mercoledì 2 maggio 2018

ALCUNI SETTIMANALI
DELLA SETTIMANA FINO AL 29 APRILE

internazionale 29.4.18
La settimana
Giovanni De Mauro
Mobilitazione


Questa è la storia di un dirottamento. All’inizio ci sono gli hippy, il pacifismo, le droghe psichedeliche sotto il sole della California, una controcultura basata anche sull’idea che i computer siano strumenti di liberazione intrinsecamente democratici. “Think different”, lo slogan pubblicitario della Apple negli anni novanta, portava ancora le tracce di quello spirito. Poi succede che le libertà individuali incontrano il mercato senza regole, e una rete di computer progettata con i soldi pubblici viene consegnata nelle mani di privati a cui nessuno pone limiti. È così che Facebook ha potuto trasformare una serie di attività prive di ogni funzione economica – chiacchierare con un amico o fargli vedere le foto delle vacanze – in una fonte di profitti. Oggi le quattro principali aziende tecnologiche degli Stati Uniti valgono insieme tremila miliardi di dollari, ed è chiaro quanto fosse assurdo aspettarsi che facendo i loro interessi avrebbero fatto gli interessi di tutti. Qualcosa però può ancora cambiare. Grazie non solo alla consapevolezza sempre più diffusa che queste aziende debbano avere dei limiti, ma anche al tentativo di modificarle da dentro, con la mobilitazione di chi ci lavora. Non sarà facile, perché i dipendenti sono relativamente pochi e non hanno molto potere contrattuale (a Facebook lavorano 23mila persone, a Google 88mila, mentre alla Fiat Chrysler, per esempio, 234mila). Ma ci sono piccoli segnali incoraggianti. L’ultimo è la petizione firmata da tremila impiegati e ingegneri di Google contro la partecipazione dell’azienda a un progetto del Pentagono che prevede l’uso dell’intelligenza artificiale per guidare i droni militari. La campagna è stata rilanciata dalla Tech workers coalition, un gruppo che cerca di organizzare i lavoratori del settore tecnologico. Prossimo appuntamento: le manifestazioni del primo maggio nella Silicon valley.

internazionale 29.4.18
Cinque anni dopo il Rana Plaza
Le Monde, Francia


Il 24 aprile del 2013 a Dhaka, la capitale del Bangladesh, un palazzo crollò su cinquemila dipendenti di un’azienda tessile che lavoravano in condizioni indegne e senza misure di sicurezza. Il bilancio fu di 1.135 morti. Il crollo del Rana Plaza, uno dei peggiori disastri industriali della storia moderna, è diventato un simbolo dello sfruttamento della manodopera asiatica da parte degli appaltatori delle multinazionali dell’abbigliamento, che fanno finta di non sapere cosa succede all’altra estremità della catena. La catastrofe del Rana Plaza ha avuto almeno un effetto positivo: risvegliare l’opinione pubblica dei paesi sviluppati e stimolare le organizzazioni internazionali che proteggono i diritti degli operai tessili in Asia. È stato creato un fondo per il risarcimento alle vittime. Sono nati diversi sindacati. Il Bangladesh, secondo esportatore di abiti al mondo (dopo la Cina), ha beneficiato di questa mobilitazione, culminata con la firma di un accordo sulla sicurezza patrocinato dall’Organizzazione internazionale del lavoro. Finora 222 grandi aziende lo hanno sottoscritto. L’accordo coinvolge 1.600 fabbriche e due milioni di lavoratori, di cui il 70 per cento sono donne. Ha permesso ai sindacati tessili di denunciare i datori di lavoro che si rifiutano di adottare misure di sicurezza. A gennaio una grande azienda internazionale è stata condannata da un tribunale dell’Aja a pagare 1,9 milioni di euro di danni ai sindacati tessili bangladesi. Sono buone notizie, ma c’è ancora molto da fare. Migliaia di strutture in Bangladesh non hanno ancora sottoscritto l’accordo, che scade il primo maggio 2018. Dopo una lunga trattativa, è stato concordato un testo di transizione che ne prolungherà la validità ino al 2021, ma non è stato ancora ratificato da tutti. Gli imprenditori e il governo sono riluttanti. Il lavoro minorile resta un problema enorme, come le condizioni salariali dei lavoratori tessili: gli scioperi proclamati in Bangladesh per sostenere rivendicazioni in questo senso sono stati duramente repressi. I giganti dell’abbigliamento dovrebbero riflettere sul loro modello economico, basato sull’abbassamento dei prezzi. E anche i consumatori occidentali dovrebbero chiedersi qual è il costo umano delle magliette a prezzi stracciati.

internazionale 29.4.18
L’analisi
Le ragioni dell’apertura
Eliminati i suoi avversari, Kim si sente così sicuro di sé da essere pronto a trattare con gli Stati Uniti, afferma John Delury


Come si spiega l’improvvisa disponibilità di Kim Jong-un a collaborare con quelli che un tempo considerava i suoi nemici? “In una parola: sicurezza di sé”, scrive John Delury, docente all’Università di studi internazionali yonsei di Seoul, sul Washington Post. “Da quando è arrivato al vertice del regime dopo l’improvvisa morte del padre alla fine del 2011, Kim ha dovuto appropriarsi delle leve del potere eliminando, in alcuni casi fisicamente, gli avversari interni e costruendosi una legittimazione nel paese”. Il nuovo leader ha “fatto pulizia” nella famiglia, nel partito, nell’esercito e nel governo. Il successo dei test missilistici e nucleari negli ultimi due anni, inoltre, gli ha fatto guadagnare la sicurezza politica di cui aveva bisogno. “Alcuni osservatori considerano l’apertura di Kim un segnale non di fiducia in se stesso, ma di disperazione per le sanzioni, che si stanno facendo sentire. tuttavia”, spiega Delury, “Niente fa pensare che l’economia nordcoreana sia sull’orlo del precipizio: i prezzi delle merci e il valore della moneta locale sono stabili e non si registra un aumento dei profughi economici. Le sanzioni, tuttavia, impediscono a Kim Jong-un di raggiungere un obiettivo che gli sta a cuore quanto il deterrente nucleare: fare della Corea del Nord un paese ricco”. Kim ha reso note le sue ambizioni sullo sviluppo economico cinque anni fa, quando ha svelato la sua linea strategica nota come byungjin (progresso duale), che include la creazione di zone economiche speciali. “La prima fase di questa strategia”, continua Delury, “è il raggiungimento di una garanzia di sicurezza indipendente grazie all’arsenale nucleare, un progetto che è innegabilmente progredito sotto la leadership di Kim Jong-un. Ma la seconda promessa del byungjin è lo sviluppo dell’economia civile, obiettivo che non è stato portato avanti con il ritmo straordinario dei test missilistici. Anche se negli ultimi anni l’economia della Corea del Nord ha registrato una modesta crescita, il paese è ancora arretrato rispetto ai vicini asiatici. Finché da parte di Kim non ci sarà una svolta nel campo della sicurezza che permetta la fine delle sanzioni e l’integrazione della Corea del Nord nell’economia regionale e globale, il paese non si riprenderà. Una mossa indovinata
“La nuova diplomazia di Kim rientra nella strategia del byungjin e probabilmente segnala uno spostamento della priorità dalla sicurezza allo sviluppo, dall’isolamento all’integrazione, dai missili intercontinentali alle zone economiche speciali. La solidità politica di Kim e le sue ambizioni economiche hanno creato uno spazio per passi significativi verso la denuclearizzazione. Impulsiva o no, la decisione del presidente statunitense Donald Trump di incontrare Kim si concilia bene con la natura gerarchica del sistema nord coreano, dove i progressi devono cominciare dall’alto. In questo senso potrebbe rivelarsi una mossa indovinata”, spiega Delury. C’è da aspettarsi che la propaganda di Pyongyang presenterà il summit come una vittoria del leader. Ma per Kim la sostanza degli accordi presi, così come il valore simbolico del sedersi a un tavolo con il presidente degli Stati Uniti, saranno mezzi per accelerare la trasformazione della Corea del Nord, povera e isolata, in un paese normale e ricco. “Questo slittamento delle priorità dal potere al benessere è stato al centro del modello di sviluppo in Asia orientale dalla fine della seconda guerra mondiale. In termini storici, la Corea del Nord si adeguerebbe alla norma regionale, anche se con molto ritardo. Kim sembra pronto ad avviare la transizione e, letto in questi termini, il summit rappresenta una rara opportunità di progresso”, conclude Delury.

internazionale 29.4.18
Nuova Zelanda
Ripensare l’aborto


Su richiesta del governo la Law commission neozelandese, l’ente pubblico che sorveglia l’applicazione delle leggi e ne valuta i possibili difetti, sta esaminando la legge sull’aborto. L’obiettivo è farne “una questione di salute, e non di giustizia penale”. In nuova Zelanda infatti l’interruzione di gravidanza è disciplinata dal codice penale. È consentita solo in casi estremi e dev’essere approvata da due medici. Secondo il New Zealand Herald, i principali ostacoli per chi sceglie di abortire sono pratici: la difficoltà di accesso alle cliniche autorizzate, soprattutto per chi vive fuori dalle città; il raro ricorso all’aborto farmacologico; la lunga traila burocratica per ottenere l’autorizzazione a interrompere la gravidanza.

internazionale 29.4.18
Giappone
Giornaliste molestate


Anche se lentamente, l’eco del movimento #MeToo contro le molestie sessuali ha raggiunto il Giappone. Il 19 aprile il più alto funzionario del ministero delle finanze, Junichi Fukuda (nella foto), si è dimesso dopo essere stato accusato di aver rivolto commenti a sfondo sessuale a una giornalista. La reporter aveva raccontato la sua storia in forma anonima al settimanale Shūkan Shinchō all’inizio di aprile. Solo dopo le dimissioni del funzionario l’emittente Tv Asahi ha rivelato che la donna è una sua dipendente. Fukuda respinge l’accusa, ma si è dimesso “per non creare ulteriori problemi”. Il ministero infatti è già al centro di uno scandalo sulla svendita di un terreno pubblico a una scuola privata nazionalista, in cui è coinvolto il primo ministro Shinzō Abe. “Il caso Fukuda sta incoraggiando le giornaliste a parlare delle molestie sessuali nel mondo dell’informazione, dominato dagli uomini”, scrive il Japan Times. Il fenomeno è molto diffuso ma le aziende non hanno mai fatto niente, anzi, spesso favoriscono indirettamente le molestie. “La pratica dello youchi asagake – far visita ai funzionari, quasi tutti uomini, la sera tardi o la mattina presto a casa loro per riuscire a ottenere informazioni esclusive – è obbligatoria per i giornalisti, anche se la sua utilità è discutibile. Così spesso le giornaliste si trovano sole con uomini di potere che approfittano di loro.

internazionale 29.4.18
Overdose americana
Andrew Sullivan, New York Magazine, Stati Uniti
Negli stati uniti ogni anno almeno 40mila persone muoiono per overdose da eroina, antidolorifici e altri oppioidi. Non è solo un’emergenza sanitaria. È anche il sintomo del malessere di un paese che cerca di sfuggire alla realtà, scrive Andrew Sullivan


