lunedì 21 maggio 2018

Corriere 21.5.18
Le contraddizioni del possibile
Necessità contro libertà: le implicazioni nascoste nelle pieghe di un conflitto molto antico e (forse all’apparenza) insanabile
L’Occidente ha messo ai margini il determinismo. Ma restano domande aperte
Le teorie basate sull’esistenza di una verità incontrovertibile hanno dominato l’Occidente fino agli ultimi due secoli
di Emanuele Severino


Negli antichi miti greci e nella tragedia attica gli eventi umani sono irrevocabilmente stabiliti dalle potenze supreme. Alla «Necessità» non è possibile sfuggire. «La tecnica, il darsi da fare dell’uomo — dice il Prometeo di Eschilo —, è troppo più debole della Necessità». Tra le vicende necessarie, le metamorfosi, gli straordinari «cambiamenti delle forme» delle cose: trasformano gli uomini in alberi, stelle, rocce, animali. Di quelle narrate prima di Ovidio, restano quelle tramandate da Le metamorfosi di Antonino Liberale (a cura di Tommaso Braccini e Sonia Macrì, Adelphi). Tuttavia sono metamorfosi anche le trasformazioni meno stupefacenti, come l’annuvolarsi del cielo e il germogliare dei semi. Come si fa notare nel libro adelphiano, le parole che nominano la metamorfosi sono «egli divenne», «egli cambiò», «egli (il dio) fece». Anche il cielo «cambia» e «diventa» nuvoloso, anche il seme «diventa» germoglio, e non occorre essere un dio per «fare» qualcosa. Ma poi, c’è proprio bisogno di rifarsi agli antichi miti greci per imbattersi nelle metamorfosi? L’evoluzionismo non sostiene forse che l’uomo è il risultato di trasformazioni di organismi molto elementari? Gli uomini diventano bestie, dice il mito; le bestie diventano uomini, dice la scienza. Ma le parti possono essere scambiate. E la tecnica del nostro tempo sta procedendo lungo una strada dove il «cambiamento delle forme» e della stessa forma umana non ha nulla da invidiare alle trasformazioni di Dioniso. Ormai la Necessità è troppo più debole della tecnica.
La filosofia trasfigura il senso della «Necessità». Anassimandro, gli stoici, Spinoza, il Kant della Critica della ragion pura, Hegel, Schopenhauer, Einstein: in tutte le dottrine «deterministiche» sostenute in campo filosofico e scientifico l’affermazione del succedersi necessario degli eventi è legata all’affermazione dell’esistenza di una verità definitiva e incontrovertibile. La prima è un caso di questa seconda affermazione, la quale domina l’intera tradizione della civiltà occidentale. Ma alla tradizione gli ultimi due secoli dell’Occidente hanno voltato le spalle: in campo scientifico, giuridico, politico, economico, religioso, artistico e innanzitutto filosofico. Con maggiore o minore radicalità. Ne è derivato il rifiuto di ogni determinismo e il prevalere della convinzione (già esplicitamente presente in Aristotele) che gli eventi che accadono sarebbero potuti non accadere o accadere in modo diverso e che dunque, poiché le decisioni sono un certo tipo di eventi, l’uomo avrebbe potuto non prendere quelle che ha preso, o avrebbe potuto decidere diversamente. Le decisioni sono un «libero arbitrio». Il principio di indeterminazione di Heisenberg (che si riferisce esplicitamente ad Aristotele) dice appunto, in sostanza, che lo stato futuro del mondo, quando accadrà, sarà qualcosa che sarebbe potuto non accadere. Qui, la «possibilità» è la categoria fondamentale. Possiamo chiamare «possibilismo» l’atteggiamento che ne è il sostenitore.
Nel clima culturale attualmente dominante, la «necessità» rimane solo come conseguenza necessaria di una decisione presa, cioè di uno stato non necessario che è riuscito a imporsi. La decisione in cui consiste ad esempio la volontà capitalistica di accrescere indefinitamente il profitto privato implica «con necessità» che rispetto a questa decisione il Welfare State non debba superare una certa soglia. Analogamente, è un’implicazione «necessaria» quella dove l’economia pianificata deve escludere che l’iniziativa privata vada oltre un certo limite. Tale implicazione è stata chiamata «imperativo funzionale» o «sistemico» (Talcott Parsons, Jürgen Habermas).
Ma quando non si vuol restare prigionieri di questi imperativi — che nel mondo economico e politico escludono «alternative» e servono a tutelare interessi di parte — e si mira a ricondurre il discorso alla dimensione fondamentale della contrapposizione tra «determinismo» e «possibilismo», allora il problema si complica molto più di quanto solitamente si creda. Provo a indicare alcuni aspetti di tale complicazione.
Innanzitutto: entrambi i contendenti — determinismo da una parte e possibilismo degli eventi e in generale del corso storico dall’altra — affermano qualcosa che non è attestato dall’esperienza; sono cioè costruzioni concettuali che debbono render conto della consistenza della loro logica. Non si fa esperienza dell’altra faccia della luna, dei luoghi in cui non ci si trova, della coscienza altrui, dell’interno dei corpi, della storia passata e futura, eccetera. Si fa esperienza del chiarore del giorno, del luogo in cui ci si trova, dei moti del nostro animo. Ciò che non è esperibile è il non osservabile, il non constatabile. Lo si può supporre, ricordare, desiderare, temere, ma non sta qui davanti «in carne ed ossa», «direttamente». La fenomenologia di Edmund Husserl ha approfondito queste affermazioni. Del determinismo e del possibilismo, della necessità e della libertà non si può fare esperienza.
