lunedì 21 maggio 2018

La Stampa 21.5.18
Depresso un italiano su cinque: le cure fai da te sono un’emergenza
Undici milioni usano psicofarmaci: quattro volte più della media europea
di Sandro Cappelletto

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Corriere 21.5.18
Le contraddizioni del possibile
Necessità contro libertà: le implicazioni nascoste nelle pieghe di un conflitto molto antico e (forse all’apparenza) insanabile
L’Occidente ha messo ai margini il determinismo. Ma restano domande aperte
Le teorie basate sull’esistenza di una verità incontrovertibile hanno dominato l’Occidente fino agli ultimi due secoli
di Emanuele Severino


Negli antichi miti greci e nella tragedia attica gli eventi umani sono irrevocabilmente stabiliti dalle potenze supreme. Alla «Necessità» non è possibile sfuggire. «La tecnica, il darsi da fare dell’uomo — dice il Prometeo di Eschilo —, è troppo più debole della Necessità». Tra le vicende necessarie, le metamorfosi, gli straordinari «cambiamenti delle forme» delle cose: trasformano gli uomini in alberi, stelle, rocce, animali. Di quelle narrate prima di Ovidio, restano quelle tramandate da Le metamorfosi di Antonino Liberale (a cura di Tommaso Braccini e Sonia Macrì, Adelphi). Tuttavia sono metamorfosi anche le trasformazioni meno stupefacenti, come l’annuvolarsi del cielo e il germogliare dei semi. Come si fa notare nel libro adelphiano, le parole che nominano la metamorfosi sono «egli divenne», «egli cambiò», «egli (il dio) fece». Anche il cielo «cambia» e «diventa» nuvoloso, anche il seme «diventa» germoglio, e non occorre essere un dio per «fare» qualcosa. Ma poi, c’è proprio bisogno di rifarsi agli antichi miti greci per imbattersi nelle metamorfosi? L’evoluzionismo non sostiene forse che l’uomo è il risultato di trasformazioni di organismi molto elementari? Gli uomini diventano bestie, dice il mito; le bestie diventano uomini, dice la scienza. Ma le parti possono essere scambiate. E la tecnica del nostro tempo sta procedendo lungo una strada dove il «cambiamento delle forme» e della stessa forma umana non ha nulla da invidiare alle trasformazioni di Dioniso. Ormai la Necessità è troppo più debole della tecnica.
La filosofia trasfigura il senso della «Necessità». Anassimandro, gli stoici, Spinoza, il Kant della Critica della ragion pura, Hegel, Schopenhauer, Einstein: in tutte le dottrine «deterministiche» sostenute in campo filosofico e scientifico l’affermazione del succedersi necessario degli eventi è legata all’affermazione dell’esistenza di una verità definitiva e incontrovertibile. La prima è un caso di questa seconda affermazione, la quale domina l’intera tradizione della civiltà occidentale. Ma alla tradizione gli ultimi due secoli dell’Occidente hanno voltato le spalle: in campo scientifico, giuridico, politico, economico, religioso, artistico e innanzitutto filosofico. Con maggiore o minore radicalità. Ne è derivato il rifiuto di ogni determinismo e il prevalere della convinzione (già esplicitamente presente in Aristotele) che gli eventi che accadono sarebbero potuti non accadere o accadere in modo diverso e che dunque, poiché le decisioni sono un certo tipo di eventi, l’uomo avrebbe potuto non prendere quelle che ha preso, o avrebbe potuto decidere diversamente. Le decisioni sono un «libero arbitrio». Il principio di indeterminazione di Heisenberg (che si riferisce esplicitamente ad Aristotele) dice appunto, in sostanza, che lo stato futuro del mondo, quando accadrà, sarà qualcosa che sarebbe potuto non accadere. Qui, la «possibilità» è la categoria fondamentale. Possiamo chiamare «possibilismo» l’atteggiamento che ne è il sostenitore.
Nel clima culturale attualmente dominante, la «necessità» rimane solo come conseguenza necessaria di una decisione presa, cioè di uno stato non necessario che è riuscito a imporsi. La decisione in cui consiste ad esempio la volontà capitalistica di accrescere indefinitamente il profitto privato implica «con necessità» che rispetto a questa decisione il Welfare State non debba superare una certa soglia. Analogamente, è un’implicazione «necessaria» quella dove l’economia pianificata deve escludere che l’iniziativa privata vada oltre un certo limite. Tale implicazione è stata chiamata «imperativo funzionale» o «sistemico» (Talcott Parsons, Jürgen Habermas).
Ma quando non si vuol restare prigionieri di questi imperativi — che nel mondo economico e politico escludono «alternative» e servono a tutelare interessi di parte — e si mira a ricondurre il discorso alla dimensione fondamentale della contrapposizione tra «determinismo» e «possibilismo», allora il problema si complica molto più di quanto solitamente si creda. Provo a indicare alcuni aspetti di tale complicazione.
Innanzitutto: entrambi i contendenti — determinismo da una parte e possibilismo degli eventi e in generale del corso storico dall’altra — affermano qualcosa che non è attestato dall’esperienza; sono cioè costruzioni concettuali che debbono render conto della consistenza della loro logica. Non si fa esperienza dell’altra faccia della luna, dei luoghi in cui non ci si trova, della coscienza altrui, dell’interno dei corpi, della storia passata e futura, eccetera. Si fa esperienza del chiarore del giorno, del luogo in cui ci si trova, dei moti del nostro animo. Ciò che non è esperibile è il non osservabile, il non constatabile. Lo si può supporre, ricordare, desiderare, temere, ma non sta qui davanti «in carne ed ossa», «direttamente». La fenomenologia di Edmund Husserl ha approfondito queste affermazioni. Del determinismo e del possibilismo, della necessità e della libertà non si può fare esperienza.
Determinismo. Esso sostiene un rapporto necessario tra il passato e il futuro: il futuro sarà come sarà, e non potrà essere altrimenti, perché il passato ha la configurazione che ha. Ma i rapporti attestati dall’esperienza sono soltanto rapporti di fatto, non necessari, perché i rapporti necessari sono quelli che valgono anche al di là di quanto l’esperienza attesta di essi. L’esperienza attesta che il lampo è seguito dal tuono, ma se questa sequenza fosse necessaria, essa esisterebbe anche nel futuro, che però non è ancora sperimentato, e sarebbe esistita anche nel passato che a sua volta non è più sperimentato. L’esperienza reale non può dunque attestare alcun rapporto necessario, non lo può rendere osservabile, constatabile.
Possibilismo (libertà-possibilità degli eventi). Sostiene, si è detto, che quel che accade sarebbe potuto non accadere o accadere diversamene. Noi «vediamo», dice Aristotele (De interpretatione) che molte cose prima esistono e poi non esistono, e viceversa. «Vediamo», cioè facciamo esperienza. Quindi esse, egli conclude, invece di non esistere più, sarebbero potute continuare ad esistere, e invece di incominciare ad esistere sarebbero potute rimanere inesistenti. È, questo il pensiero ormai dominante — anche quando ci si è dimenticati di Aristotele.
Sennonché, dal fatto che «vediamo» che molte cose prima esistono e poi non esistono, non segue affatto che «vediamo» che invece di non esistere più sarebbero potute continuare ad esistere (e viceversa). Teniamo aperta la mano (può essere una mano qualsiasi, ma può anche essere la mano fatale di Adamo), poi la chiudiamo. È un cambiamento che «vediamo». (Si può ripetere a piacimento questo gesto: «vediamo» la ripetizione). Ma che invece di chiudere la mano avremmo potuto lasciarla aperta, questo è qualcosa che non solo non «vediamo» ma che è impossibile «vedere». Che, invece di chiudersi, la mano sarebbe potuta rimanere aperta è un evento che avremmo potuto «vedere», sperimentare, ma che effettivamente non abbiamo «veduto» e sperimentato, osservato. È impossibile che siano qualcosa di sperimentato gli eventi che si sarebbero potuti sperimentare ma che di fatto non sono stati sperimentati.
Per quanto antitetici, determinismo e possibilismo hanno in comune la non sperimentabilità di ciò che essi affermano. Ma hanno in comune anche qualcosa di più radicale: l’affermazione della metamorfosi delle cose. Per il determinismo il passaggio delle cose dall’esistenza all’inesistenza (e viceversa) è inevitabile, avviene con necessità; per il possibilismo questo passaggio non è inevitabile. Ma per entrambi è indiscutibile che questo passaggio esista e che anzi sia l’evidenza suprema. Anche l’uomo della strada ne è convinto. Non è forse un vaneggiare, un esibizionismo patetico, e nel migliore dei casi una perdita di tempo, mettere in questione questa evidenza?
Se non si ha fretta di rispondere, è il caso di prestare attenzione a una circostanza sorprendente: che non solo determinismo e possibilismo affermano qualcosa di non sperimentabile, ma che non è qualcosa di sperimentabile nemmeno quella metamorfosi delle cose che i due antagonisti hanno in comune: nemmeno quell’andare delle cose dall’esistenza all’inesistenza e dall’inesistenza all’ esistenza, che il mondo considera come l’evidenza suprema e supremamente indiscutibile.
Ma a questo punto le proteste, il biasimo, il disgusto si fanno subito sentire: «Ma come, non “vediamo” forse, e angosciati, l’agonia che conduce l’uomo alla morte? che cioè conduce dall’esistenza all’inesistenza? e prima di “vedere” la morte del prossimo non vediamo forse la morte di ogni istante della nostra vita?».
La risposta, qui, non può essere che un nuovo domandare. Per quanto terribile possa essere il modo in cui qualcosa muore, ciò che muore e diventa inesistente rimane «visibile»? Quando vien notte, il giorno continua ad esser «veduto»? L’agonia del sole, al tramonto, rispecchia l’agonia dei viventi; ma quando la luce del sole che ha illuminato una certa giornata si estingue e muore e diventa inesistente, continua forse ad esser «veduta»? Se si crede che essa divenga inesistente non è forse inevitabile che essa, annientatasi, non sia più «visibile», esperibile e che quindi il suo «annientamento» non appartenga al contenuto dell’esperienza? e che dunque l’agonia, visibile, sia lo stato che precede l’uscire dal «visibile»? È proprio così facile liberarsi di queste domande? È proprio così semplice (magari, come si richiamava sopra, per andare oltre le semplificazioni economico politiche degli «imperativi sistemici») appellarsi al carattere di possibilità della storia del mondo?