Il Papaver somniferum è un bel fiore robusto, un papavero che può essere di diversi colori e che può anche superare il metro di altezza. Cresce nelle regioni con un clima temperato, non ha bisogno di fertilizzanti, attira pochi parassiti ed è resistente come molte erbe infestanti. I fiori durano solo pochi giorni, poi i petali cadono rivelando una capsula grigioverde segnata da scanalature verticali. I semi sono nutrienti e non hanno effetti psicotropi. Nessuno sa quando gli esseri umani abbiano imparato a schiacciare questa capsula a forma di bulbo e a mescolarla con l’acqua creando una sostanza che esercita uno strano effetto calmante e inebriante sul cervello. E non sappiamo chi ha scoperto che se si incide la capsula con un coltellino, se ne estrae la linfa lattiginosa e la si lascia seccare, si ottiene una sostanza che fumata provoca un effetto ancora più intenso. ma sappiamo, dai reperti del neolitico trovati in Europa, che l’inizio della coltivazione di questa pianta risale almeno a seimila anni fa, e forse anche di più. Omero la definiva una “sostanza meravigliosa”. Si sorprendeva perché chi la consumava “non versava una lacrima per tutto il giorno, neanche se gli morivano i genitori, perfino se un fratello o un figlio veniva ucciso sotto i suoi occhi”. Per migliaia di anni ha calmato il dolore fisico e psicologico e sedotto gli esseri umani aprendo uno spiraglio sul divino. È stata una medicina prima che esistesse la medicina. Qualsiasi tentativo di vietarne l’uso o di distruggerla è stato fallimentare.
Oggi il potere del papavero è più grande che mai. Le molecole che se ne estraggono hanno conquistato gli Stati Uniti. I suoi discendenti sono l’oppio, l’eroina, la morfina e tutto un universo di oppioidi sintetici, compreso il potente antidolorifico fentanyl. Più di due milioni di statunitensi sono dipendenti da un qualche tipo di oppioide. E l’anno scorso sono morti per overdose – soprattutto da eroina e fentanyl – più americani che durante la guerra del Vietnam. Le morti per overdose hanno superato quelle causate dall’aids durante il picco dell’epidemia, e sono molte di più di quelle causate dagli incidenti stradali. Da due anni negli Stati Uniti il papavero e i suoi derivati sono responsabili dell’abbassamento dell’aspettativa di vita, un calo che non c’è stato in altri paesi avanzati. Secondo le stime più ottimistiche, nel 2018 gli oppioidi uccideranno 52mila statunitensi, e nei prossimi dieci anni mezzo milione.
Ormai la società americana è quasi insensibile a queste cifre. E molti dei modi in cui affronta questo eccidio di massa – dando la colpa alle case farmaceutiche, ai medici, alle amministrazioni Obama e Trump, alle politiche contro la droga, alla mancanza di moralità o alla crisi economica – non tengono conto della storia degli Stati Uniti. È una storia di dolore e di tentativi di mettere fine a quel dolore. È la storia di come l’antidolorifico più antico del mondo è arrivato ad alleviare l’agonia di una delle liberaldemocrazie più evolute. Come l’lsd è il simbolo degli anni sessanta, la cocaina degli anni ottanta e il crack dei novanta, l’oppio definisce questa nuova era. La chiamo era perché molto probabilmente durerà a lungo. Le dimensioni del fenomeno sono il segno di una civiltà che sta attraversando una crisi più grave di quanto immaginiamo, di un paese sopraffatto dall’altissima velocità del mondo postindustriale, di una cultura che vorrebbe arrendersi, indifferente alla vita e alla morte, affascinata dall’evasione e dal nulla. Dopo essere stati i pionieri dello stile di vita moderno, oggi gli Stati Uniti stanno cercando in tutti i modi di uscirne.
Scappare dalla vita come ti fa sentire un oppioide? In genere quando parliamo di droghe a scopo ricreativo tendiamo a evitare questo argomento, perché nessuno vuole incoraggiarne l’uso, e meno che mai la dipendenza. d’altra parte è facile pensare che le persone deboli assumano droghe per motivi inspiegabili o semplicemente immorali. Quello che pochi sono disposti ad ammettere è che le droghe alterano la coscienza in un modo preciso e specifico che sembra rendere le persone almeno momentaneamente felici, anche se le conseguenze possono essere disastrose. ancora meno sono le persone disposte ad ammettere che c’è una differenza significativa tra i vari tipi di “felicità” indotta dalle droghe: che l’effetto del crack, per esempio, è diverso da quello dell’eroina. ma se non cerchiamo di capire gli effetti di queste sostanze non possiamo capire il loro fascino, i motivi dell’epidemia o la funzione che svolgono nella vita di tanti esseri umani. È significativo, a mio avviso, che le droghe più diffuse oggi negli stati uniti producano effetti calmanti. Non servono a vivere più intensamente. servono a cercare sollievo dalle sofferenze della vita. Le sostanze alcaloidi contenute nei derivati dell’oppio esercitano un forte effetto sul cervello perché sfruttano i recettori naturali chiamati μ-oppioidi. Le molecole derivate dalla pianta di papavero replicano chimicamente l’ossitocina che ci invade quando siamo innamorati o abbiamo un orgasmo. Sono una scorciatoia per arrivare alla felicità che normalmente proveremmo in una vita di relazioni soddisfacenti. mettono fine non solo al dolore fisico ma anche a quello psicologico, emotivo e perfino esistenziale. E per chi si lascia sedurre possono diventare un rapporto che dura tutta la vita, una storia d’amore in cui la passione è più potente perfino della paura della morte. forse le descrizioni migliori del fascino del papavero vengono da alcuni scrittori geniali che lo hanno usato e combattuto. Molti poeti romantici dell’ottocento – come Coleridge, Byron, Shelley, Keats, Baudelaire – usavano l’oppio come i Beatles l’lsd.
Il primo resoconto delle sensazioni che provocano l’oppio e i suoi derivati lo dobbiamo all’autobiografia Confessioni di un oppiomane dello scrittore inglese Thomas de Quincey, pubblicata nel 1821. A sei anni de Quincey perse la sorella, e un anno dopo morì il padre. Per tutta la vita soffrì di forti dolori di stomaco e di depressione. A 19 anni sopportò venti giorni consecutivi di quelli che definì “strazianti dolori reumatici alla testa e al viso”. Alla fine si decise ad andare da un farmacista per comprare un po’ di oppio (all’epoca era legale, e in occidente lo è stato fino all’inizio della guerra alla droga cominciata un secolo fa). Un’ora dopo averlo preso, il dolore fisico era scomparso, ma comunque quei problemi terreni non lo preoccupavano più. Era sopraffatto da quello che definì “l’abisso del divino godimento” che lo aveva invaso. “Come si sollevò, dalle più basse profondità, il mio spirito più intimo! Questo era il segreto della felicità, sul quale i filosofi hanno discusso per secoli”. L’effetto dell’oppio durava più a lungo di quello dell’alcol ed era più tranquillizzante: “Mi sembrava come se solo allora fossi in disparte, lontano dai clamori della vita”. a differenza della cannabis, l’oppio non fa desiderare di condividere l’esperienza con qualcun altro, non mette appetito e non rende paranoici. Spinge alla solitudine e alla serenità e provoca una profonda indifferenza al cibo. A differenza della cocaina, del crack e delle metanfetamine, non dà la carica e non aumenta il desiderio sessuale. Rende sonnolenti e soffoca la libido. Al culmine dell’effetto, la testa comincia a ciondolare e le palpebre si chiudono. Quando vediamo dei tossicodipendenti barcollare come fantasmi ubriachi, o crollare su un marciapiede o in un bagno, con il viso pallido, la pelle piena di infezioni e gli occhi spenti, spesso vediamo solo infelicità. Ma non abbiamo idea di cosa vedano loro: in quei momenti si sentono liberi dalla forza di gravità, in una trance che cancella il dolore e la tristezza. Ai loro occhi sono i sobri a essere addormentati. E in qualche modo l’essere liberi da ogni dolore rende indifferenti alla morte. Dopotutto, la morte è il più grande dei mali esistenziali. “Tutto ciò che si fa nella vita, anche l’amore, lo si fa sul treno che corre verso la morte”, diceva lo scrittore Jean Cocteau. “Fumare l’oppio è abbandonare il treno in marcia, è occuparsi d’altro che della vita o della morte”. Modernità ostile il lato oscuro del papavero si rivela nel momento in cui si cerca di liberarsene. L’astinenza dagli oppioidi è diversa da tutte le altre. Gli incubi da svegli, i crampi allo stomaco, la febbre e l’agonia psichica durano settimane, fino a quando il corpo non si purifica. “Un silenzio”, scriveva Cocteau, “simile al pianto di mille bambini le cui madri non tornano ad allattarli”. Tra i sintomi c’è un’involontaria e costante agitazione delle gambe. Mentre la sua vita si disintegra, il tossicodipendente prova vergogna. Vorrebbe smettere e invece, per usare le parole di de Quincey, “Giace sotto il peso degli incubi e delle visioni. Darebbe la vita solo per potersi alzare e camminare, ma non può nemmeno tentare di sollevarsi”. Nessun paese avanzato è devoto al papavero come gli Stati Uniti. Gli americani consumano il 99 per cento dell’idrocodone e l’81 per cento dell’ossicodone usati nel mondo. Secondo alcune stime, usano trenta volte più oppioidi di quanti ne servirebbero per curare una popolazione di circa trecento milioni di abitanti. È una storia d’amore cominciata tanto tempo fa. Durante la guerra d’indipendenza questo tipo di droga era molto diffuso tra i soldati britannici e americani perché serviva a placare il dolore delle ferite riportate sui campi di battaglia. L’ex presidente Thomas Jefferson piantò i papaveri nella sua tenuta di Monticello, in Virginia. Si diceva che verso la fine della sua vita un altro padre fondatore della nazione, Benjamin Franklin, fosse dipendente dalla droga, come molti a quell’epoca. Come spiega Martin Booth nel libro Opium: a history, in America i papaveri erano molto diffusi e l’uso di farmaci da banco a base di oppioidi era comunissimo.
Un’ampia gamma di rimedi casalinghi era derivata dal papavero: uno dei più popolari era un elisir chiamato laudano – che letteralmente significa “degno di lode” – che in Inghilterra era diffuso già dal seicento. mescolati con il vino, la liquirizia o qualsiasi altra cosa che coprisse il loro sapore amaro, per buona parte dell’ottocento gli oppiacei furono i farmaci più usati per curare la diarrea e qualsiasi dolore fisico. Le madri li davano ai bambini che strillavano sotto forma di “sciroppo calmante”. Il boom cominciò con la guerra civile. Molti stati cominciarono a coltivare papaveri per alleviare non solo il dolore straziante delle ferite ma anche la dissenteria endemica. Booth scrive che l’esercito nordista distribuì dieci milioni di pillole di oppio e 56 tonnellate di oppiacei in polvere o in gocce. In seguito molti reduci diventarono dipendenti dalla droga e i suoi effetti s’intensificarono con l’introduzione della morina e dell’ago ipodermico. A loro si unirono milioni di mogli, sorelle e madri che, distrutte dal dolore della guerra, cercarono rifugio nell’oblio provocato da quelle sostanze. A giudicare dai resoconti dell’epoca l’epidemia degli anni sessanta e settanta dell’ottocento fu forse più vasta, anche se meno grave, di quella di oggi, e cominciò in reazione allo sconvolgimento della vita provocato dalla guerra, alla trasformazione del paesaggio causata dall’industrializzazione e alla forte tensione emotiva dovuta ai grandi cambiamenti sociali. Qualcosa di simile era successo nel Regno Unito nella prima metà dell’ottocento.
Quando grandi masse di persone erano state costrette ad abbandonare le zone agricole, con le loro tradizioni, stagioni e comunità, per andare ad affollare le nuove grandi città industrializzate, lo stress psicologico aveva dato all’oppio un fascino con cui neanche l’alcol poteva competere. Alcuni storici calcolano che, durante la prima fase dell’industrializzazione, il 10 per cento del reddito di una famiglia operaia britannica fosse speso per comprare oppio. Nel 1870 negli Stati Uniti l’oppio era più usato di quanto lo fosse il tabacco nel 1970. Era come se con il passaggio alla modernità e a uno stile di vita completamente diverso la maggior parte dei lavoratori avesse bisogno di un sollievo, di un modo di saltare giù dal treno ancora in marcia. Sollievo senza assuefazione viene da chiedersi se in futuro la crisi di oggi sarà considerata il risultato dello stesso tipo di trauma, ma al contrario. Se la prima epidemia dell’uso di oppioidi fu provocata dall’industrializzazione, non c’è dubbio che l’epidemia di oggi sia scoppiata almeno in parte a causa della deindustrializzazione. È significativo che gli oppioidi non siano diffusi nella stessa misura tra tutti gli statunitensi. Non sono diffusi, per esempio, tra la popolazione più colta, multietnica, metropolitana e benestante delle coste. Il papavero si è insediato invece nelle zone abbandonate, in quelle città grandi e piccole che dovevano il loro successo a una particolare industria, e la cui vita sociale ruotava intorno a una fabbrica o a una miniera. mentre le città dei paesi europei esistevano già prima che cominciasse il processo di industrializzazione, nelle zone interne degli Stati Uniti non c’erano insediamenti preindustriali, a parte le comunità indigene annientate. La distruzione di questa spina dorsale industriale non fu solo un fatto economico, ma anche una devastazione culturale e spirituale. La sofferenza fu aggravata dalla grande recessione e da allora non si è più tornati indietro. E il sistema sanitario statunitense, governato dalle leggi di mercato, era più che pronto a placare quella sofferenza. il grande sogno della ricerca medica sugli oppioidi era riuscire a usare la loro miracolosa capacità di placare il dolore e allo stesso tempo eliminarne la dipendenza. il tentativo di raffinare l’oppio fino a farne un antidolorifico che non desse assuefazione produsse prima la morfina e poi l’eroina, entrambe create da medici e farmacologi che operavano nella massima legalità e a fini umanitari (la parola “eroina” deriva dal termine tedesco Heroisch, eroico, coniato dalla casa farmaceutica Bayer). A metà degli anni novanta del novecento arrivò l’ossicodone: questo farmaco a rilascio lento elimina i passaggi improvvisi dall’euforia alla depressione, perciò i ricercatori speravano che potesse ridurre anche il desiderio spasmodico di droga, quindi l’assuefazione. Sulla base di un unico studio condotto su 38 volontari, gli scienziati erano giunti alla conclusione che la grande maggioranza dei pazienti ospedalizzati sottoposti alla cura del dolore con forti dosi di oppioidi non era diventata dipendente, così incoraggiarono un maggiore uso del farmaco.
Quello studio coincise con una rivoluzione culturale che stava avvenendo nel mondo della medicina. Dopo l’epidemia di aids i pazienti stavano diventando molto più autonomi nella gestione delle cure, e quelli che soffrivano di dolori debilitanti cominciavano a chiedere il sollievo promesso dai nuovi oppioidi. L’industria si affrettò subito a sfruttare quest’opportunità pubblicizzando in modo aggressivo i nuovi farmaci, distribuendo campioni, organizzando congressi per i medici in alberghi di lusso e realizzando video da proiettare nelle sale d’aspetto degli ambulatori. Come spiega Sam Quinones nel suo libro Dreamland, tutto questo succedeva in un periodo di tagli alla spesa sanitaria in cui si chiedeva ai medici di essere più efficienti. Fu una combinazione fatale: i pazienti cominciarono a riempire gli ambulatori chiedendo antidolorifici, e i medici dovevano sbrigarsi. Diagnosticare le cause di un “dolore” è complicato e richiede tempo: era molto più facile scrivere velocemente una ricetta per eliminarlo. I metodi più laboriosi e costosi per curare il dolore – come la terapia fisica e psicologica – furono abbandonati da un giorno all’altro in favore delle pillole magiche. Venti milioni di ricette il paese fu inondato di farmaci, la domanda aumentò e si creò una nuova popolazione di consumatori di oppioidi. Per procurarsene una dose non c’era più bisogno di andarla a cercare nei pericolosi vicoli dei quartieri malfamati: bastava una regolare ricetta per avere un flacone di pillole che apparivano innocue come una statina o un qualunque antidepressivo. Ma con il passare del tempo i medici e gli scienziati si resero conto che stavano creando un esercito di tossicodipendenti. Molte delle rassicuranti ricerche iniziali erano state condotte su persone sottoposte alla terapia con gli oppioidi mentre erano ricoverate, quindi sotto stretto controllo. Nessuno aveva preso in considerazione la possibilità che fuori dall’ospedale i pazienti, avendo a disposizione flaconi su flaconi di pillole, sarebbero diventati dipendenti. I medici e gli scienziati erano anche ignari di una cosa scoperta di recente a proposito dell’ossicodone: il suo effetto diminuisce dopo poche ore (non dodici, come si pensava all’inizio), quindi causa continui alti e bassi e fa aumentare il desiderio delle persone di prendere un’altra dose. Quando i dolori non passavano del tutto i pazienti venivano mantenuti sotto oppioidi per periodi più lunghi e con dosaggi sempre più alti. E il farmaco non risparmiava l’agonia dell’astinenza. Chi prendeva antidolorifici per tre mesi spesso si accorgeva che, appena scadeva la ricetta cominciava a vomitare e a tremare di febbre. La soluzione più semplice e rapida era tornare dal dottore. Inoltre a metà degli anni ottanta il governo federale aveva deciso di sostituire la previdenza sociale per i poveri con una sorta di assegno d’invalidità, che copriva l’uso degli oppioidi per il dolore. I medici meno scrupolosi, soprattutto nelle zone povere del paese, trovarono il modo di arricchirsi con le fabbriche di pillole clandestine. e anche molti pazienti si arricchirono. Quinones ha scoperto che chi pagava tre dollari per un flacone di pillole poteva guadagnarne diecimila rivendendole in strada. Uno studio ha dimostrato che il 75 per cento degli statunitensi con dipendenza da oppioidi ha cominciato con antidolorifici regolarmente prescritti avuti da un amico, un familiare o uno spacciatore. Così è cambiato anche il profilo socioculturale dei consumatori di oppioidi: tra le nuove generazioni, e soprattutto nelle scuole, il vecchio stereotipo del tossicodipendente da eroina – che di solito era un emarginato, un hippy o un reduce di guerra – non esisteva più. Ai giocatori di football si davano gli oppioidi per fargli sopportare gli infortuni: loro li condividevano con le cheerleader e con gli amici, e la dipendenza ha acquisito un nuovo status sociale. A quel punto, grazie ai medici e agli allenatori compiacenti, i farmaci a base di oppio erano usati dai ragazzi e dalle ragazze più promettenti e fisicamente in forma di quella generazione. Le conseguenze sono state enormi. Tra il 2007 e il 2012 in West Virginia, dove vivono 1,8 milioni di persone, sono state distribuite 780 milioni di pillole di idrocodone e ossicodone. In una cittadina di 2.900 abitanti sono state fatte 20 milioni di ricette per oppioidi in dieci anni. In tutto il paese tra il 1999 e il 2011 le prescrizioni di ossicodone sono aumentate di sei volte. Il consumo nazionale pro capite è passato dai 10 milligrammi del 1995 ai 250 del 2012. Il balzo in avanti dell’ossicodone è avvenuto senza clamore. La maggior parte delle epidemie di oppioidi del passato era stata accompagnata da ondate di criminalità e violenza, che avevano colpito anche quelli fuori dal giro spingendoli a intervenire. Ma nei primi dieci anni dell’attuale crisi degli oppioidi sia la violenza sia la criminalità sono diminuite drasticamente. I tossicodipendenti non erano per strada a creare problemi. Erano in casa, quasi sempre soli, e mortalmente tranquilli. La polizia non aveva case dello spaccio dove fare irruzione né bande da tenere sotto controllo. Le morti per overdose sono progressivamente aumentate, ma spesso erano coperte da una serie di termini tecnici usati dai medici legali per nascondere quello che stava succedendo. Quando la causa della morte era evidente – cadaveri trovati negli appartamenti o nei bagni dei fast food – spesso ci si vergognava troppo per parlarne. E i genitori dei ragazzi morti non volevano rendere pubblica la loro agonia. A poco a poco i medici si sono accorti di aver commesso un grave errore. Tra il 2010 e il 2015 le prescrizioni di oppioidi negli Stati Uniti sono diminuite del 18 per cento. Ma se creare un esercito di tossicodipendenti era stato un errore enorme, tagliargli le forniture è stato un errore ancora più grande. È stato allora che molte persone sono state costrette a cercare le pillole sul mercato nero e l’eroina spacciata in strada.
