Corriere 1.5.18
Nella Roma dei veleni
Un saggio di Andrea
Carandini (Laterza) ricostruisce le vicende complesse della dinastia
Giulio-Claudia, nelle quali spicca una figura femminile del tutto priva
di scrupoli. Una stagione oscura di macchinazioni e di efferati delitti
La vita di Agrippina, madre di Nerone un esempio di lotta feroce per il potere
di Paolo Mieli
Il
nonno era Vipsanio Agrippa, braccio destro di Ottaviano (futuro
Augusto, imperatore tra il 27 a.C. e il 14 d.C.), del quale vale la pena
di ricordare che fu il grande artefice della vittoriosa battaglia
navale di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra (31 a.C.). Sua madre —
anche lei si chiamava Agrippina — figlia di Vipsanio Agrippa, era nipote
di Augusto ed ebbe nove figli, di cui però ne sopravvissero solo sei.
Suo padre, Germanico, era nipote di Tiberio — imperatore tra il 14 e il
37, successore di Augusto (che lo aveva adottato) — e morì ad Antiochia
avvelenato, probabilmente su istigazione proprio di Tiberio. Suo
fratello Caligola (Gaio), successore di Tiberio, fu imperatore tra il 37
e il 41. Suo marito (ma anche zio), Claudio, succedette a Caligola e fu
imperatore tra il 41 e il 54. Suo figlio, Nerone, successore di
Claudio, fu imperatore tra il 54 e il 68. Un’incredibile serie di
parentele ai vertici della Roma d’inizio del primo millennio, rendono la
vita di Agrippina (detta «minore» per non confonderla con l’altra
Agrippina di cui si è detto, sua madre) davvero unica.
Quasi una
sfida per Andrea Carandini che ha deciso di far confluire anni e anni di
studi e ricerche di archeologia e storia in uno straordinario libro a
lei dedicato, Io, Agrippina. Sorella, moglie, madre di imperatori, che
sta per uscire da Laterza. Un saggio impreziosito da illustrazioni e
tavole eccellentemente curate da Maria Cristina Capanna e Francesco De
Stefano. Il modello è, fin dal titolo, Io, Claudio di Robert Graves
pubblicato nel 1934 e tradotto in Italia, in tempi recenti, per le
edizioni Corbaccio. Ma il racconto di Carandini si differenzia in più
parti da quello ben più romanzato di Graves. Ovviamente un altro punto
di riferimento sono le Memorie di Agrippina di Pierre Grimal, un testo
però meno ricco e affascinante di quello di Carandini. Fonte di
ispirazione, più alla lontana, sono anche le Memorie di Adriano di
Marguerite Yourcenar.
Quando nel 14 muore Augusto e gli succede
Tiberio, l’esercito in Germania si rivolta a causa dei troppi anni di
servizio (oltre 16), del «soldo inadeguato», e della crudeltà dei
centurioni. Tiberio manda Germanico a sedare la ribellione e a sorpresa i
rivoltosi lo acclamano, proponendogli di prendere il posto
dell’imperatore. Ma lui non aspirava all’impero, ottenuto «tramite
eversione», per cui resiste alla pressione della truppa. Si può
probabilmente dire che la rivolta si spegne proprio perché Germanico non
aderisce ad essa. Dopodiché il Tiberio messo in luce da Carandini loda
Germanico in Senato per aver rifiutato il potere offertogli dalle
truppe. Parole false: nei fatti Tiberio ha sentimenti ambigui nei
confronti di Germanico, che ha dato prova di essere «padrone degli
eserciti». Sospetta, Tiberio, anche della moglie di Germanico, Agrippina
(madre della protagonista del libro di Carandini) esplicitamente
ambiziosa.
Il Tiberio di Carandini fu un «uomo spregevole». Ma
interessante: «dissimulava ciò che voleva e non desiderava alcunché di
quello che palesava»; «negava quello che bramava e si interessava a
quanto detestava»; «sfogava la collera per questioni che non destavano
la sua ira e dava segni di equilibrio quando era maggiormente sdegnato».
L’imperatore altresì riteneva di non dover rivelare i propri pensieri,
«ché il conoscerli avrebbe procurato danni all’Impero»; si adirava se
qualcuno mostrava di aver intuito una sua idea e lo mandava a morte.