Determinismo. Esso sostiene un rapporto necessario tra il passato e il futuro: il futuro sarà come sarà, e non potrà essere altrimenti, perché il passato ha la configurazione che ha. Ma i rapporti attestati dall’esperienza sono soltanto rapporti di fatto, non necessari, perché i rapporti necessari sono quelli che valgono anche al di là di quanto l’esperienza attesta di essi. L’esperienza attesta che il lampo è seguito dal tuono, ma se questa sequenza fosse necessaria, essa esisterebbe anche nel futuro, che però non è ancora sperimentato, e sarebbe esistita anche nel passato che a sua volta non è più sperimentato. L’esperienza reale non può dunque attestare alcun rapporto necessario, non lo può rendere osservabile, constatabile.
Possibilismo (libertà-possibilità degli eventi). Sostiene, si è detto, che quel che accade sarebbe potuto non accadere o accadere diversamene. Noi «vediamo», dice Aristotele (De interpretatione) che molte cose prima esistono e poi non esistono, e viceversa. «Vediamo», cioè facciamo esperienza. Quindi esse, egli conclude, invece di non esistere più, sarebbero potute continuare ad esistere, e invece di incominciare ad esistere sarebbero potute rimanere inesistenti. È, questo il pensiero ormai dominante — anche quando ci si è dimenticati di Aristotele.
Sennonché, dal fatto che «vediamo» che molte cose prima esistono e poi non esistono, non segue affatto che «vediamo» che invece di non esistere più sarebbero potute continuare ad esistere (e viceversa). Teniamo aperta la mano (può essere una mano qualsiasi, ma può anche essere la mano fatale di Adamo), poi la chiudiamo. È un cambiamento che «vediamo». (Si può ripetere a piacimento questo gesto: «vediamo» la ripetizione). Ma che invece di chiudere la mano avremmo potuto lasciarla aperta, questo è qualcosa che non solo non «vediamo» ma che è impossibile «vedere». Che, invece di chiudersi, la mano sarebbe potuta rimanere aperta è un evento che avremmo potuto «vedere», sperimentare, ma che effettivamente non abbiamo «veduto» e sperimentato, osservato. È impossibile che siano qualcosa di sperimentato gli eventi che si sarebbero potuti sperimentare ma che di fatto non sono stati sperimentati.
Per quanto antitetici, determinismo e possibilismo hanno in comune la non sperimentabilità di ciò che essi affermano. Ma hanno in comune anche qualcosa di più radicale: l’affermazione della metamorfosi delle cose. Per il determinismo il passaggio delle cose dall’esistenza all’inesistenza (e viceversa) è inevitabile, avviene con necessità; per il possibilismo questo passaggio non è inevitabile. Ma per entrambi è indiscutibile che questo passaggio esista e che anzi sia l’evidenza suprema. Anche l’uomo della strada ne è convinto. Non è forse un vaneggiare, un esibizionismo patetico, e nel migliore dei casi una perdita di tempo, mettere in questione questa evidenza?
Se non si ha fretta di rispondere, è il caso di prestare attenzione a una circostanza sorprendente: che non solo determinismo e possibilismo affermano qualcosa di non sperimentabile, ma che non è qualcosa di sperimentabile nemmeno quella metamorfosi delle cose che i due antagonisti hanno in comune: nemmeno quell’andare delle cose dall’esistenza all’inesistenza e dall’inesistenza all’ esistenza, che il mondo considera come l’evidenza suprema e supremamente indiscutibile.
Ma a questo punto le proteste, il biasimo, il disgusto si fanno subito sentire: «Ma come, non “vediamo” forse, e angosciati, l’agonia che conduce l’uomo alla morte? che cioè conduce dall’esistenza all’inesistenza? e prima di “vedere” la morte del prossimo non vediamo forse la morte di ogni istante della nostra vita?».
La risposta, qui, non può essere che un nuovo domandare. Per quanto terribile possa essere il modo in cui qualcosa muore, ciò che muore e diventa inesistente rimane «visibile»? Quando vien notte, il giorno continua ad esser «veduto»? L’agonia del sole, al tramonto, rispecchia l’agonia dei viventi; ma quando la luce del sole che ha illuminato una certa giornata si estingue e muore e diventa inesistente, continua forse ad esser «veduta»? Se si crede che essa divenga inesistente non è forse inevitabile che essa, annientatasi, non sia più «visibile», esperibile e che quindi il suo «annientamento» non appartenga al contenuto dell’esperienza? e che dunque l’agonia, visibile, sia lo stato che precede l’uscire dal «visibile»? È proprio così facile liberarsi di queste domande? È proprio così semplice (magari, come si richiamava sopra, per andare oltre le semplificazioni economico politiche degli «imperativi sistemici») appellarsi al carattere di possibilità della storia del mondo?