La Stampa TuttoLibri 21.5.18
Marx augurava la morte allo zio perché era a corto di Capitale
Una biografia racconta l’uomo: burbero, tirannico, marito infedele E quando si tagliò l’(iconica) barba fu l’unica volta in cui sorrise
di Paola Italiano


L’unica buona notizia me l’ha data mia cognata: la notizia della malattia dell’inossidabile zio di mia moglie. Se quel cane muore adesso, sono fuori dai guai». Un uomo tormentato dai debiti non vede l’ora che il parente schiatti per riceverne l’eredità. Quell’uomo è Karl Marx. Impietoso, egoista, meschino. Il Marx di cui non si parla mai, non il filosofo ma l’uomo nella sua dimensione privata. Il marito, il padre, l’amico, il collega.
Non c’è nulla o quasi di inedito o che gli storici non abbiano già ricostruito nella biografia di Uwe Wittstock Karl Marx dal barbiere. La vita e l’ultimo viaggio di un rivoluzionario tedesco (Edt). Eppure si resta a bocca aperta. Dietro la folta barba c’era sì un uomo energico, un infaticabile studioso, con un’intelligenza vivacissima, in grado di ammaliare con le parole e di inchiodare al ragionamento. Ma anche un carattere tirannico, insofferente alle critiche, sferzante, sarcastico, pronto a umiliare chiunque avesse l’ardire di contraddirlo. Un disastro nel gestire l’economia domestica, sopraffatto per tutta la vita da problemi di finanze, costretto a chiedere prestiti e a rivolgersi al banco dei pegni o sperare, come si legge nella lettera ad Engels, che qualche parente muoia per riceverne l’eredità. E ancora: marito infedele, bugiardo e a tratti insensibile ai limiti della mostruosità. Per nulla incline a sentimentalismi e nostalgie: aveva una curiosità inesauribile nei suoi studi, ma non aveva niente del conoscitore del genere umano e non era capace di empatia neppure per i i figli e per l’unico vero amico che ebbe nella vita.
E avercene, amici così. Friederich Engels lo sostenne economicamente per tutta la vita. Ne venerava le doti e lo finanziò aspettando con una pazienza infinita che Marx portasse a termine il progetto de Il Capitale. Ma tra le altre cose, Marx faceva anche una fatica terribile a portare a termine i suoi progetti e la verità è che senza Engels lui e la sua famiglia non sarebbero sopravvissuti alla miseria nera in cui si ritrovarono, soprattutto a Londra. Marx, annota Wittstock, «non aveva nulla dell’affascinante scroccone o dell’imbroglione maestro nell’arte di vivere. La penuria costante lo rendeva spudorato e presuntuoso. Definiva “bricconi”, “asini” e “masnada” i creditori che pretendevano la restituzione del denaro prestato. I parenti che non gli facevano il favore di morire a tempo debito, li definiva “impedimenti all’eredita”».
Ogni volta che gli arrivava un po’ di denaro, lo sperperava come se non ci fosse un domani. Tra il 1863 e il 1864, per esempio, ricevette due eredità: qualsiasi famiglia inglese del ceto medio avrebbe campato per cinque anni, anche di più. Ma i coniugi Marx traslocarono in una casa più grande e più costosa. Appena un anno dopo scrive a Engels: «Già da due mesi ormai vivo semplicemente con il banco dei pegni». Una situazione devastante soprattutto per la moglie Jenny, che un giovane Marx appassionato aveva corteggiato con poesie enfatiche («Jenny! Posso dir con ardimento/Che le anime noi ci siam scambiati»).Dopo il matrimonio, la donna più volte si è trovata al limite del crollo fisico e psichico e all’età di 50 anni gli ripeteva quasi ogni giorno che così non ce la faceva più ad andare avanti. E non c’era solo la miseria. Jenny aveva mandato giù anche l’infedeltà del marito. Nel 1853, la loro cameriera Helena Demuth (sì, anche la cameriera: Marx ci tenne per tutta la vita a mantenere le apparenze del buon borghese) ebbe un figlio. Non disse chi era il padre. In soccorso arrivò ancora una volta Engels, che se ne assunse la paternità, ma Jenny Marx sapeva benissimo come stavano le cose, anche perché la somiglianza del bambino con Karl era evidente. Inoltre, della tragedia immane che fu per Jenny la perdita della figlia Franziska, Marx iscrive in questi termini a Engels: «La settimana scorsa ho dovuto affrontare una merda, di cui tu non puoi farti neanche un’idea». Solo la morte del figlio Edgar all’età di otto anni lo fece veramente vacillare e lo segnò per sempre.
Wittstock racconta la vita di Marx alternando i capitoli storici che ne ricostruiscono la biografia alternati a capitoli più dilatati che raccontano il suo viaggio ad Algeri nel 1882, a pochi mesi dalla morte di Jenny e a meno di un anno dalla morte del filosofo. Un viaggio per curarsi, rivelatosi inutile anche perché foschi nuvoloni e pioggia sembravano seguire Karl ovunque andasse. Ma quella di Algeri è una tappa significativa per un altro motivo: perché lì Marx fece il gesto eclatante di tagliarsi la barba che lo aveva accompagnato per tutta la vita da che era studente. Era la barba dei rivoluzionari, ma Marx la usò anche per coltivare scientemente l’immagine severa, imponente, autoritaria che voleva offrire di sè. Una specie di brand. Subito prima di entrare dal barbiere, si fa scattare l’ultima fotografia. È l’unica di tutte le immagini che abbiamo di lui in cui sorride.

Il Fatto 21.5.18
Solidarietà, un’idea di sinistra di fronte al governo Salvimaio
Lega e Cinque stelle hanno scommesso, vincendo, su una faglia, generica, tra “l’alto” e il “basso”, tra il popolo e le élite, ma un punto di vista progressista e credibile è sempre più necessario al sistema istituzionale
di Salvatore Cannavò


L’isteria con cui la stampa “democratica” e i principali responsabili dello sfascio italiano replicano al “contratto del governo del cambiamento” è forse più sconfortante del futuro governo. Appelli alla difesa democratica dello Stato, indignazione per soluzioni tecnico-politiche tanto risibili quanto innocue e, soprattutto, il ricorso all’Europa come baluardo ultimo alla calata dei “nuovi barbari”. Con simili premesse il consenso all’alleanza leghista-pentastellata non farà che crescere. Dietro lo scandalo non c’è solo un istinto ormai incistato nelle élite italiane, c’è anche l’ipotesi di costruire, contro il governo nascente, una coalizione liberale ed europeista che guarda a Macron come faro e che cercherà di affermarsi anche come risposta alla crisi del Pd. Auguri a chi ci proverà.
Per chi mantiene un orientamento di sinistra, la posizione non può essere quella e non può nemmeno basarsi su una chiamata alle armi contro “i nuovi fascismi”, se non altro perché non troverebbe ascolto. Quel programma ha un consenso sociale fortissimo, la maggior parte dei suoi punti potrebbe essere sottoscritto da forze ambientaliste e progressiste. Sposarsi alla flat tax e, soprattutto, alla propaganda anti-immigrati della Lega disegna ovviamente un profilo inquietante e basta dunque a decidere che di un tale governo non si può essere sostenitori.
Un punto di vista di sinistra che voglia mettersi all’opposizione di questo governo, oltre a tener conto di questi elementi, deve prima definire se stesso. L’unico punto di vista di sinistra possibile, ancora oggi, è pensare la società come una realtà attraversata da faglie, da clivages, che danno luogo a conflitti: c’è chi sta da una parte e chi dall’altra. Lega e Cinque stelle hanno scommesso, vincendo, su una faglia tra “l’alto” e il “basso”, tra il popolo e le élite, raffigurando in queste le classi dirigenti italiane ed europee degli ultimi trent’anni. Nel popolo ci sono un po’ tutti, soprattutto una classe media impoverita, frustrata e rancorosa, ma anche fette consistenti del mondo del lavoro dipendente, giovani precari, insegnanti, funzionari dello Stato. Un punto di vista di sinistra può invece considerare ancora valida la divisione tra il lavoro da una parte, nelle sue molteplici sfaccettature (dai riders ai super-precari) e chi possiede capitali, produttivi e finanziari, e governa l’andamento del mondo. Per quanto si insista da decenni sul superamento di questa suddivisione la dura realtà conferma che quella faglia è ancora attiva.
Anche perché la sostituzione del clivage destra/sinistra con quello alto/basso, per quanto non debba indurre a disprezzare quest’ultimo, ha prodotto finora un risultato negativo: la rabbia sociale si è scaricata sul vicino più prossimo, quasi sempre il migrante, o il rom, il povero, spessissimo le donne, vittime di una violenza inestirpata.
Un punto di vista di sinistra che voglia affrontare seriamente il governo nascituro dovrà affrontare di petto il programma double face del possibile governo con la sua componente liberista come la “dual flat tax”, che propone un futuro dell’Italia da paradiso fiscale e misure sociali come il Reddito di cittadinanza, la riforma della legge Fornero, il deficit spending come strategia, la Banca pubblica, politiche per l’ambiente, la scuola, l’acqua pubblica. A tenere insieme le due componenti, oltre a una tattica spregiudicata, soccorre una congiuntura inedita, una delega speciale al “nuovo” contro il “vecchio”, che fa sperare in un cambiamento possibile. La stessa che premiò Renzi nel 2014. Se però è vero che nell’alleanza convivono una componente liberista e una più sociale, la contraddizione verrà fuori ed è su quella che si può scommettere. Anche perché, l’alleanza e il compromesso definito, ha finora messo da parte una parola chiave: la solidarietà. Intesa come “concetto costitutivo della Repubblica” (Stefano Rodotà), come connessione paritaria tra uguali, e non come atto paternalistico del governo di turno, nel programma la solidarietà non c’è. Anzi, nelle misure contro i migranti, contro i rom, contro le povere madri migranti escluse dagli asili nido (cosa c’è di più feroce?) viene riabilitato il suo contrario.
Il punto di vista che una qualche sinistra dovrebbe assumere è esattamente quello della solidarietà: di classe, tra i generi, tra le etnie, come elemento costituito di un’alterità. Che non cristallizzi il governo nascituro sotto etichette generiche come “fascismo” o “sovranismo”, ma lo misuri a partire dai propri valori e dai propri obiettivi. Anche un governo di sinistra, se fosse tale, dovrebbe varare un programma da 100 miliardi di recupero sociale, non è su questo che Salvini e Di Maio vanno criticati.
Il punto è che a pagare questi 100 miliardi dovrebbero essere quelli che in dieci anni di crisi si sono arricchiti e di miliardi ne hanno guadagnati mille. Non è un caso che nel programma venga esclusa la patrimoniale. E non dovrebbero esistere capri espiatori che richiamano alla logica degli anni ’30 del Novecento. Il “loro” e il “noi” dovrebbe essere ribaltato. E nel “noi”, a differenza che nel passato, non ci sono improbabili partiti mai nati o già morti, ma solo una “sinistra di società” che ancora non si riconosce in quanto tale ma che dovrebbe cominciare a farlo.

