che alle parole di Bergoglio seguano fatti. Perché i criminali « sono anche coloro che hanno coperto i crimini, quelli che hanno insabbiato tutto » . Chiedono, in particolare, la “testa” del cardinale Francisco Javier Errazuriz, uno dei collaboratori più stretti del Pontefice, membro del C9 e, a loro dire, responsabile delle coperture in Cile: « Noi speriamo ora che il Papa non esiti, che non gli tremi la mano».

Corriere 3.5.18
Cina, Peppa Pig è «sovversiva» Al bando la nuova icona dei giovani shehuiren
di Guido Santevecchi


La maialina, diventata virale, è stata cancellata dalla Rete. «Troppo libera»
In cinese significa, letteralmente, «cittadino modello». Nel linguaggio del web, tuttavia, questa definizione ha assunto la valenza opposta: dunque indica i soggetti antisociali, ribelli o «poco di buono», in opposizione ai cittadini leali e ben disposti verso le autorità e in particolare il Pcc

PECHINO Dichiarata «icona della sovversione» e messa al bando. La nuova nemica del popolo in Cina è Peppa Pig, che come cartone animato ha trionfato anche sulla Tv dei bambini cinesi e sui siti che rilanciano le sue storielle da cinque minuti l’una: 34 miliardi di visioni da quando dalla Gran Bretagna è sbarcata nell’Impero di Mezzo; un miliardo di euro di fatturato nel solo 2017. La porcellina rosa aveva già allarmato nei mesi scorsi i genitori cinesi, che non vedevano di buon occhio le marachelle sue e del fratellino George, abituati a grugnire e saltare nelle pozzanghere. Questa volta però è una cosa da grandi, non più da bambini.
Oltre 30 mila video di Peppa o a lei ispirati sono stati cancellati da Douyin, una piattaforma web per adulti molto popolare in Cina. Tutto è cominciato la settimana scorsa, quando il Quotidiano del Popolo, voce del Partito comunista, ha denunciato il personaggio sfruttato da «commercializzazione sfrenata», diventato oggetto del desiderio per giovani cresciuti male. Rapidamente, nel fine settimana, Douyin ha reagito oscurando i videoclip e bloccando anche la ricerca con l’hashtag #PeppaPig.
Nessun ordine diretto dalle autorità, a quanto risulta, ma un caso di autocensura preventiva, prima di ricevere un richiamo ufficiale o una multa dal potere che governa Internet. La spiegazione è arrivata ieri sul Global Times, quotidiano che fa sempre capo al governo. «Peppa si è trasformata in un’inattesa e indesiderabile icona di sottocultura “shehuiren”».
«Shehuiren», scrive il giornale, nel contesto del web identifica i giovani-adulti che seguono comportamenti contrari ai valori correnti, sono poco istruiti e non hanno un lavoro stabile. Si tratta di una categoria sgradita, «in antitesi con la giovane generazione che il Partito vuole coltivare».
Il Global Times, che pur essendo di proprietà del Partito e fieramente nazionalista ha una certa autonomia di vedute, osserva che «ci vuole immaginazione per collegare l’apparentemente innocente Peppa alla subcultura antisociale, ma il problema esiste».
Quello che preoccupa è la libera reinterpretazione della maialina occidentale, diventata protagonista sulla Rete di «meme» satirici e di «emoji». E nella vita reale si vedono in giro automobili con Peppa e George disegnati sulle portiere, ragazzi con tatuaggi temporanei della maialina sulle braccia, che sfoggiano orologi con il suo faccione sul quadrante (orologi fasulli e inutili, che non indicano l’ora ma l’appartenenza alla tribù dei perdigiorno shehuiren). Addirittura la testa di Peppa è stata sovrapposta a un corpo di Buddha in un amuleto messo in vendita in Tibet.
Circolano anche video pirata scandalosi, con Peppa trasformata in pornostar (ma questo è successo anche in Europa). Riassume il professor Jiang Haisheng, dell’Università di scienze politiche dello Shandong: «Quando le giovani generazioni di cinesi cresceranno, le loro caratteristiche culturali influenzeranno profondamente il progresso e lo sviluppo della nostra società, per questo bisogna guidarle». E così Peppa scompare dal web.
Il «virus Peppa» (inteso come personaggio diventato virale sul web, ma anche come male sociale) finisce nella lista nera da estirpare perché viene usato come parodia di situazioni reali, è reinterpretato in modo creativo e libero. E creatività e libertà di pensiero possono destabilizzare il sistema. Per questo Peppa, con i suoi grugniti infantili e le sue storielle che a noi paiono distensive, a Pechino è diventata sovversiva e antisociale.