Consegne a domicilio
Anche il canale illegale era diverso da quelli delle epoche precedenti. Il traffico non era più nelle mani dei cartelli delle grandi città. stavolta l’eroina – in particolare la meno costosa black tar, prodotta in Messico – era venduta da gruppi che evitavano i grandi centri urbani e preferivano le cliniche del metadone e le fabbriche di pillole delle zone interne degli Stati Uniti. La novità, spiega Quinones, era che gli spacciatori avevano uno stipendio fisso, invece di una percentuale sulle vendite. Quindi non avevano nessun incentivo a indebolire il prodotto tagliandolo con il bicarbonato o altri additivi, e questo rendeva la nuova droga più forte e affidabile. Inoltre l’eroina non si vendeva più in un posto fisso, come ai tempi del crack, ma era recapitata praticamente a domicilio. Gli spacciatori distribuivano biglietti da visita davanti alle cliniche del metadone e alle fabbriche di pillole. Bastava chiamarli e prendere appuntamento in un parcheggio, e di solito erano molto educati e puntuali. Nelle periferie e nelle zone rurali comprare eroina era diventato facile come comprare marijuana in città. Nessuna violenza, pochissimi rischi, ambienti familiari: un intero sistema studiato per offrire un servizio pulito alle classi medie. L’America stava tornando all’ottocento, quando gli oppiacei erano usati come farmaci, ma consumava prodotti molto più potenti e letali delle sostanze artigianali del passato. Esiste una regola aurea del proibizionismo, formulata nel 1986 dall’attivista Richard Cowan: più cresce la repressione contro le droghe, “più le droghe diventano potenti”. Il proibizionismo fa aumentare i rischi associati alla produzione e al trasporto; questo fa salire i costi, spingendo i trafficanti a ridurre al minimo le dimensioni del prodotto e i produttori a cercare nuovi modi per rendere la sostanza più potente. È per questo che, quando l’alcol era vietato, non si producevano birra o vino ma superalcolici. ed è per questo che le anfetamine sono diventate metanfetamine e che la cannabis di oggi è molto più potente di quella della fine del novecento. L’eroina, a sua volta, è diventata l’oppioide delle strade. Poi è arrivato il fentanyl, un oppioide altamente concentrato, cinquanta volte più potente dell’eroina. creato nel 1959, oggi è uno degli oppioidi più usati in medicina. ha uno straordinario potere antidolorifico, esercitato attraverso cerotti transdermici o pastiglie, che hanno rivoluzionato la chirurgia e la riabilitazione e salvato molte vite. Ma nella sua forma grezza è una delle droghe più pericolose che gli esseri umani abbiamo mai concepito. Un carico di fentanyl sequestrato di recente nel New Jersey entrava nel bagagliaio di un’auto ma conteneva abbastanza veleno da mandare in rovina l’intera popolazione dello stato e della città di New York messi insieme. Per questo è il sogno dei trafficanti: un chilo di eroina può rendere 500mila dollari, un chilo di fentanyl ne vale 1,2 milioni. il problema del fentanyl, per i trafficanti, è che è quasi impossibile da dosare correttamente. A causa della sua composizione microscopica bisogna tagliarlo con altre sostanze per poterlo iniettare, e tagliarlo significa giocare con il fuoco. Basta l’equivalente di pochi granelli di sale per toccare il cielo con un dito, ma qualche granello in più può uccidere. L’eroina uccide in modo semplice: rallenta il ritmo del respiro fino a soffocarti mentre ti addormenti. Se si aumenta di cinquanta volte la sua potenza vuol dire che si può morire anche solo con mezzo milligrammo.
Il fentanyl si fabbrica in Cina. È venduto nel dark web, cioè su siti che non si trovano con i motori di ricerca. È talmente piccolo e prezioso che è quasi impossibile impedire che entri nel paese. L’anno scorso negli stati uniti sono arrivati con la posta ordinaria 500 milioni di pacchi contenenti fentanyl. Con la tecnologia di cui dispongono oggi le poste statunitensi è praticamente impossibile bloccarlo. Così da qualche anno negli Stati Uniti si è passati dall’intossicazione di massa alla morte di massa. Durante l’ultima epidemia di eroina, portata a casa dai reduci del Vietnam, i casi di overdose erano 1,5 ogni diecimila statunitensi. Oggi sono 10,5. il 2 per cento di tutta l’eroina sequestrata nel 2015 nel New Jersey conteneva fentanyl. Oggi il dato supera il 30 per cento. dal 2013 le morti per overdose da fentanyl e da altri oppioidi sintetici sono aumentate di sei volte, superando quelle dovute a ogni altra droga.
La lezione dell’aids assistendo alla catastrofe di questi anni mi sono accorto che somiglia molto all’ultima epidemia che ha ridotto drasticamente l’aspettativa di vita degli statunitensi, quella di aids. anche in quel caso ci è voluto molto tempo per capire cosa stava succedendo. L’aids riguardava una popolazione ristretta e quindi lontana dalle élite culturali (o nascosta al loro interno). Agli occhi di tutti gli altri, quelle morti erano astratte e relativamente sopportabili, soprattutto perché erano associate a uno stile di vita che molti consideravano inaccettabile. Quando l’epidemia finì sotto i riflettori e se ne capirono le ragioni, aveva già causato decine di migliaia di morti. Oggi, ancora una volta, le élite politiche e culturali riescono a ignorare le dimensioni della crisi perché spesso è invisibile, lontana dalle loro vite. La polarizzazione della società statunitense non fa che peggiorare le cose: quando un’epidemia distrugge un gruppo sociale diverso dal nostro, è più facile far finta di niente. Ogni tanto qualcuno delle élite si accorge che la malattia ha colpito i suoi figli, e allora il problema diventa improvvisamente urgente. La morte di una celebrità – Rock Hudson nel 1985, Prince nel 2016 – comincia ad abbattere il muro del silenzio. Le persone direttamente coinvolte si radicalizzano in reazione all’incapacità dello stato di affrontare il problema. I gay che negli anni ottanta entrarono a far parte dell’organizzazione per la lotta all’aids act up avevano una cosa in comune con le comunità infestate dagli oppioidi che hanno votato in massa per Donald Trump: un disperato senso di impotenza, la sensazione di vivere una catastrofe che il resto del paese non vuole vedere. A un certo punto non si poteva più ignorare il numero dei morti. Nel caso dell’aids, alla fine il governo e le case farmaceutiche studiarono un piano d’azione basato sulla prevenzione, l’educazione e la ricerca di una possibile cura. Questo sta succedendo in parte anche per gli oppioidi. L’ampia distribuzione dello spray Narcan – che contiene l’antagonista naloxone – ha già salvato molte vite. L’uso di oppioidi alternativi e meno pericolosi come il metadone e la buprenorina per aiutare le persone ad abbandonare l’eroina è stato utile. Per contenere i danni, alcuni centri hanno istituito programmi di scambio di siringhe (dove si portano quelle usate per averne di nuove). Ma niente di tutto questo è sufficiente per fermare l’epidemia. In fondo, per l’hiv e l’aids l’obiettivo scientifico era chiaro: trovare farmaci che impedissero al virus di replicarsi. Per la dipendenza dagli oppioidi non c’è nessuna potenziale cura in vista. Parlando della crisi degli oppioidi, molti ricordano che nel caso dell’aids le morti si ridussero di colpo dopo il picco. Ma dopo il recente picco nell’uso del fentanyl, difficilmente succederà la stessa cosa. Al contrario, le morti continueranno ad aumentare. Nel corso del tempo, l’aids si è fatto strada anche nel sistema politico. Più di qualsiasi altra cosa, ha rivelato ciò che si voleva mantenere nascosto e accelerato il riconoscimento della dignità e dell’umanità degli omosessuali nella società statunitense. I frutti di questo cambiamento sono stati i matrimoni gay e la possibilità per gli omosessuali di entrare nell’esercito. ma i politici statunitensi sono rimasti indifferenti davanti alla crisi degli oppioidi. Nonostante il grande sostegno di molte delle comunità più colpite, l’amministrazione Trump non ha nominato nessuno che abbia l’esperienza e l’autorità necessarie per dare una risposta adeguata. L’oice of national drug control policy, l’agenzia che coordina le politiche sulle droghe, è rimasta per più di un anno senza un direttore. Si prevede che il suo budget sarà ridotto del 95 per cento. Kellyanne Conway, l’“esperta di oppioidi” della casa Bianca, non ha nessuna esperienza di governo, e meno che mai sul tema delle droghe. Anche se Trump vuole aumentare la spesa per la cura delle dipendenze, l’idea generale è quella di tornare a un rigido proibizionismo. Di recente il ministro della giustizia Jef Sessions ha detto di essere convinto che la marijuana apra la porta all’eroina, un’idea così lontana dalla realtà che si fa fatica a crederci. Sembra chiaro che Trump non risolverà il problema, come Reagan non risolse quello dell’aids, ma la perdita di vite umane potrebbe essere ancora più alta. È dimostrato che uno dei pochi modi per ridurre le morti da overdose è creare dei centri dove le persone possano assumere droghe sotto controllo in modo da liberarsi dalle dipendenze per le sostanze più pesanti. Luoghi dove gli si fornisce sostegno psicologico, gli si dà un rifugio sicuro e gli si offre una formazione professionale. A Vancouver, dove è stato aperto il primo centro con queste caratteristiche in Nordamerica,
le morti per overdose di eroina sono diminuite del 35 per cento. In Svizzera, dove ce ne sono sparsi in tutto il paese, sono state ridotte della metà. Trattando i tossicodipendenti come esseri umani che hanno una dignità invece che come falliti o criminali responsabili della loro stessa emarginazione, questi programmi hanno allontanato molte persone dall’orlo del precipizio indirizzandole verso una vita più produttiva. Ma per realizzare un progetto simile gli Stati Uniti dovrebbero prevedere la possibilità di fornire eroina ai tossicodipendenti e dirottare buona parte dei fondi investiti nella repressione, nei processi e nelle carceri verso un grande programma di riabilitazione. Il governo dovrebbe, in poche parole, mettere fine alla guerra alla droga. Ma siamo ancora molto lontani da un’ipotesi simile. Anche perché finora non è emerso un movimento nazionale paragonabile al gruppo act up nato negli anni ottanta. Aspettiamo di vedere quante morti serviranno per convincere gli Stati Uniti ad abbandonare l’approccio proibizionista e a rispondere in modo appropriato. centomila all’anno? Di più? Immaginate un attacco terroristico che causi quarantamila morti. O un virus che minacci di uccidere 52mila statunitensi in un anno. Qualsiasi governo la considererebbe una priorità. Per certi versi la diffusione del fentanyl – che oggi comincia a infiltrarsi nella cocaina, nell’adderall contraffatto e nel metadone – potrebbe essere considerato un avvelenamento di massa. In molti casi ha infettato altri farmaci trasformandoli immediatamente in sostanze letali. Nel 1982 fu trovato del veleno in alcune pillole di tylenol. Tutti i flaconi del farmaco in circolazione nel paese furono immediatamente ritirati. A Chicago la polizia girò per i quartieri con gli altoparlanti per avvertire la popolazione del pericolo. Questa fu la reazione a un evento che uccise solo sette persone. Nel 2016 gli oppioidi sintetici hanno ucciso ventimila statunitensi. A quanto pare alcune vite valgono meno di altre.
Una delle immagini più chiare che gli statunitensi hanno dell’abuso di droga viene da un esperimento in cui un topo in gabbia continua a bere da una bottiglia che contiene acqua mista a cocaina. alla fine il topo muore. Qualche anno dopo quell’esperimento, uno scienziato curioso ne realizzò uno simile, ma creando un gruppo di controllo. In una gabbia c’era un ratto con un distributore d’acqua che conteneva morina. in un’altra, oltre al topo e al distributore, c’era una ruota su cui correre, palline con cui giocare, cibo e altri topi con cui divertirsi e fare sesso. Una sorta di parco divertimenti. Lo scienziato osservò che i ratti nel parco consumavano cinque volte meno acqua con la morfina rispetto al topo solo. Uno dei motivi della dipendenza patologica, evidentemente, è l’ambiente. Se foste in una cella d’isolamento, e aveste solo della morfina per distrarvi, morireste in pochissimo tempo. Se si toglie lo stimolo della comunità e tutta l’ossitocina naturale che produce, la variante artificiale di quella sostanza diventa più appetibile. Da padre a figlio un modo di pensare agli Stati Uniti postindustriali è immaginarli come un vecchio parco che si sta lentamente trasformando in una gabbia. Il capitalismo di mercato e la rivoluzione tecnologica hanno modificato la nostra realtà economica e culturale, soprattutto per chi ha un basso livello d’istruzione. Il senso della propria dignità di molti uomini della classe operaia che provvedevano alle loro famiglie con il lavoro manuale è andato in parte perduto per via dell’automazione. C’è stato un crollo della stabilità familiare, e tra gli operai e la classe media bianca il numero di bambini che non hanno due genitori in casa è aumentato. Dare un senso alla vita – come faceva in passato una cultura spesso religiosa e condivisa, almeno formalmente, con gli altri – è sempre più difficile, e la percentuale di statunitensi che dichiara di non avere nessuna affiliazione religiosa ha raggiunto livelli record. Anche se il tasso di disoccupazione è molto basso e il reddito mediano delle famiglie è abbastanza alto, c’è una diffusa sensazione d’insicurezza economica e di vuoto spirituale. Un tempo questo vuoto era in parte compensato dal continuo miglioramento degli standard di vita, generazione dopo generazione. Ma oggi non è più così per la maggior parte degli statunitensi.
Stati rurali come New Hampshire, Ohio, Kentucky e Pennsylvania hanno superato le grandi metropoli per uso e abuso di eroina, e la dipendenza si è diffusa rapidamente nei quartieri periferici. Una delle novità di oggi è che gli oppioidi sono tornati in altri luoghi senza speranza che conosciamo bene: i quartieri poveri abitati dai neri, dove le morti per overdose, soprattutto a causa del fentanyl, stanno aumentando. a peggiorare le cose, il settarismo politico e culturale ha indebolito il collante del patriottismo, e oggi molti statunitensi si sentono stranieri nella loro terra. Negli Stati Uniti l’individualismo, la disumanizzazione prodotta dal capitalismo, i continui stravolgimenti, combinati a una presenza minima dello stato, hanno sempre contribuito a creare una società atomizzata, dove ognuno deve dare un senso alla propria vita e tutti si sentono soli. Ma per molto tempo i cittadini hanno riempito questo vuoto con l’etica del lavoro, con una rete di associazioni e con un senso di appartenenza alla propria comunità più forti e diffusi che in Europa, con una varietà di fedi religiose così grande da non consentire quasi a nessuno di rimanere senza uno scopo nella vita. Tocqueville vedeva in queste particolarità la chiave del successo della democrazia americana, ma temeva che non sarebbe durato per sempre. infatti non è durato. Negli ultimi decenni i tradizionali puntelli della vita collettiva sono andati scomparendo e sono stati sostituiti da varie forme di distrazione di massa. Per la maggior parte delle persone che ci sono rimaste intrappolate, all’inizio non è stata una scelta cosciente: molti sono stati introdotti alle gioie del papavero da familiari e amici, sono stati l’ultimo anello di una catena che partiva dalle case farmaceutiche e passava attraverso il mondo della medicina. Tutte queste vittime forse non andrebbero viste come persone infelici che si sono rivolte in massa alla droga, ma come persone che non si erano accorte di quanto fossero infelici fino a quando non hanno scoperto come poteva essere un’esistenza senza infelicità. Tornare alla loro vita precedente era impensabile. E per molti è ancora così.
Se Marx diceva che la religione è l’oppio dei popoli, ormai siamo in una nuova fase della storia dell’occidente in cui è l’oppio a essere la religione dei popoli. È facile ignorare quelli che sono rimasti intrappolati o sono morti perché l’oppio ha riempito un vuoto. ma non è altrettanto facile ignorare le decine di milioni di statunitensi che si affidano agli antidepressivi, allo Xanax o a qualche benzodiazepina per tenere a bada ansie meno acute. Nello stesso periodo in cui gli oppioidi si sono diffusi come un incendio nei boschi, è aumentato anche il consumo di cannabis, un sedativo molto più leggero ma che improvvisamente è diventato popolare tra le persone di successo. E allora perché meravigliarsi se i falliti usano qualcosa di più forte? C’è un passo di una poesia di William Brewer che mi fa male al cuore ogni volta che lo leggo. Parla di un padre tossicodipendente e di suo figlio. il padre dice: ci sono volte in cui mio figlio mi sveglia, la siringa ancora appesa al mio braccio come una piuma. cos’è questa cosa che fai sempre, mi chiede. Volo, dico io. Mostrami come si fa, mi prega. E alla fine lo faccio. Da come sorride, sembra che il sole si sia perso nella sua testa.
Vedere l’epidemia solo come un problema di dipendenza chimica significa non capire la disperazione che spinge tante persone a desiderare di volare via. Fino a quando non avremo risolto molti problemi sociali, culturali e psicologici, fino a quando non saremo riusciti a dare un nuovo senso alla vita, a riscoprire la nostra vecchia religione o a reinventare il nostro modo di vivere, il papavero vincerà sempre. Oggi la gioia che danno gli oppioidi sta riempiendo il vuoto del cuore e dell’anima come ha sempre fatto dall’alba della civiltà. Ma stavolta il pericolo non è solo quello della dipendenza. Come non era mai successo nella storia dell’umanità, i figli chimicamente modificati di quel fiore tenace portano con sé la morte. Sono gli agenti dell’oscurità eterna. E c’è ancora molta strada da fare, e molti cadaveri da contare, prima di rivedere la luce.
L’autore
Andrew Sullivan è un giornalista conservatore, gay e cattolico. È nato nel Regno Unito ma dal 1984 vive negli Stati Uniti. È stato direttore della rivista New republic.