La Stampa 21.5.18
Con la flat tax metà dei risparmi sull’Irpef vanno alla fascia più ricca
Sino a 20 mila euro di reddito nessun vantaggio: le famiglie dovranno invocare la clausola di salvaguardia. Da 35 mila euro in su iniziano i vantaggi
di Paolo Baroni

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Corriere 21.5.18
Tensione nel Pd : «Pare una classe di terza media»
C.Zap.


«Sembra una classe di terza media all’ora di ricreazione». Carlo Calenda non ha apprezzato i contenuti dell’assemblea nazionale del Pd andata in scena sabato. Come ama fare spesso, il ministro via Twitter esprime un giudizio tranchant. «Ma un partito che diventa la somma di “io sto con Renzi”, “io sto con Orlando”, “io sto con Martina”, “io sto con Franceschini”, “io sto con y”, non è più un partito ma una terza media all’ora di ricreazione. Dunque nessuna ambizione di fondare l'ennesimo “io sto con”. #iostobenecosi». Ma l’uscita di Calenda non è isolata. Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, renziano doc, parla di «clima assurdo, da corrida». E Nicola Zingaretti, attuale governatore del Lazio ma con ambizioni di conquista della segreteria, parla di una «fase politica chiusa» e della necessità di «voltare pagina con chiarezza». Il clima è molto caldo. Sabato si è evitata la conta e la conseguente presa d’atto dell’ennesima spaccatura interna. Ma gli equilibri all’interno del Pd stanno cambiando. Il «reggente» Maurizio Martina nel suo intervento ha rivendicato il diritto a esercitare i pieni poteri del segretario fino a quando non verrà indetto il congresso. Tempi e modalità verranno decisi dalla prossima assemblea che verrà convocata a luglio. Il voto sul rinvio della presa d’atto delle dimissioni di Renzi ha mostrato che il segretario uscente ha perso posizioni ma ha ancora in mano la maggioranza del partito. Martina, appoggiato da Franceschini, Orlando ed Emiliano, ha più volte detto di essere interessato a guidare una fase nuova del Pd, aperta ad altre forze di sinistra. Ma su questa strada potrebbe scontrarsi con le ambizioni di Zingaretti.

Repubblica 21.5.18
Intervista a Calenda
“Siamo un partito incomprensibile, nessuno sa su cosa ci stiamo dividendo”
di Giovanna Casadio


ROMA Ministro Carlo Calenda, in risposta a un follower che le chiedeva su Twitter se la mobilitazione per l’Italia potesse partire dal Pd, lei ha risposto «non più». Perché?
«Perché le cose che si sono viste nell’Assemblea di sabato non hanno nulla a che fare con un grande partito progressista che ha governato bene l’Italia per una legislatura. Cose indecorose per come è la situazione nel Paese».
Lei aveva addirittura proposto di rinviare l’Assemblea dem e di fare partire una mobilitazione popolare contro il patto grilloleghista. Ma le è stato risposto che, da neofita del Pd, non capiva.
«Avevo chiesto che mettessero da parte i dibattiti ombelicali per parlare al Paese. Per mobilitazione intendevo la chiamata a raccolta di forze sociali, economiche, politiche e culturali, così da riparlare con i diversi mondi da cui deve partire la nostra rifondazione».
Ma quel «non più» cosa significa? Che il Pd è finito?
« Rischia di finire. Un partito che diventa la somma di io sto con Renzi, io sto con Orlando, io sto con Martina, io sto con Franceschini, io sto con Y, non è più un partito ma una terza media all’ora di ricreazione».
Restituisce la tessera?
«Non restituisco la tessera. Anzi, ho sbagliato a dire che lo avrei fatto, quando si pensava a un’intesa con i 5Stelle. È apparso arrogante. Però è chiaro che il Pd così com’è non va da nessuna parte e non basta più».
Cosa ha votato in Assemblea? Lei era per Maurizio Martina segretario?
«Io ho votato l’unica mozione presentata. Ma il punto è un altro e non saprei neppure spiegare a un cittadino quello che è successo lì dentro. Siamo diventati un partito incomprensibile. Avevo già detto che ci voleva una grande segreteria costituente, in cui ci fossero tutte le persone che hanno rappresentato il Pd oggi e ieri, Veltroni, Franceschini, Enrico Letta, Orlando, Renzi, Gentiloni, Pinotti e Finocchiaro. Con delle donne capaci in segreteria magari il tasso di testosterone diminuisce. Oltretutto è incomprensibile questa guerra tra persone che sono state al governo insieme. Su cosa ci stiamo dividendo?»
Il Pd si rifonda o si sposta la tenda altrove, per lei?
«Io non mi trasferisco da nessuna parte, al contrario sto scrivendo un libro proprio sul ruolo dei progressisti. Spero ci sia la forza di sospendere ogni confronto insulso e di avere in Gentiloni il punto di riferimento. L’errore primo dei progressisti è che pensano di poter sostituire la competenza con la rappresentanza, delegittimando le paure».
Nell’Assemblea ci sono state prove di divorzio, il Pd si spaccherà?
«Non credo, ma continuerà
questa litigiosità, un conflitto a bassa intensità infinito».
Tra i dem c’è una conta sulla leadership e forse una mancata chiarezza sull’orizzonte del partito, se ricostruire il centrosinistra o creare una forza liberal democratica, anti populista e anti sovranista, che possa non escludere Berlusconi. Lei come la vede?
«Intanto dobbiamo ricreare la nostra forza. Sbaglieremmo clamorosamente se volessimo mutare pelle. Siamo già una forza liberal democratica che ha governato bene ma ha perso la rappresentanza perché ha ignorato le paure. Per questo lavoro non ci sono scorciatoie, le alleanze si fanno nella società, non nel Parlamento».
È molto preoccupato dal governo gialloverde?
«Molto. Sarà un governo elettorale che porterà instabilità e conflittualità. Inizieranno a dire che l’Europa non gli fa fare le cose e chiederanno nuove elezioni. Le prossime saranno come quelle del 1948: definiranno la nostra collocazione internazionale.
Bisogna prepararsi ora».
Di Maio vorrebbe succederle
al ministero dello Sviluppo economico.
«Spero non inizi chiudendo l’Ilva, il più grande stabilimento industriale del Sud che vale un punto di Pil. E che non smonti industria 4.0, il piano straordinario per il Made in Italy, e la Strategia energetica nazionale.
Gli lascerò una dettagliata relazione di fine mandato e la mia disponibilità a un passaggio di consegne, incontrandolo se vorrà. La battaglia politica è una cosa, la responsabilità istituzionale un’altra».

Repubblica 21.5.18
La crisi dei democratici
I due pd e la rinascita della sinistra
di Emanuele Felice


Emanuele Felice, economista e storico, è professore associato all’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara. Il suo ultimo libro: “Storia economica della felicità” (Il Mulino, 2017)

La politica non è solo personalismi e tattica. Ma visione strategica, cultura, capacità di leggere l’economia e la società. Forse è ora che il campo riformista ricominci a parlare di idee, se vuole sperare di recuperare il terreno perduto. Oggi nel Pd si confrontano due visioni diverse: sembrano antitetiche, ma a ben vedere non lo sono. I riformisti all’opposizione dovranno riuscire a coniugarle, se vogliono offrire un’alternativa credibile al governo populista.
Da un lato l’area renziana intende seguire le orme di Macron: puntare sulle riforme istituzionali, per rendere l’Italia più competitiva. La vocazione rimane quella centrista, nonostante l’idea di base (l’importante è crescere, poi i benefici arriveranno per tutti) si sia dimostrata alquanto ottimistica nel mondo avanzato.
Sull’altro versante, il resto del Pd invita a tornare a porre con forza il tema delle disuguaglianze: di reddito, di genere, territoriali (fra Nord e Sud, fra aree interne e centrali), come pure fra le generazioni. A tratti il modello sembra essere piuttosto quello di Corbyn, in Inghilterra: passa per la messa in discussione delle politiche neo-liberali degli ultimi tre decenni e per l’ambizione di tornare a governare la globalizzazione.
Chi ha ragione? La seconda strada è quella certo che meglio prova a fare i conti con la sconfitta storica del 4 marzo.
Si fa carico di preoccupazioni reali, sottovalutate finora: la crescita delle disuguaglianze all’interno dei paesi ricchi, e in Italia, i rischi che tutto ciò comporta anche per la democrazia.
Nondimeno, questa strada si può seguire senza abbandonare alcuni punti della prima prospettiva. Anzi, se riuscisse a incorporarli ne verrebbe rafforzata.
Prendiamo il miglioramento delle istituzioni: l’Italia continua ad avere bisogno di regole più semplici, efficaci, e non si vede perché queste debbano essere in contraddizione con incisive politiche sociali. Il superamento del bicameralismo paritario, la ridefinizione del rapporto stato-regioni erano i due principi cardine, formulati male, dell’ultima riforma costituzionale. Quella riforma fu bocciata dagli elettori soprattutto perché identificata con Renzi. Ma andava nella direzione giusta, così come la riforma amministrativa, scritta (quasi) altrettanto male e anche per questo implementata quasi per nulla. Oltralpe, Macron non sta affatto improvvisando nella sua riforma dello Stato, avvalendosi di tecnici competenti: tanto più necessari quando si scrivono leggi ambiziose.
Secondo, e ancora più importante: l’europeismo. Non è affatto detto che la lotta alla disuguaglianza debba entrare in rotta di collisione con la sfida, difficile e decisiva, per cambiare l’Europa. Al contrario. Si noti che su questo le proposte di Macron non sono più avanzate di quelle dei Socialisti e democratici, presentate al Parlamento europeo: queste aggiungono alla piattaforma di Macron i diritti sociali e l’idea di un welfare comune. Piuttosto, il presidente francese ha il merito di aver portato il tema della riforma dell’Unione al tavolo intergovernativo, che (purtroppo) oggi conta molto più dell’Europarlamento. L’Europa, la riforma dello Stato, le politiche sociali, ma anche i diritti civili (forse il lascito principale dei passati governi alla storia): sono questi i temi su cui il Pd, se ritroverà orgoglio e ambizione, potrà sperare di aprire contraddizioni nel fronte populista.