Repubblica 3.5.18
Tra storia e misteri il film che racconta i 55 giorni di Moro
di Marco Bracconi


Domani in edicola con Repubblica la prima parte de “Il condannato.
Cronaca di un sequestro”, il dvd in cui Ezio Mauro documenta fatti e interrogativi del caso che scosse l’Italia, con materiali inediti e interviste esclusive
La fine di un uomo e quella della Prima Repubblica, ma anche il fallimento delle Brigate Rosse e del loro tentativo di annientare una democrazia più forte di quello che essa stessa riteneva di essere: è all’incrocio tra via Stresa e via Fani, il 16 marzo del 1978, che sta l’incrocio dei venti della Storia d’Italia, la tragedia di una Repubblica e quella di una famiglia, l’abnormità di un verdetto già scritto e le convulsioni di un mondo politico costretto a dimenarsi tra la ragione di Stato e le ragioni di un uomo.
L’inchiesta multimediale di Ezio Mauro sul rapimento Moro Il Condannato - cronache di un sequestro, dopo essere apparsa a puntate su Repubblica e in formato web serie su
Repubblica. it, è ora anche un film in due parti e un libro: al primo dvd in edicola domani seguirà il secondo l’11 maggio, mentre il volume che raccoglie tutte le puntate uscirà il 18 maggio.
Vedere, leggere, ricordare, e capire, allora, nei tanti e diversi modi con cui il giornalismo può raccontare i fatti; con la parola scritta o per immagini, per esempio, rivisitando i luoghi di quei 55 giorni , riascoltando i protagonisti chiamati a testimoniare i loro sentimenti politici e personali, entrando e uscendo dagli archivi dove sono custodite le lettere autografe del presidente Dc, i comunicati originali dei terroristi, le armi usate per una strage dalla precisione (e spietatezza) millimetrica.
Un film, Il condannato, che è anche un omaggio alla forza del documento: sono tragicamente veri i fori di proiettile sull’auto di scorta che l’autore sfiora nel limbo di un deposito giudiziario, e altrettanto vera e presente è questa Roma inquadrata spesso dall’alto, unita e disunita dalle sue palazzine della periferia-bene e dai Palazzi del potere.
Se poi si passa dalle immagini del film al libro, capita di sentirsi mancare il fiato perché la narrazione di Mauro segue un orologio che corre senza sosta verso l’inevitabile epilogo, accompagnando un tempo accelerato e convulso, tanto lontano se lo si guarda dall’oggi ma tanto vicino se si insiste a scrutarne i misteri insoluti. Un tempo restituito dal ritmo di una lingua senza sentimentalismi né teoremi da difendere, la scrittura di un “cronista”, dunque, che si riaccosta decenni dopo a fatti e testimonianze che con il passare degli anni non hanno perso di formulare le loro domande senza risposta.
Ne esce un racconto che può anche leggersi come un sistema binario di corrispondenze e opposizioni: il “processo proletario” di via Montalcini e quello di Torino ai brigatisti, la linea della fermezza e quella della trattativa, i pochi metri quadrati della prigione del presidente Dc e la città-prigione in cui gli stessi terroristi si ritrovano nei giorni dell’assedio. Ma è la condanna del prigioniero a sovrastare fin dal primo giorno ogni passaggio cruciale, come fosse una macchina autonoma messasi in moto con l’eccidio della scorta e destinata a fermarsi solo davanti ad un corpo senza vita nel bagagliaio di una Renault 4 rossa.
«L’accusa che muovevano a Moro, il suo essere referente dello Stato Imperialista delle multinazionali, era troppo abnorme per non contenere già in sé la condanna a morte», dice Ezio Mauro ricostruendo la vicenda da un punto di vista capace di tenere assieme il dramma privato e il travaglio della politica, le cronache “militari” di un Paese in guerra e le piccole vite quotidiane dei brigatisti, le lettere dello statista democristiano e quelle dei titoli dei giornali di allora. È la fotografia di un’Italia impaurita ma capace di reagire, forte e debolissima, unita contro il nemico ma immersa nel chiaroscuro dei suoi poteri perennemente opachi.
Ma è un’altra fotografia, quella del presidente Dc sotto la bandiera a cinque punte e il “dominio pieno e incontrollato” di cui lo stesso Moro parla in una delle sue prime missive, l’immagine simbolica che tutto riassume.
Quel volto immortalato nelle pause di un interrogatorio che ripropone lo schema binario di due universi né paralleli né convergenti, con i brigatisti che chiedono nomi e “colpevoli” e Moro che risponde facendo ragionamenti politici complessi.
La semplificazione ideologica, insomma, contro “l’intelligenza degli avvenimenti” tanto casa allo statista ucciso.
Un “processo” allo Stato e ad un uomo ordito da guerriglieri che non capivano nemmeno ciò che gli si stava rivelando. Anche loro prigionieri fino alla fine di una sentenza scritta quasi due mesi prima, alle 9,02 di un mattino di piombo.