Manifestarsi, per lui, «era come aprire il petto davanti al nemico». E
il nemico erano adesso in primo luogo la stirpe dei Giuli, gli
appartenenti alla famiglia di Agrippina. «Colpa» — se così si può dire —
del prestigio di Germanico che cresceva ogni giorno di più. Anche dopo
la morte. Era riuscito a vendicare l’umiliante sconfitta di Varo a
Teutoburgo, sconfiggendo gli uomini di Arminio. Nel 16 Germanico si era
mosso ancora una volta all’attacco dei Germani e al culmine dello
scontro si era tolto dal capo il casco, così da farsi riconoscere «per
incitare con più efficacia i suoi a completare il massacro». Un gesto
che aveva un celeberrimo precedente, lo aveva compiuto tre secoli e
mezzo prima Alessandro Magno. E nel 17 la tensione tra i due raggiunse
l’apice. Tiberio — consigliato all’epoca dal pretorio Seiano (che aveva
irretito l’imperatore «fino a renderlo fidente soltanto in lui» talché
«era come se avesse colonizzato la sua mente» e alla fine pagò con la
vita l’eccesso di influenza) — voleva impedire in ogni modo che venisse
attribuita a Germanico la conquista definitiva della Germania. Così
finse che l’impero fosse in pericolo e lo mandò in Oriente. Per poi
farlo avvelenare, o per lasciare che venisse avvelenato ad Antiochia. La
vedova di Germanico, Agrippina (madre), tornò a Brindisi con le ceneri
del marito, accompagnata da Caligola che aveva sette anni. Fu accolta,
Agrippina, da «una folla sdegnata che riempiva le spiagge e le case»;
lungo la via che l’avrebbe riportata a Roma c’erano consoli, senatori,
popolo accorso anche dai paesi vicini; ma nessuna traccia di Tiberio.
A
Roma, come segno di dolore per la perdita di Germanico, «la plebe
tirava pietre contro i templi, rovesciava gli altari, gettava i Lari in
strada ed esponeva neonati, seguendo il cordoglio di barbari, re clienti
e perfino del re dei Parti che si è astenuto per qualche tempo da cacce
e festini». Nulla ferì Tiberio, secondo l’autore, «più dell’entusiasmo
del popolo verso Agrippina». La quale, inebriata da questi tributi di
affetto, fece l’errore di iniziare a sparlare di Tiberio: l’imperatore
si disfò di lei esiliandola a Ventotene (Pandataria), dove nel 33 morì
di stenti.
Ma il destino era in agguato e la vendicò: il 16 marzo
del 37, lo stesso Tiberio fu ucciso a Miseno nella villa che era stata
di Lucullo. Uccisione descritta minuziosamente da Carandini: il principe
all’improvviso cadde in letargo e un suo uomo gli sfilò l’anello perché
Caligola lo potesse infilare all’istante; nello stesso istante Tiberio
riprese a respirare e, toccandosi la mano, balbettò: «L’anello…».
«Troppo tardi», disse Caligola e a un suo cenno il prefetto Macrone
ordinò «Fuori tutti!». Poi, rivolto alle guardie, aggiunse: «Non ce la
fa, aiutiamolo…». E fu «un accalcarsi, un premere di mantelli, coperte e
guanciali finché Tiberio morì soffocato». Aveva vissuto poco più di 67
anni ed era stato sul trono 22 anni e mezzo.
Due giorni dopo, il
18 marzo, Caligola — che precedentemente era stato costretto ad
assistere Tiberio a Capri per ben sei anni — fu acclamato imperatore in
un’atmosfera di giubilo generale. I Romani vedevano in lui «un Germanico
redivivo», era «il principe sognato da gran parte dei provinciali»,
l’astro dei soldati che lo avevano conosciuto bambino con le caligae di
cui al suo soprannome (i sandali militari) e «l’idolo della plebe
urbana». Caligola si presenta al Senato con un discorso critico nei
confronti del suo predecessore, unanimemente apprezzato al punto da
essere successivamente letto in pubblico una volta ogni anno.
Abolisce,
Caligola, la lesa maestà e annuncia di aver bruciato gli atti di accusa
lasciati da Tiberio «per non lasciar spazio a tardive vendette». Sette
mesi dopo, a metà ottobre del 37, giunge però il primo segno del suo
squilibrio mentale: si ammala gravemente, teme di morire e nomina come
erede Drusilla sorella e concubina (a dispetto del fatto che fosse
moglie di Emilio Lepido, anch’egli peraltro amante del principe). «Una
scelta quanto mai stramba», la definisce Carandini. Dopodiché Caligola
sopravvive e muore invece Drusilla. Qui l’imperatore impazzisce: decreta
che il giorno natale di Drusilla sia considerato festivo, le dedica un
culto speciale con venti sacerdoti, le fa erigere statue nella Curia e
nel tempio di Venere. Al senatore Livio Gemino — che sostiene di averla
vista salire in cielo — viene concessa una regalia di un milione di
sesterzi. Da quel momento Caligola non dorme mai più di tre ore per
notte, prende a conversare con la luna, è tormentato da uno spettro
marino, tuoni e fulmini notturni lo terrorizzano al punto da indurlo, ad
ogni temporale, a cercare riparo sotto il letto. Di giorno non tiene in
alcun conto gli impegni presi all’atto dell’insediamento e supera
Tiberio in «condanne e dissolutezze». Nel 38 costringe al suicidio il
prefetto Macrone, che lo aveva aiutato a uccidere Tiberio, nonché la
moglie di Macrone, Ennia, che era oltretutto la sua amante. Poi, dopo
una lunga sequela di nuovi assassinii, nel 39 fa uccidere Marco Lepido
(altro suo amante) e manda in esilio, sempre a Ventotene, sua sorella
Agrippina, la protagonista del libro di Carandini.