Repubblica 21.5.18
Gustavo Zagrebelsky è stato presidente della Corte Costituzionale nel 2004
“Il contratto è un patto di potere ma il Colle non è un notaio”
intervista didi Liana Milella


Si sta configurando un governo a composizione predeterminata e il capo dello Stato rischia di trovarsi con le spalle al muro Sulla sicurezza emerge dal programma uno Stato dal volto spietato verso i deboli e i diversi, non compatibile con i diritti umani Incostituzionale il Comitato di conciliazione se facesse derivare obblighi di comportamento per premier e ministri

Sono trascorsi due mesi e mezzo dal voto e ancora non abbiamo il nuovo governo. Lei, professor Zagrebelsky, che ne dice?
«Dal 4 marzo qualcosa di nuovo cerca di nascere. Che ci riesca, sia vitale, sia davvero qualcosa di nuovo e, alla fine, sia bene o male, è presto per dirlo. Ma non stupisce il lungo travaglio. Il voto ha detto una cosa semplice e una difficile. Quella semplice è un desiderio di rottura; quella difficile è il compito ricostruttivo. Si immagina il presidente della Repubblica che, per tagliar corto, soffoca la novità con un governo tecnico?».
Dunque, nessun problema?
«No! Ce n’è uno grande. Sembra si stia configurando un governo a composizione e contenuti predeterminati, totalmente estranei al Parlamento e al presidente della Repubblica. Il quale rischia di trovarsi con le spalle al muro per effetto di un “contratto” firmato davanti al notaio. Eppure, la nomina del governo spetta a lui. Lui non è un notaio che asseconda muto. È piuttosto un partner che può e deve intervenire per far valere ciò che gli spetta come dovere istituzionale. Non si tratta di astratti scrupoli di giuristi formalisti, ma di importantissimi compiti di sostanza».
Lei pensa ad aspetti della procedura seguita che impedirebbero al capo dello Stato di intervenire come dovrebbe poter fare?
«Teoricamente, il presidente della Repubblica potrebbe respingere le proposte fattegli.
Ma, se lo immagina il caos che ne deriverebbe? La prassi maturata in tanti anni di governo repubblicano è questa. Prima, le consultazioni con i gruppi parlamentari; poi, in base a queste indicazioni, l’incarico a una persona capace di unire una maggioranza; infine, se l’incaricato “scioglie positivamente la riserva”, la nomina a presidente del Consiglio e, su sua proposta, la nomina dei ministri. La formazione del governo è un atto complesso e, nei diversi passaggi che ho detto, il presidente ha tutte le possibilità (in passato ampiamente esercitate) per far valere i poteri che gli spettano. Se egli accettasse a scatola chiusa ciò che gli viene messo davanti, si creerebbe un precedente verso il potere diretto e immediato dei partiti, un’umiliazione di Parlamento e presidente della Repubblica, una partitocrazia finora mai vista».
E quali passi, secondo lei, occorrerebbe fare per evitare questo esito?
«Il presidente, ricordando vicende del passato, ha detto con chiarezza ch’egli intende far valere le sue prerogative.
Potrebbe procedere a nuove consultazioni, e poi conferire un incarico corredato da condizioni che spetta a lui dettare, come rappresentante dell’unità nazionale e primo garante della Costituzione. Per inciso, finora, non esiste alcun “incaricato” e i due firmatari dell’atto notarile, dal punto di vista costituzionale, sono soggetti privi di mandato.
Tutto potrebbe avvenire, se non sorgono problemi tra i partiti, in pochissimo tempo».
Lei parla di atto complesso e di condizioni poste dal presidente. Quali potrebbero essere?
«Ci sono cose costituzionalmente “non negoziabili”. Innanzitutto, per ciò che riguarda le persone chiamate al governo che devono portare la loro carica con “dignità e onore”. Nelle scelte politiche, invece, il presidente della Repubblica non può intervenire se non per rammentare che ve ne sono, accanto alle libere, altre che libere non sono. La Costituzione è un repertorio di scelte non “negoziabili”».
Vuole fare qualche esempio?
«Mi limito ad alcuni punti.
Innanzitutto, i vincoli generali di bilancio. Mi pare che, sulle proposte che implicano spese o riduzioni di entrate, si discuta come se non ci fosse l’articolo 81 della Costituzione che impone il principio di equilibrio nei conti dello Stato e limiti rigorosi all’indebitamento. Ciò non deriva (soltanto) dai vincoli europei esterni, ma prima di tutto da un vincolo costituzionale interno che non riguarda singoli provvedimenti controllabili uno per uno, ma politiche complessive».
Sull’equilibrio dei conti finora molto si è detto, ma lei ha individuato altre “stranezze”?
«Sono colpito dalla superficialità con la quale si trattano i problemi della sicurezza. Dall’insieme, emerge uno Stato dal volto spietato verso i deboli e “i diversi”: l’autodifesa “sempre legittima”; la “chiusura”, non si sa come, dei campi Rom; la restrizione delle misure alternative alla pena detentiva; perfino l’uso del Taser, la pistola a onde elettriche che l’Onu considera strumento di tortura; le misure contro l’immigrazione clandestina con specifiche figure di reato riservate ai migranti clandestini; il trasferimento di fondi dall’assistenza dei profughi ai rimpatri coattivi. Come ciò sia compatibile con i diritti umani, con la ragionevolezza e l’uguaglianza, con il rispetto della dignità e del principio di recupero sociale dei condannati, con esplicite e puntuali pronunce della Corte costituzionale, non si saprebbe dire. La “libertà di culto” è trattata come questione di pubblica sicurezza, con riguardo alla religione islamica (controllo dei fondi, registro dei ministri del culto, ecc.). Nelle 57 pagine del contratto ci sono anche cose che possono considerarsi positive. Non ne parlo, in quanto attengono a scelte discrezionali su cui il presidente della Repubblica non avrebbe motivo di intervenire.
Ma su quelle anzidette certamente sì, nella sua veste di garante della Costituzione contro involuzioni che travolgono traguardi di civiltà faticosamente raggiunti».
Come mai non ha parlato finora delle riforme istituzionali?
«Innanzitutto, noto che non c’è parola circa la legge elettorale e l’esecrato (a parole) Rosatellum. È poi caduta l’ipotesi di una nuova riforma di sistema, per esempio in vista di qualche tipo di presidenzialismo. L’esperienza ha forse reso cauti. Invece, si ragiona di interventi puntuali. È prevista la riduzione del numero dei parlamentari, cosa da gran tempo auspicata (a parole). Circa la democrazia diretta, si prospetta l’introduzione del referendum propositivo accanto a quello abrogativo, con l’abolizione della condizione della partecipazione della maggioranza degli elettori: riforma molto democratica, a prima vista, ma forse solo a prima vista. E poi c’è la questione del vincolo di mandato».
Per l’appunto: mi meravigliavo che non arrivasse qui.
«La discussione in proposito è legittima e la questione delicatissima. Ma non possiamo soltanto deplorare il trasformismo di deputati e senatori che passano dalla maggioranza all’opposizione o, più spesso, dall’opposizione alla maggioranza cedendo a promesse e corruzione. Questo è uno dei non minori mali del nostro sistema parlamentare. Il “contratto”, in proposito, è generico, ma insiste su un punto che a me pare rilevante: l’esigenza che, con “cambio di casacca”, non si determini per interesse privato il tradimento delle aspettative degli elettori rispetto al governo. Se la coscienza del parlamentare lo fa stare stretto dove è stato eletto, lasci il suo posto in Parlamento.
La libertà di coscienza, che il divieto di mandato vincolante vuole proteggere, dovrebbe invece essere fermamente garantita in tutti gli altri casi, in particolare nel procedimento legislativo. Piuttosto, a meno di errore, non trovo nel contratto nulla a proposito della questione di fiducia che tante volte il governo ha usato, per l’appunto, per coartare la libertà di coscienza dei parlamentari».
Lei, nel corso di questo colloquio, ha sempre messo il “contratto” tra virgolette.
Perché?
«I contratti sono sempre specifici. Così è, ad esempio, il Regierungsvertag (contratto di governo) tedesco, al quale impropriamente si è accostato il nostro che parla invece dell’universo mondo. Accanto a cose precise (tasse e reddito di cittadinanza, ad esempio) abbondano espressioni come: occorrerà, è necessario, si dovrà, è imprescindibile... Questo non è un contratto ma un accordo per andare insieme al governo.
Insomma, un patto di potere, sia pure per fare cose insieme.
Niente di male. Ma chiamarlo contratto è cosa vana e serve solo a dare l’idea di un vincolo giuridico che non può esistere. In politica, come nell’amore, non si sta insieme per forza, ma solo per comunanza di sentimenti o d’interessi».
Ma è previsto addirittura un organismo che dovrebbe garantire il rispetto del patto, il “Comitato di conciliazione”.
«È una figura fantasmatica, solo abbozzata. Quando tra due parti nasce un contrasto, è bene cercare di appianarlo (cabine di regia, consigli di gabinetto, caminetti). Ma qui si immagina qualcosa di più, qualcosa di formale pensato in termini privatistici. In coda ai contratti si indica il “foro competente” in caso di lite. Qui c’è il “comitato di conciliazione”. Cosa piuttosto innocua se rimane nella dinamica dei rapporti politici tra i “contraenti”. Cosa pericolosissima, anzi anticostituzionale, se dalle decisioni di tale comitato si volessero far derivare obblighi di comportamento nelle sedi istituzionali, del presidente del Consiglio, dei ministri, dei parlamentari».