internazionale 29.4.18
Cina
Come Mao comanda
Deje Rammeloo, De Groene Amsterdammer, Paesi Bassi
Nate alla fine degli anni cinquanta come forma di organizzazione delle campagne, le comuni popolari sono sparite con l’apertura della Cina all’economia di mercato. E oggi Nanjie, l’ultima rimasta, è una meta turistica


Nella casa di Wang Chun Yu, una pensionata di 64 anni, c’è un grande ritratto di Mao Zedong affisso al muro sopra una statuetta che lo raffigura. Sulla credenza sono appese le regole del villaggio di Nanjie. La signora Wang, che le rispetta senza difficoltà, è stata nominata cittadina modello. Sta cercando di calmare il nipotino di cinque mesi seduto sulle sue ginocchia con indosso un paio di pantaloncini aperti sul cavallo, tipici dei bambini nella Cina rurale. Da una delle camere da letto si sente la tosse della nipote di sette anni, Li Yi Ke. “Una volta dovevamo fare i contadini”, racconta Wang. “La terra ci veniva assegnata. Oggi non dobbiamo più preoccuparci di avere abbastanza da mangiare”. Wang indica la credenza, la tv, il condizionatore acceso nell’angolo. Tutte cose che le sono state assegnate. Nanjie è un villaggio speciale: qui è tutto gratis. Tutti hanno un lavoro e un piccolo reddito, e ricevono una casa e i mobili. Su una tessera elettronica viene caricato mensilmente il denaro per fare la spesa, e un’altra carta serve a ritirare la razione di riso e spaghettini al punto di distribuzione. In cambio, tutti sono al servizio dell’economia locale. Gli abitanti spiegano più che volentieri ai turisti provenienti da ogni angolo della Cina come funziona Nanjie, il villaggio maoista conosciuto come l’ultima comune popolare del paese. Dagli altoparlanti risuonano canti di lotta comunisti, canzoni popolari, citazioni di Mao e indicazioni su come vivere in modo sano. Nanjie è un villaggio modello. Per i visitatori più anziani è un luogo che suscita nostalgia e malinconia, per i più giovani una fonte d’ispirazione.
Un grande uomo
Nella primavera e nell’estate del 1958, i leader locali fecero installare ovunque in Cina delle cisterne. Quest’ordine dell’ufficio centrale del Partito comunista strappò i contadini ai campi, e molte regioni si trovarono a fare i conti con una grande carenza di manodopera. Come soluzione i leader locali crearono enormi comuni formate da diverse cooperative agricole. In visita nella provincia dello Henan, Mao Zedong ne vide una per la prima volta. La comune popolare di Zeven Li lo colpì molto. “Questo nome, ‘comune popolare’, è meraviglioso! Sulla via verso il comunismo, i nostri contadini hanno dato vita alla comune popolare come organizzazione politica ed economica. La comune popolare è una cosa straordinaria!”. Quest’affermazione spinse molti altri villaggi a organizzare la forza lavoro nello stesso modo. Mao avrebbe stravisto per Nanjie, proprio come il villaggio stravede per lui. La Cina continua ad amare l’uomo che la unificò, ma mentre altrove il culto della sua persona si è molto ridimensionato, qui è ancora onnipresente. “Mao era un grande uomo”, dice Wang Jing Jing, 12 anni, uno studente con gli occhiali tondi e una camicia di jeans. In classe parlano del vecchio presidente cinese usando un libro scritto dalla scuola locale. L’edificio scolastico ha due piani e la classe di Jing Jing si trova al piano terra; un portico coperto percorre tutto il lato lungo. La pioggia scroscia sul tetto mentre Jing Jing recita quello che ha imparato: “Un tempo la Cina era una nazione arretrata, grazie a Mao si è evoluta. È merito suo se il paese è arrivato dov’è oggi”. All’ingresso della scuola c’è una statua di Feng Lei, un giovane comunista che fece molti sacrifici per il partito e morì nel 1962. Gli altoparlanti diffondono il canto Prendi esempio da Feng Lei!, che tutti i cinesi conoscono dalle elementari. Jing Jing non sa ancora cosa farà da grande, dice. Forse la giornalista. “Voglio viaggiare tanto”. Nella Repubblica popolare cinese non c’è un esperimento più riuscito di Nanjie. Con le prime riforme, all’inizio degli anni ottanta, furono privatizzati una fabbrica di mattoni e un mulino. Quando entrambi finirono sul lastrico, Wang Hongbin, leader locale del partito dal 1977, fece un’inversione di rotta e ricomprò le due aziende. Fu l’inizio di una seconda collettivizzazione dell’intero villaggio. Tra il 1980 e il 1995 l’economia di Nanjie crebbe in maniera esponenziale. Intanto Pechino si teneva al passo con i tempi, racconta Wang Hongbin, 66 anni. Come molti cinesi della sua generazione Wang, nato e cresciuto a Nan ¬ jie, dopo le scuole elementari andò a lavorare nei campi. Ha la pelle abbronzata e lucida, e quando sorride le foglie di tè che ha tra i denti attirano l’attenzione. Che il comitato direttivo del partito apprezzi la sua fedeltà lo si capisce dal fatto che ha partecipato a tutti i congressi dal 1992 fino all’ultimo, lo scorso ottobre. Il suo motto è “dentro cerchio e fuori quadrato”, parafrasando un detto cinese. “Il cerchio è inteso come connessione all’economia di mercato, mentre il quadrato ci congiunge agli interessi del nostro villaggio”, spiega Wang. Come uomo del partito, molto tempo fa ha promesso di lot¬tare per una comunità comunista. “Un obiettivo ancora valido”, dice sorseggian do tè verde. Oggi nel villaggio, chiamato anche Nanjie Group, ci sono 26 aziende. “Il nostro obiettivo è che nessuno abbia dei risparmi propri. Questo significa che gli abitanti di Nanjie sono proprietari di tutto, anche dei mezzi di produzione”.
I tour rossi
Ai confini del villaggio c’è una fila ordinata di golf car. Gli hongse luyou, le gite rosse, partono di continuo. Il villaggio, che a quanto pare attira 500mila persone all’anno, assolve con gran fervore al suo compito propagandistico. La prima tappa è nella piazza centrale, dove i turisti possono ammirare la statua di Mao e l’arcobaleno che sovrasta la strada, affiancato dagli enormi ritratti di Marx, Lenin e Stalin. Canticchiando la musica che esce dagli altoparlanti, da uno dei veicoli scende un signore con grandi occhiali da sole gialli. “Qui è com’era una volta. Dovrebbe essere così anche da noi, nel Guangdong”, dice. Ha 79 anni ed è in vacanza con la moglie e una coppia di amici. La moglie si trascina dietro una borsa piena di spaghettini freschi, una specialità locale di cui a Nanjie vanno particolarmente fieri. E a ragione, secondo lei: “Sono squisiti!”. Il giro continua con una mostra dedicata al villaggio. Alle pareti ci sono foto di alti dignitari in visita. Poi si riparte per raggiungere la famosa fabbrica di spaghettini. Da dietro un vetro i turisti osservano il nastro trasportatore su cui si confeziona la pasta. Infine il pezzo forte della visita: la casa dov’è cresciuto Mao Zedong, all’interno del parco. I mobili originali sono pochi, la maggior parte sono riproduzioni. Come del resto la casa perché, con grande dispiacere del villaggio, Mao non è mai stato a Nanjie. L’edificio è una replica della sua casa natale di Shaoshan, ammette la guida. Una ragazza con un abito viola crea un piccolo ingorgo facendo una domanda alla guida. Vuole sapere come fanno le persone a comprare un’auto con i 250 yuan (trenta euro) al mese che guadagnano. Non si accontenta di una risposta vaga. La guida che macchina ha? “I desideri e i valori di oggi non sono gli stessi del 1980”, insiste la ragazza. “Quando Nanjie è stata fondata, la gente non aveva tante esigenze. Da allora il paese è cambiato, non può essere riportato al sistema ancora in vigore qui”.
Disuguaglianza latente
La comune, in effetti, è un’anomalia anche in un paese comunista come la Cina. Un’anomalia importante, sostiene la donna in viola: “È un bene venire qui e ricordare i princìpi del paese”. Chi si sente ispirato dalla gita trova nella gioielleria accanto alle casse del supermercato preziosi oggetti dedicati a Mao. Niente libretti rossi o magliette con la sua immagine, ma statuette d’oro e pesanti anelli a sigillo su cui spicca un Mao talvolta giovane, talvolta più vecchio. Questi oggetti possono costare anche qualche migliaio di euro. L’articolo più popolare è la spilla, racconta Li Ting, 25 anni, da dietro il bancone. “Si porta con tutto”. La sua voce delicata stride con la giacca di pelle che indossa. Non vorrebbe vivere in nessun altro posto, dice. “Qui ti danno tutto. Devi solo lavorare per poterti comprare i vestiti”. Il sistema maoista funziona davvero? Tutti i mezzi di produzione, vale a dire tutte le 26 fabbriche, sono al servizio del villaggio. La fabbrica degli spaghettini è frutto di una collaborazione tra l’Henan Nanjiecun e la giapponese TOM Company. I prodotti sono sviluppati in Giappone. L’innovazione di cui la Cina ha tanto bisogno non c’è nella cartiera, nella birreria, nella tipografia né nelle imprese dedicate al settore alimentare e all’imballaggio. C’è uno stabilimento farmaceutico, ma non è chiaro cosa produca. Il funzionario Lei Xiujuan, che è anche un giornalista della tv e del giornale locali, mostra l’ambulatorio del villaggio. Qui si usa soprattutto la medicina tradizionale cinese. Non a caso, infatti, nell’atrio è appesa una famosa citazione di Mao, grande sostenitore della medicina tradizionale: “La medicina cinese è uno dei tre contributi al mondo!”. Ci sono lampade per trattare i dolori alle articolazioni, una cabina a vapore e una terapista che massaggia un paziente con un sorriso raggiante. “Tutto gratis!”, ripetono la guida, la direttrice dell’ambulatorio e tutti gli abitanti del villaggio con cui parlo. Se c’è qualcosa che la medicina cinese non può risolvere, allora il paziente può andare in un ospedale in città. A spese di Nanjie, naturalmente. Mentre mi fa sistemare sullo sgabello in modo da potersi dedicare alla mia schiena, la massaggiatrice Bi Xiaofang, 34 anni, racconta di non essere originaria di Nanjie ma, come il marito, di vivere e lavorare qui da anni. Si sente parte del villaggio. Sul giornale locale racconta la sua vita di madre di una bambina di otto anni. Spera di ottenere prima o poi un hukou locale, il certificato di residenza con cui poter accedere gratis ai servizi. Bi Xiaofang non è l’unica a lavorare a Nanjie ricevendo un “normale” stipendio. Secondo Lei Xiujuan, il villaggio ha 3.700 abitanti (tra i quali mille operai) e circa settemila lavoratori arrivati da fuori. Questo porta a una disuguaglianza latente. Gli immigrati lavorano in una sorta di sistema capitalistico parallelo, spiegano i ricercatori Shizheng Feng e Yang Su, dell’università popolare di Pechino e dell’università della California, in un rapporto del 2013. Non ricevono la casa gratis né una tessera per la spesa; in compenso hanno uno stipendio più alto. Al contrario degli abitanti con l’hukou, non godono del valore aggiunto che creano con il loro lavoro. Questo sfruttamento capitalistico rimane per lo più nascosto dietro all’immagine ugualitaria della comune, scrivono i ricercatori. Due di questi “forestieri” sono Zhang, 59 anni, e Wang, 64. In una fabbrica d’imballaggi, con una specie di forcone tentano di stivare in una pressa carta e cartone usati. In realtà sono contadini, raccontano. “Ma oggi una macchina fa il nostro lavoro in pochi giorni”. Quando non sono nei campi lavorano qui. Due volte all’anno la macchina raccoglie il riso e il mais nei terreni, fruttandogli mille yuan (130 euro) a raccolto. “Qui ne guadagniamo mille al mese”. Quando finalmente la pressa forma una balla di carta, è l’ora della valutazione. Gli operai in tuta blu si dispongono su due file, poi il caporeparto fa un bilancio della giornata sulla base della produttività e degli incidenti sul lavoro. “Oggi in una postazione è suonato un cellulare. Sapete bene che non sono permessi cellulari sul lavoro!”, esclama. Dalle due file nessuna reazione. Nelle città cinesi si guadagna più che in campagna, e gli immigrati lo sanno. Si tratta di una formula di successo rodata che al governo piace applicare alle nuove aree urbane. Nel caso di Nanjie la situazione è un po’ diversa: nelle città gli immigrati non hanno gli stessi diritti degli abitanti del posto, ma hanno le stesse opportunità; a Nanjie non hanno nessuna possibilità di migliorare, di guadagnare di più, di avere voce in capitolo nell’amministrazione del villaggio o nelle aziende.
Cittadina modello
Dietro il vetro all’ingresso della casa della signora Wang Chun Yu compaiono due facce sorridenti. La porta non è chiusa a chiave e con un gran vocio entrano due donne seguite da altre signore e da un uomo. Hanno sciarpe colorate, cappelli rossi, grandi occhiali da sole e tuniche e magliette alla moda che risaltano rispetto ai vestiti modesti degli abitanti di Nanjie. Da cittadina modello, la signora Wang riceve spesso le visite dei turisti, dice rassegnata. Le donne curiosano tra le sue cose, infilano la testa in cucina e nella camera dei bambini.
Vengono da Wuhan, dice l’uomo, che ha una macchina fotografica enorme al collo. Malinconico, racconta di come Mao avesse sempre sostenuto questo tipo di vita. Il divario tra ricchi e poveri qui è molto minore che nel resto del paese. “È a questo che Deng Xiaoping voleva arrivare”. Gli piacerebbe che il sistema marxista fosse applicato anche nella sua città. “Le persone della mia generazione hanno nostalgia dei tempi andati”. Secondo lui le idee tradizionali possono convivere con l’apertura economica e lo sviluppo. “Ma solo se lo vuole il governo centrale”. Nella piazza da dove partono i pullman turistici risuona il discorso di Wang, il giovane eroe del villaggio. È una sfilza di esclamazioni ispirate a Mao, come “Preferisco costruire una montagna d’oro per la comunità che mezzo mattone per me stesso” e “Dai tutta la tua vita al partito!”. Il giovane Wang tiene in riga gli abitanti del villaggio obbligandoli a frequentare ogni settimana un gruppo di studio. Ogni gruppo si dedica alle parole di Mao. Cosa succede se qualcuno non è d’accordo con quelle affermazioni? O se qualcuno ha delle ambizioni? O se vuole avviare un’azienda o entrare in politica? “È impossibile convincere tutti delle nostre idee. Ma la maggior parte delle persone è d’accordo, e questa è la dimostrazione che abbiamo ragione”, dice Wang. Chi non vuole vivere a Nanjie, naturalmente può andarsene. Ma mandare via chi la pensa diversamente è molto più complicato. Con il sistema cinese di registrazione di famiglia è difficile revocare l’hukou a qualcuno. Il governo locale lavora quindi con un sistema a stelle: a ogni famiglia vengono assegnate dieci stelle che, in caso di comportamento scorretto, possono essere revocate.
Il trucco
 Cos’è importante per Mao? “Lealtà, onestà, lavoro duro”. Mentre lo dice, la commessa Ting Ting si batte il petto con il pugno. E di cosa si parla nei gruppi di studio? Scrolla le spalle e dice: “Non ci vado mai”. La cosa peggiore che può capitare è che il suo supervisore la critichi e le tolga una stella. Perdere una stella significa perdere un privilegio, per esempio gli spaghettini gratis. E se si rimane senza stelle? “Allora magari vengono a casa a controllare se ho pulito bene”. Quella di Ting Ting è solo in parte una battuta, perché controlli simili esistono davvero. Nanjie è un esempio arcaico di come la Repubblica popolare avrebbe potuto funzionare se Mao l’avesse avuta vinta. Ma Nanjie bara continuando a presentarsi come storia di successo economico. Senza i lavoratori arrivati da fuori e le grandi somme di denaro “investite” finora dal governo centrale, infatti, il sistema maoista del villaggio sarebbe crollato già da tempo. Dieci anni fa il fatturato del Nanjie Group è calato e nel loro studio i ricercatori Shizheng Feng e Yang Su scrivono che gran parte delle fabbriche non registra alcun profitto. Sembra che sia stata una maggiore cooperazione con i mercati esterni al villaggio a salvare le aziende. “Abbiamo bisogno del mercato. Senza il mercato le nostre aziende non andrebbero avanti”, dice Wang sfatando il mito del villaggio maoista autarchico. La signora Wang ammira il leader. Ha visto come ha cambiato il villaggio. “La mia famiglia non aveva soldi, non sono andata a scuola. Cosa ne so di politica?”. A contare, per lei, sono le dispense piene e gli studi di medicina che sua figlia si è potuta permettere trasferendosi nella grande città. Sua figlia, la madre del bambino che tiene in braccio e della bambina che tossisce in camera da letto, ora lavora nello stabilimento farmaceutico. È tornata a Nanjie per il sostentamento garantito, e per senso di responsabilità verso i genitori. La gente qui è felice, dice la signora Wang. “Anche se me ne sto semplicemente seduta qui, io sono contenta”. Sorride scoprendo un paio di denti neri. Il nipote ha fatto scappare i turisti con degli strilli acuti e sta ancora singhiozzando. Seduto sulle ginocchia della nonna fa pipì, che finisce allegramente sul pavimento in linoleum.

