Corriere 24.5.18
La sindrome da assedio e il difensore del popolo
di Massimo Franco
Il
sollievo per la fine delle trattative e la probabile formazione di un
governo non possono cancellare la preoccupazione. M5S e Lega hanno il
diritto di guidare l’Italia dopo il netto mandato popolare. E infatti,
alla fine il Quirinale ha preso atto dell’indicazione anomala del
professor Giuseppe Conte come premier. Il problema è capire dove
vogliono arrivare i «diarchi» Di Maio e Salvini; e se l’espressione
«avvocato difensore del popolo italiano», usata dall’incaricato, preluda
a uno strappo antieuropeo.
Ci sono volute due ore di udienza con
il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per definire i prossimi
passaggi e concordare la dichiarazione finale. Conte si è presentato
come simbolo di un cambiamento radicale e baluardo di un Paese
implicitamente considerato sotto assedio; e come tutore del «contratto»
tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. La loro ipoteca si è percepita
chiaramente, al di là delle parole formali di rassicurazione all’Europa,
pur significative. Tra l’altro, a impressionare è la rapidità con la
quale negli ultimi giorni Di Maio ha rimesso in discussione il profilo
europeista e istituzionale che si era faticosamente dato.
Gli
avvertimenti grevi scagliati da alcuni esponenti del Movimento al
presidente della Repubblica, definito in precedenza dai Cinque Stelle
«il nostro jedi», personaggio virtuoso del film di fantascienza Guerre
stellari, sono sconcertanti. Sembra quasi che il rispetto verso il
Quirinale sia concesso o negato a seconda delle convenienze. Quanto
all’Unione Europea, lo scivolamento verso un euroscetticismo aggressivo è
stato altrettanto rapido. Il M5S può pure rivendicare di avere
stipulato un compromesso a propria somiglianza. Su una questione
cruciale come i rapporti con Bruxelles, tuttavia, è apparso subalterno
alla Lega.
Probabilmente, più che l’euroscetticismo pesa l’assenza
di vere convinzioni. Il trasversalismo è un pregio quando ci sono da
raccogliere voti. Al momento delle scelte, però, tende a trasformare chi
ne è portatore e beneficiario in una sorta di «lavagna» politica, sulla
quale finiscono per scrivere gli altri: in questo caso, Salvini. I «due
forni» evocati inizialmente da Di Maio, ritenendo interscambiabile
un’alleanza col Pd o con la Lega, sono stati senza volerlo l’espressione
di un «movimento-pongo», plasmabile.
È possibile che quando sarà
pronta la lista dei ministri alcune apprensioni verranno arginate; che
l’innesto di qualche figura rassicurante riequilibri un’operazione
destinata ad alimentare i pregiudizi su un’Italia dominata dai
«populisti». Il termine è ambiguo e insufficiente a definire lo strappo
anche culturale che si sta consumando. Eppure non può essere rimosso:
viene usato non solo dagli avversari di Lega e Cinque Stelle, ma anche
da suoi ammiratori interessati come l’aspirante demolitore dell’Europa
unita, il trumpiano Steve Bannon.
Appartiene a una schiera di
guastatori che sognano le istituzioni di Bruxelles piegate ai voleri del
nuovo governo di Roma e di quelli dell’Europa dell’Est, riuniti nel
«gruppo di Visegrad»: tutti contro l’immigrazione. Ma da una chiusura
delle frontiere l’Italia sarebbe colpita, non avvantaggiata. Paesi come
Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia sono i primi a essersi
opposti in questi anni alla distribuzione delle «quote» di immigrati
decise dall’Ue per decongestionare nazioni come la nostra. Il loro
interesse nazionale confligge con quello di un’Italia che sarebbe
condannata a diventare un imbuto delle migrazioni.
Gli «alleati»
dell’Europa orientale indicati da Bannon, Marine Le Pen, Salvini, ce li
lasceranno tutti. E il resto dell’Ue, preoccupata e irritata dalle
politiche della Terza Repubblica, offrirà ancora meno sponde di prima. È
comprensibile l’entusiasmo, perfino l’ebbrezza con la quale i «diarchi»
consacrati dal 4 marzo celebrano l’approdo al governo. È un fatto
storico del quale vanno orgogliosi. Assistiamo alla presa del potere
centrale da parte di una «periferia» alla quale il vecchio sistema ha
regalato un’autostrada verso il cuore dell’elettorato e Palazzo Chigi.
Di Maio e Salvini volevano governare anche contraddicendo il mantra del
premier «eletto dal popolo». Ci sono riusciti.
Soprattutto, stanno
dimostrando che non esiste una vera opposizione. Non li può
impensierire il centrodestra di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, che
minaccia scomuniche contro Salvini mentre il voto premia la Lega. Né è
un ostacolo un Pd che accompagna la sua lunga agonia con un immobilismo
sconcertante. Sembra una replica in formato gigante della «sindrome
romana». In Campidoglio, nel giugno del 2016 la grillina Virginia Raggi
fu eletta sindaca sulle macerie degli altri partiti. Due anni dopo,
un’operazione non molto dissimile si ripete a livello nazionale. Ma la
responsabilità non è dei vincitori: semmai, è di chi non ha creato
un’alternativa credibile. E ora subisce una «difesa del popolo» che
insinua incognite pesanti nel futuro dell’Italia.