Il Fatto 21.5.18
Cile, i silenzi dei cardinali italiani per coprire il “santo” pedofilo
La rete di complicità in Vaticano che ha protetto per decenni Karadima, il parroco stupratore di Santiago
di Fabrizio d’Esposito


Come notato da più parti, le dimissioni di massa dei vescovi di un intero Paese rappresentano un altro capitolo inedito della Chiesa cattolica, un’altra tappa della rivoluzione di Bergoglio, che pure sullo scandalo pedofilia in Cile qualche abbaglio l’aveva preso: si pensi alla contestatissima nomina a presule di Juan Barros Madrid, allievo del “santo” violentatore Fernando Karadima, “coperto” per decenni anche in Vaticano.
Ed è per questo che il rinnovamento avviato dal clamoroso gesto dell’episcopato cileno sarà veramente tale solo se si indagherà a fondo sulla rete di complicità che ha protetto Karadima durante la sua lunga parabola nella ricca parrocchia del Sacro Cuore di El Bosque, nella Santiago borghese che ancora rimpiange il dittatore fascista Pinochet.
I nomi? Soprattutto uno, come ha spiegato in un’intervista all’edizione italiana dell’Huffington Post il poeta cileno Pablo Simonetti, attivista dei diritti civili dei gay: “Il potere di Karadima è stato fondato anche sulla sua vicinanza alla dittatura e al gruppo sociale che l’ha sostenuta. È stato in un certo modo il legame tra Pinochet e il Vaticano, attraverso il Nunzio Apostolico del tempo, monsignor Angelo Sodano, che è stato poi promosso da Giovanni Paolo II segretario di Stato. C’è una rete di potere che vale la pena di investigare”.
Oggi Sodano, novantenne, è il decano del collegio cardinalizio. L’ex segretario di Stato di papa Wojtyla ha sempre mantenuto una solida coerenza in merito. Come la difesa del fondatore dei Legionari di Cristo, il messicano Marcial Maciel Degollado, altro feroce stupratore di seminaristi poi condannato dal Vaticano. Non solo. Secondo il cardinale Schönborn, nel 1995 Sodano coprì il gravissimo caso dell’allora arcivescovo di Vienna Hans Hermann Groër. E quando poi lo scandalo dei preti pedofili investì il pontificato di Ratzinger, il solerte Sodano derubricò la questione a “chiacchiericcio”.

Il Fatto 21.5.18
In Palestina la vittima continua a farsi carnefice
di Orazio Licandro


“Dopo la loro uccisione gli Zeloti e la massa degli Idumei si avventarono sul popolo facendone macello come di un branco di bestie immonde. La gente comune veniva massacrata sul posto appena era presa, mentre i giovani della nobiltà dopo la cattura li incatenarono e li gettarono in prigione, rinviandone l’uccisione nella speranza che qualcuno passasse dalla loro parte. Ma nessuno si lasciò persuadere, perché tutti preferirono morire anziché schierarsi insieme con quei criminali contro la patria. Terribili furono i supplizi cui vennero sottoposti dopo il rifiuto; furono flagellati e torturati, e solo dopo quando il corpo non era più in grado di resistere ai tormenti, a stento concedevano loro il colpo di grazia”. Giuseppe Flavio nelle sue Antichità giudaiche (4.5.3) racconta con sgomento ciò di cui gli Zeloti (in ebraico Kanna’im) erano capaci in ferocia. Apparsi sin dal I secolo, gli Zeloti costituirono una fazione giudaica politico-religiosa segnata da un’irriducibile, irrazionale e accanita indipendenza politica del regno di Giudea, una peculiarità che faceva assumeva loro l’aspetto di strenui difensori dell’ortodossia e dell’integralismo ebraico dell’epoca. Tanto era irriducibile la loro tensione ribelle verso la dominazione romana, da esser trattati appunto dai Romani alla stregua di terroristi e criminali comuni. Ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza, con quegli atroci e incomprensibili massacri di cui si ha notizia, non è molto diverso da quello che accadeva già due millenni fa in Giudea e Palestina, ancora oggi terra di sangue e dolore, e dove nel corso della Storia si ripete il ciclo della vittima che si fa carnefice, per ridiventare vittima e poi ancora carnefice!

Il Fatto 21.5.18
“Così Netanyahu e Trump vogliono sterminarci”
Il teorico della “terza via” non-violenta: “Anche Hamas ha abbandonato la lotta armata. Proprio oggi che i partiti palestinesi in questo sono uniti arriva l’offensiva di Usa e Israele”
Le proteste palestinesi represse da Israele a Gaza: oltre cento vittime da una parte sola
di Cosimo Caridi


“Hamas ha abbracciato la nostra strategia non-violenta”. Mustafa Barghouti è conosciuto come il leader della “terza via” né Fatah, né Hamas. Il suo viaggio nella politica parte da lontano. Studia medicina nell’ex Unione Sovietica, sono gli anni ’70. Torna in Palestina e inizia la sua attività di volontariato. Ma è solo in piena seconda Intifada, nel 2002, che fonda il suo partito: Iniziativa nazionale palestinese. In quegli anni il Barghouti famoso è Marwan, suo cugino. Era alla guida di Tazim, l’unità speciale delle Brigate dei Martiri di al Aqsa, il braccio armato di Fatah. Attentati, arresti, assassinii, uno dei momenti più sanguinosi del conflitto israelo-palestinese. Marwan perse la sua lotta, Israele lo ha incarcerato e nel 2004 condannato a cinque ergastoli. Moustafa da allora, senza fare sconti a Israele, si batte per cambiare le modalità di resistenza palestinese. Dopo la vittoria di Hamas a Gaza nel 2006, e la guerra civile per il controllo della Striscia, Barghouti è diventato uno dei negoziatori più ascoltati per la riunificazione nazionale tra Fatah e “Hamas, che ha abbandonato la lotta armata e con gli altri partiti palestinesi ha aperto una nuova fase della resistenza”.
Qual è il bilancio di questa ultima ondata di protese?
Sono morti più di cento palestinesi, 10mila sono feriti. Almeno 5mila persone sono state colpite dai proiettili dei cecchini. Nessun israeliano ferito. La nostra è una resistenza non-violenta. I militari israeliani hanno aperto il fuoco contro manifestanti pacifici. Il governo di Tel Aviv dice che i morti erano tutti militanti di Hamas, non è vero. E anche se lo fossero chi gli ha dato il permesso di sparargli. Tra i morti ci sono giornalisti e personale medico. È contro ogni legge internazionale.
Ma quasi tutti i media hanno parlato di “scontri”.
Quelli che hanno sparato sono militari molto addestrati, la cui sicurezza non era minacciata in alcun modo. Hanno colpito a grande distanza uomini e donne disarmati.
Quella di Gaza era una marcia non-violenta? Con pietre e molotov?
Assolutamente sì. Sono oltre 15 anni che usiamo tecniche non-violente in tutta la Cisgiordania. Le manifestazioni settimanali contro il muro sono l’esempio più evidente. Abbiamo anche vinto molte battaglie giuridiche: facendo spostare il muro e ottenendo lotti di terra sottratti dai coloni ai contadini palestinesi. Da anni ho iniziato un dialogo con Hamas, perché adottassero metodi di lotta non-violenta anche nella Striscia. Lo hanno fatto. Le manifestazioni di queste settimane, a cui hanno aderito tutte le forze politiche nazionali, sono ispirate alle marce di Martin Luter King.
È stato un momento molto violento della storia statunitense. Arresti, pestaggi e King è stato assassinato.
Israele sta facendo lo stesso con i palestinesi e non solo a Gaza. Per anni questa violenza è stata a bassa intensità, la settimana scorsa è sfociata in un massacro. Ma le modalità sono sempre le stesse. Nel 1996, durante una manifestazione pacifica, sono stato colpito da un cecchino. Due proiettili. I frammenti di quelle pallottole sono ancora nella mia schiena.
Negli USA l’obbiettivo dei suprematisti bianchi era il mantenimento dello status quo. Il primo ministro Benjamin Netanyahu vuole che le cose restino invariate?
Netanyahu vuole distruggere completamente la nostra società, il suo obbiettivo è la pulizia etnica della Palestina. Vuole uccidere lo Stato palestinese. Per farlo sta creando un sistema di bantustan, dividendo i palestinesi, rendendo impossibile spostarsi da Ramallah a Gerusalemme o Gaza. Ha costruito muri e check-point. Vuole l’apartheid. E tutto questo facendo sembrare Israele come la vittima e non il carnefice.
Come è cambiata la politica israeliana con la nuova amministrazione degli Usa?
Donald Trump tratta Israele come una questione di politica interna. Come si trattasse del 51° Stato americano. La lobby israeliana non è mai stata così potente. Importanti finanziatori della campagna elettorale sono investitori nelle colonie in Cisgiordania. A Washington stanno nascendo nuove alleanze tra le parti più conservatrici del paese e le lobby sioniste. Il vicepresidente Mike Pence fa parte del movimento conservatore evangelico che vuole dettare il futuro del Medioriente: spingono Trump a intervenire sempre di più nella politica israeliana. Gli evangelici vogliono portare tutti gli ebrei in Palestina. Credono che questo sia un passaggio forzato per l’armagedoon, la fine del mondo. Sono il vero motore dello spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Cosa cambia nello scacchiere mediorientale?
Primo obiettivo di Israele è l’Iran. Netanyahu sta tentando di provocare una reazione di Trump contro Teheran. Che sia Hezbollah o l’Iran non importa, Israele vuole mostrare la propria forza militare e facendolo si trascineranno dietro gli Usa.
Israele non considera più i palestinesi come minaccia?
Netanyahu ritiene di avere un controllo totale e definitivo sui Territori palestinesi. Ora vuole espandere le zone d’influenza: il Golan siriano è il suo primo passo, per poi allargarsi ad altre aree della Siria. Per appoggiare questa fame di potere l’amministrazione statunitense sta tentando di normalizzare i rapporti tra i paesi arabi e Israele, lasciando irrisolta la questione palestinese.