internazionale 29.4.18
Un’istituzione troppo vecchia
Erik Fosnes Hansen, Die Zeit, Germania
L’antichissima Accademia svedese, che assegna il Nobel per la letteratura, è finita al centro di uno scandalo


Neanche uno sceneggiatore sarebbe riuscito a concepire una trama con tutti questi elementi: sesso, crimine, star della vita culturale, glorie accademiche, luoghi sacri, abiti sfarzosi, complicità, tradimento, denaro, abuso di potere, intrighi e teste coronate. L’Accademia svedese, una delle più antiche e ricche d’Europa, fu fondata da re Gustavo III nel 1786 ispirandosi a quella francese. Ogni anno assegna il premio Nobel per la letteratura (gli altri Nobel sono assegnati dall’Accademia delle scienze), ma quest’anno potrebbe non esserci una premiazione. In poche settimane, quella che era una delle istituzioni culturali più rispettate del mondo si è rivelata un ricettacolo di scandali e intrighi. In questo momento solo undici dei diciotto membri dell’Accademia sono rimasti al loro posto, e si è creata una situazione di stallo.
Una gabbia dorata
Lo statuto dell’Accademia, redatto personalmente da Gustavo III, prevede che un accademico lasci il proprio seggio solo al momento della morte. E anche se dal punto di vista amministrativo, economico e politico l’Accademia non è indipendente, nessuno sa esattamente a quanto ammonti il suo patrimonio, visto che al contrario di tutte le altre istituzioni svedesi è svincolata dall’obbligo di dare informazioni e da ogni obbligo fiscale. Possiede quote, azioni e partecipazioni in un’infinità di aziende, da H&M a Volvo, e un notevole patrimonio immobiliare. La sua disponibilità economica si può solo stimare, senza contare che amministra tantissimi lasciti e donazioni. Secondo le stime, l’Accademia distribuisce più di tre milioni di euro all’anno tra borse di studio, premi e donazioni. Le diciotto persone che fanno parte dell’Accademia esercitano una grande influenza e godono di straordinari privilegi. Dispongono di case in Svezia e all’estero, e ricevono un compenso di cui non si conosce l’entità. Vivono in una sfarzosa bolla di tradizione, ricchezza, potere e onori. Nell’autunno del 2017 la loro gabbia dorata ha cominciato a scricchiolare per il primo scandalo legato al movimento #MeToo che ha interessato la Svezia. Al centro della vicenda c’è il fotografo d’origine francese Jean-Claude Arnault, 71 anni, sconosciuto fuori dalla scena culturale di Stoccolma ma noto in Svezia perché marito di Katarina Frostenson, che fa parte dell’Accademia. Dal 1989, poi, la coppia gestisce un circolo culturale, il Forum, che per anni è stato una porta d’accesso per chiunque volesse farsi strada nelle élite culturali svedesi. Una sorta di anticamera dell’Accademia o, meglio, una stanza sul retro. Il 21 novembre 2017 il quotidiano Dagens Nyheter ha pubblicato un reportage sulle molestie sessuali in cui chiama in causa Arnault partendo dalle accuse, piuttosto pesanti, di alcune donne, molestate (o peggio) anche in appartamenti di proprietà dell’Accademia a Stoccolma e a Parigi. In passato, l’Accademia ha finanziato le attività della coppia Arnault-Frostenson con un lusso costante di denaro. Arnault ha negato tutto e ora si attendono le conclusioni dell’inchiesta della polizia.
Il consiglio perde i pezzi
La segretaria permanente Sara Danius, in carica dal 2015 (la prima donna a occupare questo ruolo) ha reagito alle rivelazioni con prontezza. Ha chiesto una perizia legale a un importante studio di avvocati e ha fatto in modo che l’Accademia avesse tempo e tranquillità per valutare la situazione. La perizia è circolata all’interno dell’Accademia e ha provocato un secondo terremoto, finora poco percepito all’esterno. È emerso infatti che in almeno sette occasioni Arnault avrebbe rivelato in anticipo i nomi dei vincitori del premio Nobel. Bisogna considerare che il giro di scommesse su chi vincerà il premio raggiunge cifre molto alte. Nella perizia, che ancora non è stata pubblicata, si consiglia all’Accademia di lasciare che la polizia indaghi su Arnault, ma la maggioranza si è opposta. Il 6 aprile non è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi dell’assemblea necessaria per l’allontanamento di Katarina Frostenson. Si è arrivati così al terzo terremoto, avvertito anche all’esterno dato che, in segno di protesta, tre membri dell’Accademia hanno lasciato la loro poltrona. Il 10 aprile Horace Engdahl, segretario permanente dal 1999 al 2009, ha sferrato un violento attacco contro Sara Danius, definendola la “peggiore segretaria” nei 232 anni di storia dell’istituzione. Engdahl si è guardato dal citare la sua amicizia con Arnault. Il consiglio ha tolto la fiducia a Sara Danius, che ha lasciato l’incarico. I contenuti delle sedute dell’Accademia sono segreti. Ma tutto fa pensare che Horace Engdahl, che per l’opinione pubblica è una sorta d’incarnazione vivente dell’Accademia, abbia dato la priorità all’amicizia con il discusso marito di Frostenson piuttosto che al rispetto dell’istituzione, ed è riuscito a raccogliere abbastanza voti in suo favore in questo antichissimo circolo di gentiluomini. In più Engdahl, che avrebbe difeso Arnault in altre occasioni, ha mostrato di non apprezzare le riforme che Danius ha cercato di introdurre. Gli appelli di centinaia tra ricercatori e scrittori hanno avuto scarsi effetti, così come la solidarietà verso Sara Danius espressa da varie personalità della vita culturale di tutta la Scandinavia, che hanno cominciato a indossare una camicia blu annodata sotto il collo, proprio come Danius. Solo il re di Svezia può modificare lo statuto dell’Accademia. Forse un nuovo regolamento, oltre a dare ai suoi membri la possibilità di dimettersi, potrebbe salvare un’istituzione che, ammesso che riesca ad assegnare il premio Nobel per la letteratura a ottobre, esce a pezzi da tutti questi scandali e queste accuse. La storia di una donna coraggiosa che paga le colpe di un uomo sembra vecchia almeno quanto l’Accademia stessa.
Erik Fosnes Hansen è uno scrittore norvegese. Fa parte dell’Accademia di Norvegia.