Il Sole 3.5.18
Una miniera d’oro L’Egizio di Torino a tre anni dal rilancio
Ha raddoppiato i visitatori con ricadute sul turismo
Per il museo ritorno economico di 190 milioni
di Filomena Greco


Torino I numeri sono da media impresa italiana. In realtà si tratta di un Museo, anche se tra i più importanti al mondo per il patrimonio archeologico che custodisce. A tre anni dal rilancio, grazie al progetto di restauro frutto dell’impegno di Compagnia di San Paolo, Fondazione Crt, ministero e istituzioni locali, l’Egizio di Torino misura l’impatto economico sull’area metropolitana e lo fa affidando uno studio all’Agenzia Quorum e al Centro Studi Silvia Santagata di Torino.
Cosa emerge? Beh, che in un anno di attività – con oltre 850mila visitatori e due mostre temporanee in calendario – l’Egizio produce ricadute sul territorio per quasi 190 milioni di euro. Un dato complessivo a cui si arriva sommando le spese dirette – in media circa 80 euro a testa per i visitatori – in capo ai visitatori (non residenti), le risorse impiegate direttamente dalla Fondazione che il Museo gestisce, sotto forma di acquisti da fornitori locali e stipendi, e valutando l’impatto, diretto, indiretto e sotto forma di indotto, delle attività generate dal Museo stesso. Una istituzione culturale, racconta il presidente Evelina Christillin, «che ha l’obiettivo di essere inclusiva a 360 gradi, essere presente e vivere nella città, oltre a volersi rivolgere a tutti, indipendentemente da religione o status sociale». Viene spontaneo pensare alle immagini di qualche mese fa quando il direttore Christian Greco, arrivato a Torino nel 2014 dopo una carriera di ricerca e insegnamento all’estero, scese in strada per difendere dagli attacchi di Fratelli d’Italia la promozione messa in campo dall’Egizio per i cittadini arabi.
«L’esigenza di valutare l’impatto del Museo sul pubblico e sul territorio – spiega il direttore Greco – nasce dall’esperienza fatta da numerose istituzioni culturali all’estero. A tre anni dal rilancio del Museo, che nel frattempo ha raddoppiato il numero di visitatori, abbiamo sentito il bisogno di focalizzare punti di forza e debolezza, oltre che valutare quale impatto economico il Museo si porti dietro». In campo, una base statistica costituita da oltre 3mila questionari, visitatori suddivisi in tre gruppi – tra loro quello «prezioso» dei viaggiatori più critici – e un livello medio di soddisfazione post visita che si attesta a quota 8,8. Oltre la metà dei visitatori è donna, quasi la maggioranza è laureato, sei su 10 arrivano da fuori regione e il 15% dall’estero, un dato che mette in evidenza il potenziale di crescita ulteriore della città e dell’Egizio in termini di visitatori.
Sullo sfondo, comericorda Christillin nella veste di presidente dell’Enit, l’Agenzia nazionale del Turismo, il buon momento del turismo in Italia. «La crescita – spiega – raggiunge il 13%, con arte e musei a fare da driver anche se sta crescendo il peso dell’enogastronomia, con un’incidenza del turismo sul Pil che supera il 12%, a quota 13% se si considera l’impatto sull’occupazione globale, comunque indicatori tra i più alti d’Europa». Il quadro che emerge racconta di come il giro d’affari in capo all’Egizio rappresenti, secondo le stime del team di ricercatori, tra un quinto e un quarto delle ricadute del turismo culturale. Inoltre, per quasi un viaggiatore su due la decisione di visitare Torino è collegata alla presenza dell’Egizio. «Una responsabilità non da poco – commenta il direttore, che aggiunge – che ci spinge a migliorare la nostra offerta a partire dalle zone d’ombra emerse dallo studio per arrivare ad una sempre maggiore fruibilità». Con un’accortezza però, che Greco puntualizza parlando del tema della multisensorialità nei percorsi museali: «credo serva un argine scientifico, siamo uno dei musei archeologici più importanti del paese e abbiamo il compito di mettere al centro conoscenza e ricerca. La spettacolarizzazione eccessiva noi non ce la possiamo permettere».
«Abbiamo stimato in 2,11 – spiega Enrico Eraldo Bertacchini, dell’Università di Torino e del Centro Studi Santagata che ha curato la parte più economica dello studio – il moltiplicatore in grado di misurare quanto ogni euro attratto e speso sul territorio direttamente dal Museo possa generare come effetti economici diretti e indiretti sull’area metropolitana». Si tratta di ricadute su alberghi, ristoranti e turismo in generale, ma il dato, aggiunge Bertacchini, comprende anche «servizi a valore aggiunto come editoria e ricerca». Un rapporto molto positivo tra ricadute generali e spese dirette del Museo , come emerge dalla comparazione con altre realtà internazionali.