Il Fatto 21.5.18
Erdogan si prende i Balcani: “L’Ue non vi vuole, io sì”
A Sarajevo l’unico comizio elettorale in Europa prima delle elezioni turche del 24 giugno
Oltre diecimila manifestanti ieri a Sarajevo per il turco Erdogan
di Cosimo Caridi


L’Europa è il suo sogno proibito e il suo più grande incubo. L’Unione non lo ama, ma non per questo Recep Tayyip Erdogan si arrende. Tre paesi membri gli hanno vietato di far campagna elettorale sul proprio territorio. Allora il Sultano ha organizzato un comizio in quell’Europa che non è ancora Unione. “La Turchia non lascerà mai sola la Bosnia sulla strada delle integrazioni euroatlantiche – ha detto Erdogan dopo un incontro con Bakir Izebegovic, attuale presidente di turno della presidenza tripartita bosniaca – e non ha mai avuto ‘intenzioni nascoste’ nei confronti della Bosnia se non la prosperità del Paese in particolare sul piano dell’economia”.
Dichiarazioni che suonano grossomodo così: “Se l’Ue non vi vuole ci siamo noi e abbiamo intenzione di investire qui”. La Bosnia Herzegovina ha fatto richiesta di adesione all’Ue, ma ci potrebbe volere oltre un decennio prima che Sarajevo entri a far parte del club di Bruxelles. Intanto Erdogan investe e costruisce. Tra le promesse del presidente turco, reiterate nel bilaterale con Izebegovic, c’è persino la costruzione de “l’autostrada della pace” tra Sarajevo e Belgrado.
Ieri quasi 20mila turchi hanno accolto Erdogan nella capitale bosniaca. Bandiere rosse, con luna e stella, e foto del Sultano hanno tappezzato lo Zetra, il palazzetto olimpico di Sarajevo. “Siamo pronti a tutto per lui, anche a morire se ce lo chiederò”, ripete un cittadino turco, residente a Colonia, arrivato in Bosnia in autobus, 28 ore di viaggio. Dopo il tentato golpe del luglio 2016 il culto del presidente è cresciuto a dismisura. Cavalcando questo sentimento, nella primavera del 2017, un referendum molto controverso ha trasformato la Turchia in una Repubblica presidenziale, con un capo di Stato dai poteri quasi illimitati. L’assetto del Paese non sarebbe dovuto cambiare fino alle elezioni previste nel novembre 2019. Erdogan non ha potuto aspettare, le ha anticipate di 18 mesi, fissando le consultazioni per il prossimo 24 giugno. Oggi la forbice tra Akp, il partito del Sultano, e l’opposizione si sta stringendo. Erdogan, per assicurarsi la rielezione, ha bisogno dei voti della diaspora turca. Sono circa 3milioni gli aventi diritto al voto che risiedono all’estero, di questi oltre 1,4milioni vivono in Germania. Ieri dal palco ha parlato anche a loro.
“Non si è piegato alla cancelliera Angela Merkel – ha spiegato un manifestante bosniaco alla tv pubblica – è un musulmano, un esempio per il suo Paese e per il nostro”. Sin dagli anni ’90, quando il Sultano era solo il sindaco di Istanbul, la Turchia ha giocato un ruolo di primo piano nella ricostruzione post bellica. E non solo in Bosnia. Se l’Arabia Saudita, e quindi il wahabismo, ha aumentato la sua influenza in medioriente, la finanza islamica ottomana ha sostenuto le comunità balcaniche. Oggi camminando per Tirana come Pristina o Sarajevo i minareti più alti delle moschee sono longilinei e decorati come da tradizione turca.

Il Fatto 17.5
Il fallimento di Alexis Tsipras
La resa - Non è rimasto nulla di quella spinta che voleva ribaltare le politiche di austerità dell’Ue, tra privatizzazioni, tagli al welfare e una nuova crisi migratoria in preparazione causata dalla Turchia di Erdogan
di Filippomaria Pontani


All’ingresso di Lepanto (l’odierna Nàfpaktos), lo scheletro semivuoto di un grande China Mall: forse i cinesi non hanno sfondato? Ma no, i cinesi in Grecia hanno da tempo varcato le Termopili, conquistando tramite la Cosco buona parte del porto del Pireo, e investendo ovunque ingenti capitali che hanno aperto loro le stanze della politica; ormai, nel quartiere dell’omonima strada di Atene (odòs Thermopilòn), gestiscono decine di negozi all’ingrosso, fiancheggiati da ombrosi locali dalle insegne equivoche, assediati da un odore di piscio degno delle più sordide metropoli mediorientali.
Nel centro di Atene, a pochi isolati dal Museo Archeologico, è quella una zona franca piena di stranieri poveri e di edifici in rovina: tutto a due passi dalla sede di Syriza, il partito del premier Alexis Tsipras, e dagli headquarter delle Ferrovie greche e dell’Ente per l’elettricità, vittime sacrificali dell’ultima ondata di privatizzazioni. Se a qualcuno interessasse creare una coscienza europea, le gite scolastiche che sciamano a pochi metri da qui, dopo aver delibato i marmi dell’Ellade, dovrebbero venire a vedere cos’è diventato in pochi anni il cuore di una capitale, cercando il demo di Colono (dove finiva Edipo nell’omonima tragedia) tra i copertoni e gli sfasciumi di odòs Lenormant, o il demo di Acarne (reso celebre dagli Acarnesi di Aristofane) nel caos variopinto e sulfureo di odòs Acharnòn. Al numero 78 di questa via, dovrebbero visitare il City Plaza Hotel, esempio di solidarietà autogestita e abusiva che ha rifunzionalizzato un albergo in disuso come rifugio organizzato di migranti, con tanto di pasti, assistenza medica e corsi di lingua.
“Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo”, mi dice in un greco perfetto e senza un sorriso Nasim Lomani, l’afghano dell’associazione che aiuta il City Plaza. Nonostante sia concreta l’eventualità di uno sgombero della polizia, qui si va avanti come se non dovesse fermarsi mai il viavai di Nigeriani, Pakistani, Irakeni, Somali, Siriani; come se questo esperimento, che da due anni dà un tetto a 100 famiglie (tempo medio di permanenza 6 mesi, , poi i più tentano la sorte per vie oscure), avesse il dovere morale di tener viva un’idea di accoglienza diversa da quella – sposata da Tsipras e dall’Ue tutta – dei campi di detenzione di Lesbo o di Salonicco, dove sono trattenuti in 14.000 (contro i 6.000 dell’anno scorso) e il ritmo dell’esame delle richieste d’asilo è di 250 al mese.
Agli studenti dei nostri licei in gita Nasim vorrebbe raccontare che a Lesbo, in piazza Saffo, poche settimane fa c’è stato un pogrom contro i migranti esasperati in fuga dal campo di Moria e i responsabili delle violenze ancora non si trovano. All’opinione pubblica europea, ormai dimentica della “rotta balcanica” sigillata pagando la Turchia, Nasim vorrebbe segnalare che da mesi il presidente turco Erdogan ha riaperto la frontiera lungo l’Ebro e allentato la vigilanza sulle coste, con il risultato che migliaia di nuovi sbarcati hanno rotto i delicati equilibri del Pireo, di Salonicco, di Samo, di Patrasso. Proprio a Patrasso – l’avamposto per chi è pronto a intrufolarsi nella stiva di una nave o nel doppio fondo di un camion per l’Italia – le recinzioni del porto sono state divelte, il centro città è bazzicato da migranti senza cibo e un murale rappresenta una colomba mitragliata mentre in lontananza oscilla un barcone strapieno. Tutto attorno prosperano le mafie dei passeur.
La Grecia è nuda e sola dinanzi ai ricatti del sultano di Ankara che da due mesi tiene in carcere due soldati dell’esercito greco catturati in Tracia con l’accusa di sconfinamento in armi – li libererà, pare, solo in cambio degli otto ufficiali golpisti dell’esercito turco che trovarono asilo ad Atene nell’estate 2016. E così la Grecia di Tsipras, nata sotto la stella dell’antimilitarismo, fa la faccia feroce con la limitrofa Repubblica di Macedonia, agogna alle fregate francesi, e investe centinaia di milioni per riparare gli F-16 difettosi venduti dagli USA.
La Grecia di Tsipras, nata per rovesciare la politica dell’Europa, si balocca ora con un’anemica crescita del Pil (+1,4%) e con un avanzo primario originato da una tassazione danese applicata a salari bulgari; tributa ovazioni di palazzo all’antico nemico, il presidente della Commissione Jean Claude Juncker, vagheggiando l’uscita dal piano dei memorandum per il 21 agosto prossimo, e pregustando un ritorno sui mercati che sarà in realtà, se va bene, una sorta di protettorato sotto l’egida del Fmi e della troika (restano da applicare 12 misure sulle 88 prescritte al governo!). I ministri, dopo aver promesso la cancellazione del debito greco (che la Germania continua a escludere), la tutela dei più deboli, la solidarietà nella crisi umanitaria, e un sussulto di dignità nazionale, si trovano nel 2018, a valle di anni di sacrifici, a imporre ulteriori tagli alle pensioni basse, a ridurre la no-tax area, a contenere l’immigrazione con la forza, e anzitutto a privatizzare porti, aeroporti, ferrovie, autostrade, cantieri navali, industrie metallurgiche, enti energetici, e quel che resta del sistema bancario.
Il nerbo del Paese è ormai in mano straniera, talché fa sorridere la pretesa del governo di applicare, all’uscita dai memorandum, un piano di sviluppo e di investimenti su realtà produttive e finanziarie che non controlla più. Altro che la visionaria modernizzazione del Paese intrapresa nella seconda metà dell’Ottocento, e in una situazione di bilancio non meno critica, dal premier Charílaos Trikupis: la casa di Trikupis, a Missolungi, sorge a pochi passi dal monumento a Byron e dal parco degli eroi dell’indipendenza del 1821. Mentre di Tsipras resterà ben poco. Perfino dalla sua bandiera, la lotta alla corruzione e all’evasione, sono arrivati non già i miliardi promessi ma pochi spiccioli, e soprattutto nessun cambiamento di mentalità: la procuratrice dell’Areopago (oggi, la Corte Suprema) denuncia senza giri di parole che ancor oggi la corruzione, figlia di un potere troppo spesso opaco e inefficiente, è pervasiva nella società e mette a repentaglio la tenuta democratica.
In questa bancarotta ideale, i cittadini disorientati hanno perso fiducia e speranza: il fallimento del radicalismo di sinistra non ha per ora spostato il pendolo verso i fascisti di Alba dorata; ma non sarà un caso se il protagonista della pièce teatrale più popolare degli ultimi anni, Seme selvaggio di Yannis Tsiros, è un venditore greco che dinanzi alla chiusura del suo baracchino abusivo sulla spiaggia (dovuta ai sospetti della polizia e alle accuse dei turisti tedeschi) promette minaccioso: “Noi dobbiamo vivere, e se la legge non ce lo permetterà, la violeremo!”.