Da sapere
La mossa del re
L’Accademia svedese (una delle accademie reali di Svezia) è composta da diciotto persone, in carica a vita. Ad aprile, in conseguenza dello scandalo Arnault, oltre alla segretaria generale Sara Danius e alla moglie di Arnault, Katarina Frostenson, altri quattro membri hanno abbandonato l’accademia. Non si sono dimessi, perché le loro dimissioni non possono essere accettate, ma hanno smesso di partecipare alle attività accademiche. Già dal 1989 la scrittrice Kerstin Ekman ha abbandonato l’Accademia, colpevole, secondo lei, di non aver difeso lo scrittore Salman Rushdie, colpito dalla fatwa di Khomeini. Non è mai stata rimpiazzata. Oggi i membri attivi sono perciò undici, uno in meno dei due terzi necessari per prendere decisioni importanti. A questo punto solo il re di Svezia Carlo XVI Gustavo può sbloccare la situazione, modificando lo statuto dell’Accademia, concepito nel 1786.
The New York Times

l’espresso 29.4.18
Pantheon
Convergenze e convenienze
Chi è Giacinto della Cananea, professore né di destra né di sinistra. Il tecnico perfetto nell’era dei 5Stelle
Di Denise Pardo


Giacinto della Cananea è il Capo saggio esploratore, ora superstar che con altri vice saggi è stato incaricato da Luigi Di Maio tramite un contratto simil berlusconiano di un compito ciclopico, stilare un accordo di governo per individuare punti di convergenza con gli altri partiti in ballo, Lega e Pd. Se ci stesse anche Topo Gigio perché no? Come da annoso tormentone il Movimento 5Stelle ripete di non essere né di destra né di sinistra. Né carne, né pesce, forse sarà vegano. Allora l’interrogativo è: a parte la qualità - certo sarà un genio - quali criteri hanno determinato la scelta del professore della Cananea? Al tempo del grillismo anche per i tecnici l’identità culturale è zero o Zelig a seconda delle convenienze? È vero che a Giacinto della Cananea tipo elegantemente occhialuto, un curriculum con tutti gli optional del caso, è stato solo chiesto di trovare un filo conduttore tra il guazzabuglio di proclami elettorali. Non che si voglia sminuire l’alto contributo ma non sembra ci fosse bisogno di grandi cattedratici per arrivare alla conclusione che comporre un governo coeso in queste condizioni è impresa ardua. Che ingenuità. Quel che conta è stato l’impatto mediatico. E l’aver cooptato un professore assai stimato e con un nome davvero impattante per l’immaginario, genere Pico della Mirandola o genere personaggio di “Alto Gradimento”- «Mi dica professore della Cananea» avrebbe tuonato Renzo Arbore fingendo una telefonata -. E soprattutto un saggio legato a un milieu molto preciso. Allievo di Sabino Cassese - giudice emerito della Corte Costituzionale, ex ministro, giurista acclamato ora anche papabile premier - il professore della Cananea (la d è minuscola come quella dei nobiluomini), romano di 54 anni (in altri tempi, un rottamando) primo professore spuntato vicino ai grillini ha master e cattedre della migliore gamma. Ha insegnato a Yale, laboratorio per leader e una delle università più antiche e snob d’America e a Science Po a Parigi, altra incubatrice di uomini di futuro e sicuro potere (Mitterrand, Chirac, Hollande, Macron), dove ora l’ex premier Enrico Letta dirige la scuola d’affari internazionali. L’esploratore-professore è coautore di libri e pubblicazioni scientifiche con Bernardo Mattarella e Giulio Napolitano, colleghi nella stessa materia e figli di due presidenti, siede alla Corte dei Conti, in Confindustria, è di casa al ministero del Tesoro. Non si fa mancare nessuna tappa del grand tour dell’alta aristocrazia dello Stato. È uomo di sinistra, è liberale, è un grand commis per tutte le stagioni? Che posizioni ha su temi sociali, su giustizia, su res publica? I tecnici di riferimento dei politici hanno sempre avuto una matrice di appartenenza a una certa idea del Paese. Ma per i Cinque Stelle né di destra né di sinistra l’identità non è degna di nota. Nell’interscambiabilità di alleanze, nel trasformismo dei programmi sono più utili gli esperti che non propongono ma controllano se i compiti sono fatti bene. Che indicano incroci e convergenze (ennesima citazione morotea). Possibile e paradossale che tocchi a loro compiere il lavoro di mediazione che i politici dovrebbero fare seduti a un tavolo con gli altri politici? Se si pensa a tutti gli strali che il candidato premier Di Maio aveva lanciato sulla gens tecnica e sulla sua rete di relazioni fa sobbalzare il ravvedimento istituzionale e la sosta alla stazione del comitato di saggi lungo la via crucis per Palazzo Chigi. D’altra parte tutti considerano che uno degli sbagli più avventati di Matteo Renzi sia stato il taglio indiscriminato del rapporto tra alta burocrazia e governo. È probabile per esempio che il “comitato di conciliazione” previsto dai saggi per ricomporre eventuali divergenze tra alleati (forse l’uso di camicie di forza?) sia frutto della prudenza del professore il cui nome deriva da Canaan il nipote di Noè e corrisponde a un popolo, a una regione e a varie lingue antiche. Un tecnico incaricato di una missione pastorale in un manicomio politico. Di sinistra o di destra non è più chiaro a nessuno e pare di secondaria importanza.

l’espresso 29.4.18
Dibattito
La traversata del deserto/4
La discussione sui destini della sinistra aperta dall’articolo di Paola Natalicchio prosegue con l’intervento di Emanuele Farragina, docente di sociologia politica a Sciences Po Parigi e a Oxford autore, tra l’altro, di “La Maggioranza Invisibile” (2014) Bur-Rizzoli

Basta con il lavorismo
Occorre spezzare il legame tra reddito e impiego, tipico della vecchia società fordista. E riscoprire i valori universali. Solo così la sinistra potrà risorgere
di Emanuele Farragina


Siamo di fronte alla cronaca di una morte lungamente annunciata. In molti hanno descritto i cambiamenti che hanno sconvolto il blocco sociale e politico della vecchia sinistra e questo sconvolgimento può essere tratteggiato con poche istantanee. Sono spariti gli operai - o perlomeno è sparita quell’aura mitologica che li circondava quali demiurghi dei processi produttivi. L’economia si è terziarizzata, con la finanza e i servizi che hanno sostituito l’industria come motore. I sistemi di protezione sociale sono stati scardinati, con riforme che hanno precarizzato il lavoro e intaccato il modello sociale europeo. La ricchezza e i redditi si polarizzano in sempre meno mani. A corollario di queste trasformazioni, il popolo della sinistra è stato progressivamente rimpiazzato da una maggioranza invisibile di precari, disoccupati, poveri e migranti. Una maggioranza invisibile che non ha ragione di riconoscersi in quel che resta dei partiti di sinistra, una maggioranza invisibile che le élite politiche “progressiste” hanno ignorato. Il trionfo dei Cinque Stelle (e della Lega) e il tracollo del Pd e della galassia sinistra ne sono logica conseguenza. Siamo in una fase schumpeteriana: “distruzione creativa”. Anche solo per immaginare un futuro a tinte progressiste occorre lasciare da parte tutto un arsenale di concetti, parole d’ordine e personaggi politici, che non trovano posto nella modernità. Serve ripartire dalla rappresentazione sociale della maggioranza invisibile, incarnare il suo disagio, comprendere perché i cambiamenti sociali, economici e politici l’hanno spinta su posizioni di contestazione estrema del sistema. Una contestazione che non si presenta con richieste di redistribuzione e giustizia sociale, ma piuttosto con un afflato culturale. Considerate la Brexit, la vittoria di Trump o l’exploit della Lega. Questi successi elettorali non sono eccezioni o sussulti contro un processo di globalizzazione ormai ineluttabile, essi riflettono invece il risveglio della logica comunitarista contro quella predatoria del capitalismo neoliberista. Non trovando risposta e protezione in un progetto collettivo progressista molte persone appartenenti alle classi più deboli hanno abbracciato quello nativista. Invece di considerare i migranti come alleati nella lotta per la redistribuzione, molti cittadini fiaccati dalla crisi economica si affidano a idee retrive ma che sembrano dare sicurezza. Tuttavia, non basta liquidare questi elettori come ignoranti, occorre ragionare in termini sistemici. La società è cambiata fino a mettere l’individuo al centro di ogni discorso e rendere obsoleti i ragionamenti collettivi? Davvero chi parla di principi progressisti e visioni collettive di cambiamento vive fuori dalla storia? Uno vale davvero uno? O piuttosto le forze politiche tradizionalmente di sinistra, allineatesi al neoliberismo e vittime dei loro stessi successi nel proteggere alcune fette della popolazione, hanno dimenticato che l’arma rivoluzionaria del cambiamento è lo studio delle trasformazioni sociali al fine di rendere i più deboli capaci di agire in gruppo contro un sistema ingiusto? Dobbiamo abbracciare nuovi ragionamenti e trovare nuove motivazioni. Motivazioni necessarie per intraprendere una lunga traversata nel deserto. Per questa ragione mi voglio concentrare su una questione che è passata di moda all’interno della sinistra italiana, ma che è, di capitale importanza per dirimere alcuni nodi legati alle questioni che ho esposto. Si tratta della questione del valore Fino agli anni Settanta l’organizzazione sociale era lineare: l’uomo lavorava in fabbrica o nel pubblico impiego, la donna assolveva le funzioni domestiche e di cura, e quasi tutti gioivano dei frutti della crescita economica attraverso aumenti salariali negoziati dalle forze sindacali. Certo sotto il mantra del compromesso fordista, si nascondeva la questione dell’uguaglianza di genere e del ruolo della donna; ma ogni famiglia poteva risparmiare e investire nella casa e nell’acquisto di una Fiat nuova fiammante. E questo consumo sosteneva a sua volta la crescita. Con la crisi del fordismo, la stagnazione della crescita e la fine di un mondo basato sulla produzione in fabbrica sono simultaneamente crollati il potere d’acquisto degli operai e quello di contrattazione di sindacati e partiti socialdemocratici. In un’economia dominata dai servizi si è ridotto lo spazio per la contrattazione collettiva perché il lavoratore non garantiva più incrementi costanti di produttività. E così anche a seguito del cambiamento tecnologico e della delocalizzazione, i lavori in fabbrica si sono progressivamente trasformati in impiego nel settore dei servizi. Servizi di alto livello e ben remunerati per alcuni, servizi di basso livello per la maggioranza. Prendete come esempio gli impiegati di un fast-food o quelli di un call center. Certo si potranno rendere efficienti le tecniche di suddivisione del lavoro, ma c’è un numero massimo di hamburger da servire o di telefonate cui rispondere in un’ora. Il neoliberismo si adatta a questo schema, rimpiazza il keynesianismo, il consumo continua, ma non più sulla base della crescita economica, ma su quella del debito. I redditi stagnanti guadagnati nei servizi sono sussidiati dal debito per continuare a consumare e tenere in piedi la baracca. Nel passaggio dal fordismo all’economia dei servizi, la sinistra italiana ed europea ha perso di vista uno dei più grandi insegnamenti di Marx: non si può comprendere un sistema economico e mettere in azione una forza sociale contrapposta a quella dominante se non si definisce che cosa ha valore. Se non si definiscono le ragioni per le quali individui con storie di vita diverse dovrebbero farsi racconto collettivo. Invece di seguire questo processo classico e iscritto nella sua storia ottocentesca e novecentesca, la vecchia sinistra è passata dall’altra parte della barricata diventando forza di sistema. E così le élite dominanti hanno proposto politiche di austerità competitiva che non hanno alcun senso in un quadro economico di crollo della domanda interna e i sindacati si sono arroccati a difesa dei contratti e dei diritti dell’era industriale. Nel contempo il paese sbuffa e soffre, con precari senza protezione dal rischio di disoccupazione, pensionati poveri che stentano ad arrivare a fine mese, migranti che sostengono settori economici al collasso e disoccupati sempre più coscienti del fatto che non troveranno mai un lavoro. Questi soggetti sociali avrebbero tutto l’interesse a lottare collettivamente per misure redistributive e universalistiche invece che allinearsi su posizioni reazionarie. Per spingerli a farlo tuttavia dobbiamo superare l’idea che i diritti siano un bene solo per chi è impiegato nell’economia formale. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che il genitore che si prende cura di suo figlio, l’anziano che racconta al nipote una storia, il migrante che lavora in nero hanno pari dignità del lavoratore con contratto a tempo indeterminato (ove questo ancora esista…). È solo ripartendo dall’universalismo, dalla garanzia di un reddito svincolato dal lavoro nell’economia formale e dalla questione del valore a lungo ignorata che si può ridare forma all’idea progressista e collettiva, dando così rappresentazione sociale e politica alla maggioranza invisibile. È solo mettendo nel cassetto il keynesianismo, parentesi storica irripetibile in una società post-industriale, che potremmo opporci al mantra neoliberista e andare oltre la società lavorista. È un passaggio complesso, molti “vecchi compagni” non lo capiranno, ma la maggioranza invisibile non ha altre strade da percorrere.

l’espresso 29.4.18
Esclusivo
Un tesoro dal Rinascimento
Caro Giorgio, il tuo amico Michelangelo
Dalle lettere di Buonarroti alle spese di casa. Le straordinarie sorprese dell’archivio Vasari. Requisito dallo Stato
di Francesca Sironi