Nel 40 Caligola
raggiunge la Gallia e la Germania accompagnato da pretoriani, attori,
gladiatori, donne e cavalli: «una compagnia assai poco eroica», la
definisce Carandini. Ed è qui che un figlio del re dei Britanni,
cacciato dal padre, cerca rifugio da Caligola con una piccola scorta e a
lui si sottomette: ciò che induce Caligola a «mandare una lettera a
Roma come se avesse conquistato la Britannia». Tornato a Roma, dopo
questo «trionfo», prende ad esibirsi come gladiatore, cocchiere,
ballerino e cantante. Annuncia di volersi trasferire ad Anzio da dove
raggiungerà Alessandria. Nel 40 Caligola sventa una congiura, ma quasi
non fa in tempo a gioirne perché l’anno successivo una nuova
cospirazione contro di lui è coronata da successo.
Caligola aveva
29 anni, era stato imperatore per quasi quattro. Nessun principe come
lui, scrive Carandini, «è stato un despota tanto estremo», ha mostrato
«dove possa giungere la crudeltà e la stravaganza di chi possiede una
potenza immane». La «sua mente disturbata, l’inesperienza militare,
politica e pratica, la passione per la scena lo hanno trascinato in una
fragorosa assurdità nella quale tragedia e farsa si sono mescolate». Con
lui giunge al culmine il «gusto per l’arbitrio» delle monarche
orientali. Può essere considerato «l’esatto contrario di suo padre,
Germanico», avvelenato «perché onesto e clemente», le virtù «più
invidiate e temute dai potenti». Probabilmente superò in efferatezza lo
stesso Tiberio e convinse i Romani a fidarsi meno dei prìncipi che,
saliti al potere, annunciano un’era di pace e prosperità.
Dopo di
lui toccò a Claudio, fratello di Germanico, zio e, successivamente,
marito di Agrippina. Claudio aveva difetti fisici congeniti: soffriva di
crampi allo stomaco, camminava con passo incerto e balbettava. Aveva
«tratti che lo rendevano ridicolo»: «tremava con il capo, le mani e la
voce», rideva in maniera sguaiata, la bocca sbavava ad ogni
arrabbiatura. Era poi incerto e pauroso. Ma questi difetti, secondo
Carandini, erano bilanciati da un’intelligenza non comune, aveva
studiato moltissimo alla scuola di Tito Livio ed era assai colto. Il suo
primo atto fu di richiamare Agrippina dall’esilio, dichiarare che
Caligola era pazzo e, contestualmente, mandare a morte i suoi uccisori.
Agrippina
torna dunque a Roma con Lucio Domizio Enobarbo (il futuro Nerone) in
una corte dove, però, spadroneggia Messalina, moglie di Claudio. La
prima missione che Agrippina si dà è quella di far fuori Messalina. Per
poi andare in sposa a Claudio, far richiamare il filosofo Seneca
dall’esilio in Corsica per affidargli il proprio ragazzo, e porre il
giovane sulla via che conduce al trono (sminuendo il possibile rivale
Britannico). Claudio si accorge delle complicate trame di Agrippina, ma
non fa in tempo a pentirsi di aver adottato Nerone che muore avvelenato.
Qui vengono le pagine più avvincenti del libro di Carandini. Agrippina
non cessa di tramare (stavolta a favore di Britannico), mentre Seneca fa
di tutto per impadronirsi dell’anima di Nerone. Questi si inebria del
rapporto con la folla (oltre che della schiava asiatica Atte) e, su
istigazione di Seneca, si spingerà a far uccidere la madre. Dopodiché
nel 65 indurrà al suicidio lo stesso filosofo (il quale, annota
Carandini, aveva «una condotta contraria al disprezzo della ricchezza
che nei suoi scritti invece consigliava»). Tre anni dopo, nel 68, sarà
Nerone, all’età di trent’anni, ad esser costretto a suicidarsi. Solo
ripercorrendo la storia di sua madre si può capire come si giunge a
quella fine. Anzi, della fine di tutti gli eredi della gens
Giulio-Claudia. Un libro davvero affascinante su una delle stagioni più
spietate della storia dell’umanità.