Repubblica 21.5.18
Il reportage. Vite da ( politici) prigionieri
Tra i leader catalani che leggono Gramsci nelle celle di Madrid
Junqueras pulisce vetri, Forn scrive diari. E le mogli raccontano “ Da mesi senza un processo, un’impresa vederli. È solo vendetta”
di Omero Ciai


L’offensiva giudiziaria contro i dirigenti secessionisti catalani, avviata nell’ottobre scorso dalla Audiencia Nacional di Madrid (Jordi Sànchez e Jordi Cuixart i primi arrestati) è ormai da mesi nelle mani del Tribunale Supremo, massimo organo giurisdizionale spagnolo. Per i nove politici attualmente in carcere preventivo (detenuti per la maggior parte il 2 novembre e il 23 marzo scorsi), l’accusa del giudice Pablo Llarena è quella di “ribellione”: la condanna prevista è fino a 30 anni.

BARCELLONA L’ex vice presidente catalano Oriol Junqueras, in carcere in attesa di giudizio da sette mesi, è dimagrito, legge moltissimo, gioca a calcio e pulisce i vetri.
Quello di pulire i vetri è il compito che Junqueras si è auto assegnato perché il settore del carcere di Estremera, a Sud di Madrid, dove è rinchiuso, è autogestito dai detenuti.
Puliscono le celle, i corridoi e tutte le aree in comune.
Junqueras vorrebbe insegnare, fare corsi di storia o filosofia e, perfino fisica quantistica, agli altri carcerati, ma la direzione non glielo ha permesso. Così pulisce i vetri. Nello stesso reparto ci sono altri due leader catalani: l’ex conseller degli esteri, Raül Romeva; e l’ex responsabile degli interni, Joaquim Forn. Romeva sta leggendo tutti i libri di Antonio Gramsci e ha ridipinto le pareti del carcere. Forn scrive un diario e risponde alle migliaia di lettere, “più di trecento al giorno”, che riceve dalla Catalogna. Voleva anche studiare inglese ma ha rinunciato quando ha scoperto che il professore era detenuto per avere ucciso la moglie. Junqueras è quello che è stato punito più spesso. L’ultima volta gli hanno negato per due settimane “l’ora d’aria” perché aveva usato i 4 minuti al giorno che ha a disposizione per fare una telefonata all’esterno del carcere per chiamare una radio di Barcellona, e parlare in diretta con un giornalista.
I leader catalani in carcere sono in tutto nove. Sei sono ex membri del governo che promosse il referendum illegale di autodeterminazione del primo ottobre 2017. Una, Carme Forcadell, è la ex presidente del Parlamento, sciolto da Madrid con il commissariamento dell’autonomia regionale. Gli ultimi due sono i presidenti dei movimenti civici indipendentisti, Jordi Sànchez e Jordi Cuixart.
Secondo i loro familiari, e i loro avvocati, questa lunga detenzione preventiva, prima di un processo sulle cui basi legali molti dubitano - sicuramente il tribunale belga e quello tedesco che frenano sull’estradizione degli esuli -, avrebbe un solo obiettivo: quello di annichilire il movimento indipendentista seminando il terrore tra gli elettori del fronte secessionista.
«Prima che arrivassero i catalani a Estremera - racconta orgogliosa Laura Masvidal, moglie di Joaquim Forn - il servizio postale del carcere era un agente in motocicletta, adesso hanno dovuto prendere un furgoncino e moltiplicare gli addetti al controllo». «A Madrid - aggiunge non hanno capito che dietro ai nove detenuti c’è un popolo. Gli scrivono lettere da ogni angolo della Catalogna, e quando inviano la risposta chi la riceve piange dall’emozione e conserva la busta come un gioiello».
La vita personale di Laura, e quella di Diana Riba, moglie di Romeva, sono state sconvolte dall’arresto dei mariti.
«Come entrare in una voragine», dice Laura. Adesso la loro attività principale è partecipare a tutte le manifestazioni di solidarietà.
Cene, comizi, cortei, in ogni paesino della regione. In media quindici eventi ogni giorno. E andare a visitarli in carcere. Una volta alla settimana per 40 minuti con un vetro in mezzo e, una volta al mese, per un incontro di due ore.
«Il viaggio è una crudeltà - dice Diana, che ha due figli piccoli -.
Settecento chilometri all’andata e settecento al ritorno per 40 minuti. Perché non li spostano in un carcere più vicino?». Txell Bonet, moglie di Jordi Cuixart, ha un figlio di tredici mesi. «Dal 23 ottobre sono andata a trovarlo in carcere già 32 volte. È illegale che come padre di un bimbo così piccolo mio marito debba stare rinchiuso così lontano da Barcellona in attesa del processo.
Il giudice sostiene che c’è ‘pericolo di fuga’ ma ci sarebbero molte altre formule. Ci sono i braccialetti elettronici o gli arresti domiciliari. Quella di Madrid è una vendetta».
Anche le spese ogni volta non sono poche. In auto è un viaggio di sette ore. Meglio treno o aereo.
Per ora i costi dei viaggi di tutte le famiglie sono coperti dalle sottoscrizioni dei 700 comuni indipendentisti catalani.
Quasi scherzando, Laura e Diana, fanno anche l’elenco delle cose positive. «Quest’anno - dice Laura - il commercialista mi ha fatto gratis la dichiarazione dei redditi». «A me - aggiunge Diana - l’ottico mi ha regalato un paio di occhiali da vista di ricambio per Raül».
«Le vicine ci portano da mangiare. Un brodo, una teglia di cannelloni, vassoi di frutta.
Perché pensano che non abbiamo più tempo né per cucinare, né per fare la spesa. Ed è proprio così».
Ma le divergenze interne al movimento indipendentista restano un tabù. Carcerati e fuggiaschi all’estero vengono descritti come due facce della stessa moneta - lo Stato repressore - perché “l’esilio è un’altra prigione”.
Però Junqueras in cella cita Socrate, che accusato ingiustamente rifiutò di lasciare Atene, nonostante i suoi amici lo pregassero di farlo, affrontò il processo e la condanna a morte.
Quello del leader di Esquerra republicana con Puigdemont è un confronto sotterraneo. Si sa che non si parlano da quando il presidente catalano si esiliò a Bruxelles. E la strategia di Junqueras ormai è diversa.
Esquerra ha preso atto che proporre l’indipendenza fu un errore.
«Non c’erano le condizioni», hanno ammesso. Mentre Puigdemont testardo continua nella sfida. E il vero pericolo ora è che così si allontani «una soluzione politica» del conflitto.
Un dialogo con Madrid a favore di quelli che rischiano di passare in carcere i prossimi trent’anni, e del futuro della Catalogna.

Corriere 21.5.18
E il partito celebra al cinema i (suoi) Rambo e Top Gun «È ora di mostrare la forza»
Basta film sul «glorioso passato». Il Pcc: storie e armi moderne
di Guido Santevecchi


PECHINO «Nascondere la nostra forza, aspettare il momento giusto», disse Deng Xiaoping trent’anni fa illustrando la sua strategia all’inizio delle grandi aperture economiche e dell’ascesa della Cina. Il momento è arrivato, anche al cinema. Per decenni i film di guerra prodotti nella Repubblica Popolare si ispiravano immancabilmente alla Lunga marcia maoista, alla resistenza contro i giapponesi, arrivavano alla presa del potere nella lotta fratricida con le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek. Tutte vittorie, ma del passato. Nessun episodio successivo al 1949 era stato sceneggiato per un film.
Il partito comunista aveva preferito lasciare in ombra temi controversi come la guerra di Corea, gli scontri di confine con russi, indiani e vietnamiti. Ma ora che la Cina è una superpotenza, anche militare, bisogna preparare il pubblico al nuovo ruolo internazionale, proiettare un’immagine di forza capace di colpire anche all’estero. E i produttori seguono la nuova linea. Il filone di film di guerra contemporanea (o del futuro) è partito poco più di un anno fa. I titoli sono quelli tipici del genere, ai quali Hollywood ci ha abituato da sempre: «Lupo guerriero», «Cacciatore del cielo», «Operazione Mekong». I protagonisti ricordano Top Gun e Rambo. Le armi impiegate sono le più moderne nell’arsenale dell’Esercito di liberazione popolare. E infatti le produzioni sono sostenute dai comandi militari di Pechino, che forniscono equipaggiamento, compresi aerei da caccia di ultima generazione e consulenza.
Prendiamo come esempio «Cacciatore del cielo»: un’organizzazione terroristica s’insinua in un Paese asiatico senza nome, cattura civili cinesi, mette le mani sui missili e minaccia di colpire Pechino. La Cina non cede al ricatto, parte l’ordine a una squadriglia di caccia e tra i piloti c’è la bella Zhao Yaoli (interpretata da Fan Bingbing: in questi giorni era a Cannes) che vola al contrattacco. «Tenetevi stretti!» grida eccitata Zhao mentre scende in picchiata con il suo caccia J-20 e distrugge il nemico in un mare di fiamme. La sua determinazione avrebbe fatto impallidire anche il Top Gun Tom Cruise. Lo scopo infatti è questo. Mostrare la forza della Cina, ispirare i suoi giovani. E non si tratta di una critica malevola, perché è stato confermato dagli autori in dichiarazioni sulla stampa governativa. «È il momento di usare al cinema le nostre armi entusiasmanti», ha detto al Global Times il colonnello Chen Hao, vicecapo dell’informazione dell’ufficio politico dell’Aeronautica. Poi ha spiegato: «In passato potevamo prestare ai produttori del cinema solo equipaggiamento di base come tank e cannoni per girare, adesso l’ordine è di fornire armi moderne». Ed ecco che i film si arricchiscono con scene che inquadrano i J-10C, J-11, J-11B e J-16 mentre sfrecciano nel cielo, impegnati in duelli con F-15 americani e Mirage francesi pilotati dai terroristi misteriosi.
«Cacciatore del cielo» è finanziato dall’Aeronautica e il colonnello Zhang Li, delegato alla produzione, ha detto che l’obiettivo non è «fare denaro al botteghino, ma usare il film per mostrare alla gente quello di cui i nostri aerei sono capaci per proteggere il Paese. Troppo a lungo non abbiamo usato la pubblicità... è interessante che molti giovani cinesi si siano arruolati dopo aver visto Top Gun, adesso vogliamo ispirare le nuove leve toccando il loro cuore con film nostri».
Un altro esempio è «Operazione Mekong», adattamento di un fatto vero risalente al 2011: due navi da carico cinesi attaccate sul fiume dai pirati, in territorio thailandese, 13 marinai massacrati. Pechino inviò un reparto di commandos a dare la caccia agli assassini, finì con una battaglia nella giungla e quelli che non caddero sul campo furono messi al muro dopo regolare processo. Riadattamento della realtà anche in «Operazione Mar Rosso», che racconta la liberazione di ostaggi di una petroliera cinese al largo dello Yemen da parte della forza d’élite «Dragoni», dotata di armi sofisticate e cuore d’acciaio. Incasso da febbraio 579 milioni di dollari, riporta il Financial Times.milioni di dollari, riporta il Financial Times.