Michelangelo è già “Michelangelo”, ha già regalato all’umanità il corpo del David e la volta della Sistina, quando scrive a uno dei suoi amici più cari: «Se si potessi morire di vergognia e dolore io non sarei vivo». L’origine di tale sofferenza è un errore che ha notato nella cappella per il Re di Francia. Comporta solo un ritardo, ma basta al Buonarroti, impegnato nel cantiere di San Pietro, per voler disegnare all’amico l’arco sbagliato spiegando come l’errore non sia colpa del modello - «facto a punto, come fo d’ogni cosa» - ma della sua «vechieza»: dal non aver cioè visitato i lavori abbastanza a causa dell’età. È a Giorgio Vasari che si rivolge questo Michelangelo inaspettatamente fragile. E la lettera è una delle tante, straordinarie, sorprese dell’archivio Vasari di Arezzo: un nucleo di documenti unici al centro di una tormentata contesa fra i proprietari privati e lo Stato che dura ormai da decenni. Contesa arrivata però in questi giorni a una svolta chiave, come L’Espresso può raccontare. Il ministero dei Beni Culturali ha notificato infatti agli attuali padroni l’esproprio delle pagine arrivate dal Rinascimento. Per mettere fine a dissidi e tentativi di vendita, proteste, cause e rinvii che si susseguono dagli anni Ottanta lo Stato ha deciso di requisire l’archivio e di renderlo bene pubblico. I proprietari gridano allo «scippo» e hanno già pronto un ricorso. Ma grazie al provvedimento per la prima volta è possibile mostrare alcune delle meraviglie conservate nella collezione. Come appunto le righe in cui «il vostro Michelagniolo in Roma» si incupisce, anziano, con l’amico, per quello sbaglio rimediabile. L’importanza dell’archivio conteso è legata alla fama del suo fondatore. Giorgio Vasari, l’autore delle “Vite dei più eccellenti artisti” lette da generazioni e generazioni di studenti, era un uomo ordinato e consapevole del proprio ruolo. Nei faldoni di famiglia (le carte più antiche risalgono al 1460), fra i rendiconti di incombenze e spese domestiche, mantiene così alcune raccolte che sono diventate un tesoro senza pari per comprendere il Rinascimento, per entrare nell’ambiente artistico e culturale di cui Vasari è un perno portante. Fra questi dossier ci sono le “Ricordanze”, una lista dettagliata degli affreschi e delle opere realizzate da lui stesso, elencate «et a utile et esaltazione di me e tutta la Casa mia». Sono intestate simbolicamente al 1527: anno del sacco di Roma e dell’epidemia di peste, ma soprattutto anno in cui Giorgio perde il padre, a soli 16 anni. Gli autografi continuano nello “Zibaldone” dove raccoglie i suoi appunti di lavoro. Ma il cuore più emozionante, per chi si avvicina oggi a questi documenti, sono sicuramente le corrispondenze. Fra le pagine ben ordinate dal Vasari sono conservate infatti le lettere dei più grandi personaggi del tempo, da quelle di Cosimo I de’ Medici ai saluti di prelati, artisti, intellettuali. «Si vede il nascere stesso delle “Vite”, gli spunti e i consigli che innestano l’intera opera», racconta Diana Marta Toccafondi, la soprintendente toscana che da anni si batte per la tutela dell’archivio: «È un repertorio unico, una macchina della memoria che abbiamo il dovere di difendere e rendere viva». La memoria: nel carteggio, si trova ad esempio la voce di Paolo Giovio, grande umanista dell’epoca, che attribuisce alle “Vite” un’eternità che non sarà mai degli affreschi. «Il bel libro delli famosi pictori vi farà certo immortale», scrive al collega nel 1547: «perché le cose che avete fatto a Monte Oliveto in Napoli a quelli tiranni delle frittate grosse e grasse alla fine saranno chachabandole consumate dal salnitro e dalle tarle, ma quello che scriverete non lo consumerà il tempo». Il futuro gli ha dato ragione. Anche Annibal Caro, altro grande umanista, altro grande amico del biografo di Arezzo, è certo che il libro di Vasari avrà vita «perpetua», seppure «in un’opera simile» avrebbe voluto «la scrittura come il parlare». È il timbro vivo degli umanisti, la loro voce, che arriva senza mediazioni. Netta quanto «la graia precisa, quasi scolpita», come dice Toccafondi, della scrittura di Michelangelo. Che pur «vecchio e pazzo» per la gente, invia a Giorgio i suoi sonetti, commenti e impressioni. Quanto vale sul mercato una collezione come questa? E quanto può valere per la memoria nazionale, per la storia collettiva? Nasce qui il duello che riguarda le carte. Nel 1687 si estingue infatti la “linea maschile” dei Vasari, e come da volere del prestigioso antenato, i beni di famiglia vanno alla Fraternita dei laici di Arezzo. Incaricato dell’inventario è un alto funzionario locale, Bonsignore Spinelli. Che cede il resto ma tiene le carte per sé. Gli autografi aretini dormono così quasi dimenticati fino all’inizio del 1900, quando l’allora direttore del museo del Bargello, Giovanni Poggi, li riscopre negli armadi del pro-pro-pro-nipote Luciano Raspone Spinelli. Annunciata al mondo la scoperta sensazionale, Poggi si trova alla porta: il conte non gli permette di approfondire le ricerche. Nel frattempo, vende per 35mila marchi a uno studioso tedesco il diritto a pubblicare in esclusiva i documenti. «Si era prossimi alla guerra mondiale, successe un putiferio», racconta Toccafondi: «Editoriali su editoriali condannarono la vendita “ai nemici” di una gloria italiana». Nel clamore, lo Stato interviene e vincola subito l’archivio. Nel 1921, all’anniversario dello scrittore dell’età d’oro, la città di Arezzo ottiene dall’erede il «deposito perpetuo» dei manoscritti alla Casa Vasari, diventata nel mentre museo. La memoria scorre quasi quieta fino al 1985, quando il capitale inestimabile passa dalla vedova Spinelli al nipote, Giovanni Festari. E qui la vicenda ricomincia a annodarsi. Prima con un furto, denunciato solo con anni di ritardo. Poi con tre gruppi di documenti (non depositati, per sbaglio, al museo) che vengono ritrovati nel 1988 alla biblioteca di Yale, dopo esser passati da un antiquario svizzero. Nonostante i numerosi tentativi di riportarli in Italia, portati avanti dai Carabinieri, sono ancora lì. Festari intanto fa causa al comune per ottenere la revoca del deposito. E nel 2000 una sentenza della corte d’Appello gli dà ragione. Nel frattempo però si era mosso anche lo Stato: nel 1994 aveva vincolato per sempre le lettere e tutti gli altri scritti al museo. Vincolo ritenuto valido dal Tar con una decisione passata in giudicato. Così Vasari rimane a casa sua. Ma le peripezie continuano. Un debito dei Festari causa infatti un primo pignoramento dell’archivio. Il sonetto di Michelangelo e i suoi dubbi non si muovono dagli armadi blindati che li conservano nel museo, ma restano inagibili ino al pagamento (avvenuto). Nel giugno del 2009 un altro colpo di scena: i quattro fratelli Festari, Antonio, Francesco, Leonardo e Tommaso, eredi a loro volta da parte del padre Giovanni, annunciano un acquirente. Si tratterebbe di un imprenditore russo, Vasily Stepanov, pronto a versare 150 milioni di euro per le carte degli umanisti. «Aveva già depositato i soldi in banca», assicura l’avvocato di famiglia, Guido Cosulich: «Ho le prove». Ma la procedura risulta al ministero piena di lacune. E il trasferimento si ferma. Nel frattempo per i Festari s’apre un altro fronte con Equitalia, questa volta, che pretende 695mila euro, si legge negli atti. L’archivio va all’asta, ma il debito viene poi estinto, il sequestro cancellato. Fino a un nuovo tentativo di vendita a un ex imprenditore italiano residente in Romania. Che salta. E ancora altri pignoramenti, dissidi e sentenze che danno ragione a una parte poi all’altra, avvisi e controversie. Per gli eredi, arrivati a incatenarsi al cancello del museo per ribadire il proprio possesso, in questi anni lo Stato ha impedito loro di valorizzare le pagine del ‘’500 attraverso mostre e grandi eventi: attività per la quale avevano anche fondato una società, la “Archivio Vasari Management”, 17 mila euro di fatturato e 113 mila di perdite nel 2016. Per lo Stato, la proprietà è stata invece fonte estenuante di trattative e ostacoli negli interventi, dalla digitalizzazione ai restauri, ai programmi di esposizione. In questi giorni la decisione definitiva: l’esproprio. «Quando si parla di tutela del patrimonio culturale, ovvero della funzione istituzionale di maggiore responsabilità del nostro ministero, si ricomprende anche il ricorso a provvedimenti come questo», commenta il direttore generale degli Archivi che ha firmato il provvedimento, Gino Famiglietti: «Fare tutela, infatti, è una scelta politica e culturale. Individuare, proteggere e conservare le testimonianze della nostra memoria collettiva, assicurandole al patrimonio pubblico e favorendone la conoscenza e lo studio, significa recuperare il senso della nostra storia, e quindi della nostra dignità ». La famiglia è pronta a nuova battaglia. Contesta l’esproprio nel merito - «è uno scippo», dice l’avvocato Cosulich - e nel valore: un milione e 500 mila euro. Un prezzo stabilito secondo perizie e commissioni che hanno tenuto conto dei vincoli da cui è stretto l’archivio. «Vedremo cosa diranno i nuovi giudici. È una cifra minima rispetto al prezzo di mercato», ribadisce l’avvocato: «E sì che avevamo richieste da Montecarlo, Parigi...». Sarebbe bello chiedere a “messer Giorgio caro”, lui, che ne pensa.

l’espresso 29.4.18
Le idee
Quel populista di Hobbes
La crisi delle democrazie occidentali ha radici antiche. Che oggi tornano in superficie nel rifiuto e nel rancore
di Roberto Esposito


Conosciamo gli scogli su cui si è infranto il vascello della sinistra europea. Ma ad essere sotto scacco è l’intera politica delle democrazie occidentali - da un lato svuotata di sostanza e dall’altro minacciata da rigurgiti xenofobi che richiamano tempi oscuri. Il nome che in generale si dà a questo insieme di fantasmi, tentando così di esorcizzarli, è quello di populismo. Ma forse è arrivato il momento di porsi una domanda più di fondo: tutti questi fenomeni regressivi sono la causa del malessere di cui la politica pare prigioniera, o la conseguenza di qualcosa di assai meno recente, che sfugge all’attenzione della cronaca e cui non è ancora stato dato un nome? Io credo sia proprio così. Quanto di negativo oggi accade, mettendo la politica con le spalle al muro, è la conseguenza fatale di una macchina della negazione che affonda le sue radici alle origini della politica moderna.

Di cosa si tratta e soprattutto come funziona? La denominazione che in genere i filosofi assegnano a questo dispositivo distruttivo dei valori, etici e anche politici, è nichilismo, come è stato teorizzato da Nietzsche Ma il nichilismo politico moderno nasce con il filosofo inglese Homas Hobbes. E precisamente dalla sua idea che la creazione dello stato politico - mediante il patto sociale - presupponga l’annientamento dello stato naturale. Per costruire un ordine necessario a mantenerli in vita, proteggendoli dalla guerra di tutti contro tutti, gli uomini devono abbandonare lo stato di natura, rinunciando ai propri diritti naturali a favore del sovrano. Questo ragionamento, che per certi versi ispira l’intera filosofia politica moderna, esprime nella maniera più plastica quella che prima chiamavo “macchina della negazione”. Essa funziona in questo modo: per ottenere un bene politico - e anzi il massimo bene, costituito dalla conservazione della vita - gli esseri umani devono negare la propria stessa natura, assoggettandosi a un sovrano titolare di un potere assoluto nei loro confronti.
Già in questa concezione, per certi versi realizzata nella effettiva costruzione dello Stato assoluto che inaugura la modernità politica, risuona qualcosa che ci è familiare: alla fonte dell’ordine politico c’è la paura e il bi sogno di sicurezza, rispetto ai quali ogni altro impulso positivo cede il passo. E infatti questa procedura negativa, dentro la quale nasce la politica moderna, caratterizza tutte le sue principali categorie: quella di sovranità, intesa come il contrario della pluralità; quella di proprietà, intesa come divisione di un mondo dato in comune; quella di libertà, pensata non come libera partecipazione al governo della città, ma come semplice rovescio della necessità, come ciò che resta possibile rispetto a quanto la legge proibisce. Ma se ogni concetto viene definito non dal proprio significato positivo, ma dalla negazione del suo contrario, la politica stessa tende a diventare un potere negativo che gli uomini subiscono come il male minore rispetto a uno più grande - il pericolo della morte violenta. Colui che, a tre secoli di distanza da Hobbes, porta questo dispositivo negativo al suo esito estremo è il grande e ambiguo giurista tedesco Carl Schmitt, approdato al nazismo e consideratosi sempre allievo di Hobbes. Per Schmitt la politica, nel suo nucleo essenziale, è sospesa a una doppia negazione. Da un lato essa è qualificata dall’opposizione tra amico e nemico; dall’altro l’amico è definito solo dall’essere il contrario del nemico: non è altri che il nemico del nemico. In questo modo, a partire dall’assoluto primato dell’inimicizia, in politica non vi sono che nemici. Non per nulla la politica è da Schmitt ricondotta allo stesso linguaggio della guerra: in entrambe è inevitabile tendere all’uccisione - se non fisica, metaforica - dell’avversario, inteso appunto come nemico mortale. In verità Schmitt presenta questa precedenza del nemico sull’amico come una semplice necessità logica: come, nel diritto, la legge è percepibile nel suo significato ultimo a partire dall’infrazione, così, in politica, per capire il carattere di un’alleanza, bisogna sapere contro chi è rivolta. Ma questa negazione logica - in base a cui ogni cosa è definita dal suo contrario - tende a farsi negazione reale, che prevede l’annientamento o l’esclusione dell’antagonista. Oggi lo vediamo molto bene. A uscire di scena è la possibilità della compresenza tra differenti: il diverso diventa di colpo avversario e l’avversario il nemico da distruggere.
Come è noto, il nazismo è stato l’esito parossistico di questa logica negativa. Ma anche la democrazia contemporanea ne ha incorporato il virus. “Negative politics” o “poison politics” - politica del veleno - è considerata dai politologi non una variante minoritaria, ma la forma generale che sta assumendo la democrazia contemporanea. La politica negativa, cui siamo da tempo assuefatti, è quella che si attua quando si preferisce contrastare i progetti altrui, piuttosto che proporne di propri. Nella recente campagna elettorale italiana ne abbiamo avuto palese testimonianza. Ciò nasce dal fatto che in una società della comunicazione come la nostra è più facile aggregare il consenso contro qualcosa che per qualcosa. Per esempio, è più facile chiedere l’abolizione della legge Fornero, che proporne una nuova. Il messaggio negativo, teso alla delegittimazione di qualcuno ha un tasso di penetrazione molto superiore rispetto al messaggio positivo. Esso - il messaggio negativo - costituisce una sorta di calamita per stati d’animo di rifiuto, risentimento, rancore di cui è satura la nostra società. Mai come oggi le passioni negative dell’invidia e della gelosia prevalgono su quelle positive. Ma in questo modo una democrazia dell’interdizione finisce per sostituirsi a una democrazia del progetto. La radice di quello che si definisce impropriamente populismo è tutta qui. Quello che bisogna fare è non contrastare il populismo con la sua stessa logica, vale a dire semplicemente negandolo, ma rispondere in positivo alle istanze che, inconsapevolmente, esso trasporta.

l’espresso 29.4.18
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari


Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o  soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero. Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politi che. La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo. Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza. Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema. Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti. Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere. È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile. Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa. È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni. Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore. L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato? Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà. Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”. La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.

l’espresso 29.4.18
Liberi tutti. E subito
colloquio con Andreas Arndt di Stefano Vastano


Da ragazzo scrisse poesie e romanzi (poco originali). Come filosofo ci ha lasciato una visione della società e dell’economia destinata a rivoluzionare il mondo. «Non possiamo capire nessun grande evento del Ventesimo secolo senza Marx», dice Andreas Arndt, uno dei massimi esperti del suo pensiero. «Ma per capire davvero Marx bisogna tornare al suo rapporto con Hegel». In questa intervista esclusiva Arndt, docente di filosofia alla Humboldt Universität di Berlino - la stessa in cui insegnò Hegel e studiò Marx - ci spiega il perché.
Per capire Marx dobbiamo dunque ripartire da Hegel?
«La questione è controversa: c’è la tradizione socialdemocratica che solo nel giovane Marx vedeva il discepolo di Hegel. E c’è poi Lenin che riscopre tratti hegeliani nel Marx maturo. Per me Marx, anche mentre scrive il Capitale, rielabora in modo produttivo Hegel, e si vede come colui che ha rimesso il padre dell’idealismo con i piedi per terra».
“I filosofi hanno sinora interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”: è questo riferimento alla Praxis la vera matrix o la magia di Marx?
«Il riferimento alla praxis è comune ai giovani hegeliani. Quel che è specifico è il suo modo non ortodosso di pensare la scienza, che gli consente di scrivere una “Critica dell’economia politica” innestando storia e antropologia, scienze e letteratura nel campo dell’economia. Lo sguardo di Marx è universale, oggi diremmo “interdisciplinare”: per questo è un autore fondamentale del Ventesimo secolo».
Sguardo interdisciplinare che gli fa scorgere, dietro all’apparenza delle merci, la dura realtà della produzione capitalistica…
«Già nei “Gründrisse” del 1857 Marx elabora una posizione da cui vede tutti gli individui nel sistema capitalistico, il lavoratore salariato come il manager dell’impresa, prigionieri di una libertà solo formale, apparente. Da qui la dimensione etica e politica in Marx, la volontà cioè di liberare non solo una classe, quanto ogni singolo individuo da rapporti economici di dipendenza o alienanti e dal feticismo compulsivo del consumismo».
Nasce filosofo e si avvicina lentamente ai classici dell’economia, anche se - secondo il biografo Gareth Stedman Jones - non capirà mai bene le tesi di Ricardo…
«Marx si avvicina all’economia non solo tramite Engels, ma già come giornalista, e poi a Parigi nelle sue analisi di Proudhon. È un tedesco, e a Londra passerà al setaccio i classici: il suo obiettivo è far saltare i limiti e le categorie della scienza economica. La sua domanda non è mai come funziona l’economia, ma cosa implicano le forme capitalistiche dei processi produttivi per il singolo e per la società. L’attualità di Marx sta anche in questa sua interpretazione creativa dei classici, Ricardo incluso».
Era convinto che la Macchina del capitalismo fosse votata al crash totale: era un fatalista, un determinista del 19° secolo?
«Mostrare come il capitalismo si avviti in nuove crisi e ricresca sulle sue contraddizioni non significa essere fatalisti, come la recente crisi finanziaria insegna. Ancora oggi la crescita illimitata è un dogma dell’economia. Ma vivere su un pianeta a risorse limitate e nutrire tali dogmi è un’illusione fantastica e pericolosa. L’illuminismo di Marx punta il dito su queste piaghe per porci davanti all’alternativa: o l’economia distrugge la Terra, o troviamo forme di produzione più compatibili con l’ambiente».
Parla di un Marx figlio dei Lumi. D’altra parte Karl Löwith, nel suo famoso libro “Meaning in History”, ha mostrato come la sua idea della storia provenga direttamente da Nicola da Cusa e Sant’Agostino. Quanto è messianico il suo pensiero?
«Non credo che il suo pensiero abbia radici escatologiche o impulsi messianici. È vero che molti marxisti, ad esempio Ernst Bloch, hanno visto nella religione potenziali utopici. Anche per Hegel quella del cristianesimo è una storia di progressiva liberazione e di eguaglianza degli uomini davanti a Dio. È da questa matrice hegeliana che nasce il pensiero di Marx, perciò per lui all’orizzonte c’è l’emancipazione dell’individuo dalle catene dell’economia, una liberazione da realizzarsi su questa Terra».
Per Benedetto Croce, invece, non ci può essere nulla di più noioso del comunismo, del Paradiso realizzato su questa Terra…
«Dopo la rivoluzione del 1918 e gli orrori compiuti in nome dei dogmi del leninismo-stalinismo, ogni idea “paradisiaca” del comunismo è bruciata per sempre. La distinzione tra il ilosofo di Treviri e la storia del marxismo è necessaria quando parliamo di Marx. Ma, storia del 20° secolo a parte, e con buona pace di Croce, che cosa ha detto veramente Marx sul comunismo?».
Ce lo spieghi lei, professor Arndt...
«Marx è stato il primo a porsi rigorosi divieti sull’utopia e nei suoi scritti troviamo pochissime righe sul comunismo. Nei pochi accenni nel “Manifesto” e nel “Capitale” troviamo l’idea della liberazione dai rapporti capitalistici di produzione, soprattutto quella del pieno sviluppo della libertà individuale come condizione della libertà altrui. L’economia pianificata, il dogmatismo, il centralismo del partito depositario unico della verità nel “socialismo reale” sono la pietrificazione di Marx, totale negazione di ciò che indicava come orizzonte normativo del comunismo».
Da Putin a Trump, da Erdogan a Kim Jong-un ci ritroviamo in balia di sfrenati Supermen e, in Europa, di populisti, ultranazionalisti e razzisti. Figure che Marx ha analizzato nel suo “18 Brumaio di Luigi Bonaparte”: era migliore come storico o come filosofo?
«Come giornalista e interprete del suo tempo Marx è brillante. I suoi saggi storici però non sono comprensibili senza le sue tesi filosofiche e viceversa. La sua analisi della psicologia decadente e corrotta del Parvenu, della demagogia ai tempi di Napoleone III, la ritroviamo incarnata nel populismo di un Orbán, di Le Pen o nel neo-sultano Erdogan. Negli anni, Marx ha rivisto completamente il suo giudizio euforico sulla comune di Parigi e sulla dittatura del proletariato. Altra differenza notevole tra la sua visione della storia e della presa del potere e quella teorizzata e praticata da Lenin».
Filosofo ed economista, storico e profeta, poeta e bohémien: Marx è stato l’ultimo dei romantici? «Ultimo dei dotti universali. Emblema di una generazione di intellettuali costretta dalla Reazione all’esilio a una vita precaria, senza mai rinunciare, al di là dei compromessi, a una stringente etica scientifica».

l’espresso 29.4.18
Quanto è pop quel tedesco di Federico Marconi Il comunismo anima dibattiti, ispira film, torna al centro di molti libri. Da Varoufakis e Piketty ai neo “marxisti immaginari”


C’era una volta uno spettro che si aggirava per l’Europa. Agitava sobborghi, piazze, parlamenti. Non faceva dormire sonni tranquilli a borghesi e governanti. Spronava a una rivoluzione per la giustizia sociale e l’uguaglianza economica. Faceva imbracciare le armi ai più sfortunati e impugnare le penne agli intellettuali. Era lo spettro del comunismo e aveva i capelli arruffati e la barba folta del suo teorizzatore, Karl Marx. A duecento anni dalla nascita del filosofo di Treviri e a centosettanta dalla stesura delle pagine incendiarie del Manifesto del partito comunista, questo spettro non spaventa più come una volta. Ma continua ad aleggiare, nonostante sia stato fiaccato dal crollo del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione Sovietica. Dopo il crollo del socialismo reale, il pensiero di Marx è stato riposto in soffitta: i partiti di sinistra se ne distaccavano sempre più, alla lotta per i diritti sociali si sostituiva quella per i diritti civili, e il capitalismo sembrava più solido che mai. Ma con la crisi economica del 2008, Marx lascia le soffitte dove era stato nascosto e le sue idee riprendono a far discutere. È il 2013 l’anno in cui il nome del filosofo di Treviri torna a riempire le colonne dei giornali. L’occasione è l’uscita del libro dell’economista francese Homas Piketty, “Il capitale nel XXI secolo”. In libreria le copie vanno a ruba e, nonostante la stampa neoliberista si impegni a screditarne la validità scientifica, Piketty è chiamato dai consiglieri economici dei presidenti di mezzo mondo per spiegare le sue ricette contro le disparità sociali. L’economista viene definito il Marx 2.0, ma lui non ci sta: «È assurdo chiamarmi marxista» risponde piccato ad ogni intervista: «Avevo 18 anni quando è crollato il muro di Berlino e ho viaggiato in Romania, Bulgaria e Russia per immunizzarmi contro ogni tentazione comunista». Se le analisi dell’accademico francese prendono le mosse dal lavoro del filosofo tedesco, in efetti le conclusioni differiscono in molti punti. Piketty però non è il solo tra gli intellettuali marxisti del terzo millennio a vedere in Marx un punto di partenza per nuove riflessioni. Tra questi studiosi c’è uno dei protagonisti della politica europea di inizio decennio, Yanis Varoufakis. «Sono un marxista irregolare» scriveva l’ex ministro delle Finanze del governo di Atene sul Guardian nel febbraio 2015, raccontando di aver sempre «ampiamente ignorato» Marx nel corso della sua carriera universitaria e politica, ma che le idee dello scrittore del Manifesto sono state per lui «un’impronta per capire il mondo». E oggi, mentre si avvicinano le celebrazioni per il bicentenario della nascita del filosofo, Varoufakis scrive sullo stesso quotidiano inglese che Marx aveva predetto l’attuale crisi «e indica la via d’uscita». C’è bisogno però di un nuovo manifesto, sostiene l’economista: «Deve parlare ai nostri cuori come un poema e infettare le menti con immagini e idee sorprendentemente nuove». Marx indica ancora la strada da seguire, ma in modo nuovo. Il mondo in cui viviamo si è radicalmente trasformato da quando venne dato alle stampe il Manifesto. E mentre nelle sale cinematografiche “Il giovane Karl Marx” di Raoul Peck racconta la genesi di quel “foglio incendiario”, tra molti circola la domanda «perché continuare a leggerlo?». Prova a rispondere una nuova edizione del volume data alle stampe da Ponte alle Grazie. Ripubblicare il Manifesto «serve a scriverne un altro», scrive Toni Negri in uno dei contributi che accompagnano il pamphlet: «Serve a mettere il discorso dei comunisti all’altezza dell’epoca che viviamo». Quello di Negri è solo uno dei saggi che fanno parte del commento curato da C17, la rete di intellettuali e attivisti che nel centenario della rivoluzione russa ha organizzato la Conferenza di Roma sul comunismo. Tra questi c’è anche Slavoj Žižek. «L’unico modo di restare fedeli a Marx, oggi, non è essere marxisti ma ripetere in modo nuovo il gesto fondativo di Marx», dice il filosofo sloveno conosciuto per il suo stile politicamente scorretto. In molti si interrogano su cosa significhi essere marxisti oggi. Una delle prime studiose ad aprire il dibattito è stata Nancy Fraser, intellettuale e femminista statunitense, con una lunga riflessione pubblicata da Micromega nel gennaio 2016. Una sovversione globale del capitalismo è possibile non solo attraverso una trasformazione economica, ragiona Fraser, ma attraverso una trasformazione del rapporto tra uomo e donna nella società. In quest’ottica il ruolo dell’intellettuale è quello di promuovere i movimenti di Una scena del film “Il giovane Karl Marx”, con August Diehl nel ruolo del protagonista lotta e di opposizione alle logiche malate del capitalismo. Sembra rifarsi proprio alla denuncia di Marx in una delle tesi contro Feuerbach: «I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in alcuni modi; il punto è cambiarlo». Chissà se il capofila mediatico dei marxisti italiani è d’accordo con la tesi di Fraser. «Il femminismo fa gli interessi del grande capitale», ha sostenuto più volte il filosofo Diego Fusaro. Allievo di Costanzo Preve e studioso del rivoluzionario tedesco, Fusaro si presenta in ogni salotto televisivo come un avverso oppositore del «turbocapitalismo», della globalizzazione, del femminismo e dei suoi «poliorceti». Le continue uscite provocatorie del marxista Fusaro, fatte di slogan e termini desueti, non ne hanno fatto però un’icona antisistema. Al contrario, viene spesso additato come «un intellettuale di riferimento della Terza Repubblica» (Vanity Fair), o «il filosofo perfetto per Lega e M5S» (Il Foglio). O addirittura come «un maestro per la destra radicale» (Il Secolo d’Italia): «Sogno un fronte dal Partito comunista a CasaPound» aveva dichiarato poco prima delle elezioni del 4 marzo. A due secoli dalla nascita, Marx torna ad animare gli intellettuali: chi riuscirà a unire nuovamente i proletari di tutto il mondo sotto un’unica bandiera?