La Stampa 21.5.18
L’Arabia Saudita fa retromarcia, arrestate le attiviste che si battevano per il diritto alla guida
Anche se sono state aperte le prime scuola guida per donne, resta in vigore il principio del “guardiano”, un parente maschile che deve accompagnarle
di Giordano Stabile

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Corriere 21.5.18
Addio a Bernard Lewis Annunciò l’avvento del radicalismo islamico
Morto a 101 anni il primo teorico dello scontro di civiltà
di Massimo Gaggi


NEW YORK Sempre un passo avanti col coraggio di rompere gli schemi di chi si sentiva forte della sua profonda conoscenza dell’Islam. Nel 1976, tre anni prima della rivoluzione degli ayatollah, con lo Scià di Persia Reza Pahlavi che dal trono del Pavone garantiva la stabilità dell’intera regione del Golfo, Bernard Lewis, scomparso ieri in New Jersey all’età di 101 anni, pubblicò un saggio su Commentary che ebbe l’effetto di un fulmine a ciel sereno: annunciò l’imminente espansione del potere dei movimenti musulmani alimentato da un radicalismo deciso a porre la religione islamica al centro della politica. Poi, nel 1990, fu il primo a paventare uno scontro di civiltà tra Occidente e mondo islamico, ben prima che questa prospettiva fosse resa famosa da un celebre saggio di Samuel Huntington.
Nato nel 1916, quando il Medio Oriente era quello di Lawrence d’Arabia, con diplomatici e burocrati inglesi e francesi intenti a disegnare a tavolino i confini di Paesi come l’Iraq e la Siria, Bernard Lewis, un ebreo inglese, si innamorò subito di quella parte del mondo. E, dopo gli studi all’Istituto di studi orientali della University of London, si tuffò nelle società arabe, turche e persiane, condividendone le culture, imparandone le lingue (ne parlava o «masticava» una quindicina). Rimanendo uno studioso appassionato anche quando, dopo la nascita dello Stato d’Israele, per lui la possibilità di viaggiare liberamente in Medio Oriente si ridusse di molto.
Storico ammirato per i giudizi taglienti e sempre documentati, ma anche contestato da molti per alcune scelte discutibili: dal sostegno alla guerra in Iraq per rovesciare Saddam Hussein al rifiuto di considerare la strage degli armeni di 103 anni fa un vero genocidio voluto dall’Impero Ottomano.
Fiero oppositore delle dittature arabe, non considerava però la religione musulmana un ostacolo all’evoluzione politica in senso democratico delle società di quella parte del mondo. Una fiducia nel dialogo e nel rinnovamento delle classi dirigenti mediorientali in parte venuta meno dopo l’attacco terroristico lanciato nel settembre del 2001 da Al Qaeda contro gli Stati Uniti. Bernard Lewis era stato ancora una volta profeta quando, tre anni prima, dopo aver letto una dichiarazione di guerra di Osama bin Laden contro gli Usa su un giornale arabo, aveva scritto un saggio, «Licenza di uccidere», dove individuava in Osama il maggior pericolo per l’Occidente anche perché le sue parole stavano diventando i mattoni dell’ideologia jihadista.
Deluso dall’incapacità di autoriforma del mondo islamico, dopo il 2001 Lewis sostenne che forzare «i cambi di regime può essere pericoloso ma a volte è un rischio che vale la pena di correre». Pur non credendo nella filosofia neocon dell’esportazione della democrazia, divenne così, forse involontariamente, il pilastro intellettuale e ideologico sul quale l’amministrazione Bush costruì, soprattutto per volontà del vicepresidente Dick Cheney, del capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, e di due amici di Lewis, Paul Wolfowitz e Richard Perle, l’invasione dell’Iraq.
Molto criticato per questa sua scelta, Lewis era stato già duramente attaccato in precedenza per il suo impegno a favore di Israele. Celebre lo scontro con lo studioso palestinese-americano Edward Said, che dalla metà degli anni Settanta prese ad accusarlo di aver dato un’immagine distorta del mondo arabo, basata su una mentalità imperialista ed eurocentrica. Ma molti dei trenta libri dello storico inglese sono stati tradotti e discussi anche nel mondo arabo dove molti lo consideravano un critico onesto, anche se condizionato dal suo retroterra culturale.
Negli ultimi anni lo storico inglese che nel 1974 si trasferì negli Stati Uniti, diventandone cittadino, per insegnare a Princeton, aveva diradato i suoi interventi. Ma aveva fatto trapelare il suo pessimismo, soprattutto per quanto riguarda il futuro dell’Europa che vedeva minacciata sul piano politico e culturale dal massiccio assorbimento di immigrati islamici.

La Stampa 21.5.18
L'antica città perduta di Mardaman è stata ritrovata in Kurdistan grazie a una capsula del tempo
di Noemi Penna

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La Stampa TuttoLibri 21.5.18
Da che mondo è mondo o quasi gli ebrei aspettano il Messia
Quando spunta il falso messia Satana seduce la moglie del rabbino
Dopo il feroce pogrom di cosacchi che devastò nel ’600 il mondo yiddish polacco un villaggio vicino a Lublino viene sconvolto da un visionario cabalista
di Elena Loewenthal


Da che mondo è mondo o quasi gli ebrei aspettano il Messia. Lo aspettano con una fede incrollabile e colma di speranza, che ripetono tre volte al giorno nella preghiera: credo fermamente che il Messia verrà. E’ un’attesa millenaria che si è molto spesso scontrata con una realtà che diceva tutto il contrario e teneva i figli d’Israele tenacemente legati al proprio destino, lasciando immaginare che nulla sarebbe mai cambiato. Per l’ebraismo, del resto, il Messia è «soltanto» l’interruttore umano che aprirà le porte di una dimensione spazio-temporale completamente diversa: in ebraico è detta olam haba, «mondo/tempo che viene» contrapposto all’olam hazeh, l’imperfetto terreno esistenziale dove ci troviamo ora.
«Non verrà mai, però dobbiamo aspettarlo», ha detto un maestro del Talmud dallo sguardo scettico in fondo in fondo bonariamente ottimista, visto che gli ebrei hanno del Messia anche un pizzico di paura. Paura dell’ignoto. Di non ritrovarsi nel mondo che verrà. Fors’anche per questo nella storia si sono avvicendati dei messia che in un certo senso è difficile definire «falsi» perché ognuno di loro portava con sé la propria verità. E ognuno di loro ha creato intorno a sé un fermento speciale, ha aperto porte, fatto riflettere. Soprattutto animato e impersonato delle grandi storie.
E chi se non il grande Isaac Bashevis Singer avrebbe potuto mettere in pagina almeno una di queste storie avvincenti che hanno per protagonista un «falso» Messia? Satana a Goraj, che Adelphi ripubblica ora nel contesto del progetto di riedizione completa delle opere del Premio Nobel a cura di Elisabetta Zevi, racconta questa storia, insieme a tante altre.
Pubblicato originariamente in yiddish nel lontano 1935 e una trentina d’anni dopo nella traduzione inglese di Jacob Sloan seguita direttamente dall’autore, questo romanzo racconta la storia fosca e triste di Goraj, una cittadina polacca della provincia di Lublino «nascosta fra le colline in capo al mondo... un tempo celebre per i suoi studiosi e i suoi uomini d’ingegno» che nel 1648 viene devastata dai cosacchi. E’ il pogrom del famigerato «atamano ucraino» Chemelnesky che quell’anno massacrò gli ebrei di tutta la regione, scorticando uomini, vendendoli schiavi, sgozzando bambini, violentando le donne «per poi squarciarne i ventri e cucirvi dentro gatti vivi».
Di quel pogrom terribile mai s’estinse la memoria: divenne una sorta di cruenta pietra di paragone. E come capita quasi sempre nella storia ebraica, a questi eventi terribili fa di solito seguito un’ondata di speranze, nell’imminenza di un cambiamento radicale che solo il Messia potrà portare, proprio perché il suo arrivo, dice la tradizione, deve essere preceduto da doglie di sofferenza e assurdità inaudite.
Singer racconta questa atmosfera, racconta l’epopea di quello che fu forse il più grande falso Messia della storia ebraica - Shabbetai Zevi - dalla prospettiva di questa cittadina più morta che viva. Qui, fra il 1665 e il 1666 (data non casuale, con tutti quei 6 che rimandano all’Apocalisse di Giovanni) i postumi del pogrom con il suo strascico di orfani e pazzi perché impazziti dal dolore, di rabbini cenciosi che vagano per le campagne, fanciulle ammutolite e matrone pettegole, si incrociano con la ventata di follia ed eresia che la predicazione di Shabbetai sta portando in giro per quella parte di mondo.
«E’ una storia di isterismo religioso,» scrive il traduttore inglese nella «Nota al testo», che Singer racconta con una maestria unica, proprio perché questo grande scrittore che sa essere così dolce fu sempre affascinato dall’ambiguità del reale, per non dire dal suo lato oscuro. Le atmosfere a Goraj sono colme di quel turbamento esistenziale che Singer serbò sempre dentro di sé. Tutto è inquietante, tutto è pieno di segnali indecifrabili eppure eloquenti, tutto è macabro: lo è più che mai il matrimonio della giovane Rechele con il rabbino cabbalista Itche Mates, che sta al centro del racconto e che innesca una serie di eventi tanto strabilianti quanto tenebrosi.
A Goraj non c’è nessun personaggio che si salvi: sono tutti intaccati da una specie di maledizione, sono tutti ormai incapaci di scendere a patti con la realtà. Tutta la storia si svolge in uno scenario segnato dalla distruzione, quella appena passata e quella imminente. Eppure ancora una volta Singer riesce a cogliere l’ambiguità che sta nel mondo e nell’uomo, e regalare al suo lettore sprazzi di luce ma soprattutto di ironia, fra una comparsata e l’altra di quel Satana che è il protagonista indiscusso della storia e che tanto per cambiare della storia si fa beffe. E se, come dice quel vecchio adagio ebraico, «l’uomo traffica e Dio se la ride», chi meglio di questo grande scrittore ci ha spiegato che tanto in cielo quanto giù negli inferi nessuno ci prende sul serio.