Corriere 20.5.18
Conta rinviata, fischi e rabbia al vertice Pd
Nervi tesi in assemblea. Martina resta fino a luglio, l’ex premier lascia la sala. La minoranza: fase nuova
di Monica Guerzoni
ROMA
Per un moderato come Maurizio Martina, più tagliato per le mediazioni
che per i duelli sanguinosi, lo scatto dell’hotel Ergife davanti ai
mille dell’assemblea nazionale è il cambio di passo che gli
anti-renziani aspettavano. «Se tocca a me, anche se sono poche
settimane, tocca a me», avverte in un clima da corrida l’aspirante
leader del Pd. Mezza platea scatta in piedi, l’applauso ritma il coro
«se-gre-ta-rio!, se-gre-ta-rio!» e Matteo Renzi, furioso, si alza e se
ne va.
In quella sedia di prima fila lasciata dall’ex premier gli
oppositori interni vedono l’immagine plastica di una leadership al
tramonto. Parlano di «fallo di reazione» di Renzi e si preparano a
sostenere la sfida del reggente, riconfermato in un clima avvelenato con
294 sì, otto astenuti e centinaia di seggiole vuote. All’ora di pranzo i
renziani si defilano minacciando di non votare la relazione di Martina e
se ne vanno anche Marco Minniti con la sua maglietta nera sacerdotale e
il premier Paolo Gentiloni. Anche a loro Renzi aveva telefonato alla
vigilia per convincerli a evitare la conta, così da non dare al Paese
l’immagine di un Pd lacerato mentre gli avversari mettono su il governo.
Ancora
tramortiti dalla sconfitta e dalle conseguenze del no al dialogo con i
Cinque Stelle, i dem sono sull’orlo di un collasso nervoso. Nonostante
la tregua raggiunta all’ultimo minuto con tutte le aree grazie alla
mediazione di Piero Fassino, per scongiurare la rottura su mozioni
contrapposte, in cinque ore di puro caos si sente e si vede di tutto. I
fischi e gli insulti, gli sfoghi a cuore aperto e le tessere lanciate
per protesta, le trattative estenuanti e la rabbia dei delegati, venuti
da ogni parte d’Italia per un regolamento di conti di nuovo rimandato.
La tensione esplode durante l’intervento di Roberto Giachetti: «Una
parte organizzata della platea mi ha continuamente interrotto,
fischiato, insultato», ha raccontato su Facebook l’ex vicepresidente
della Camera, preso di mira dai sostenitori di Andrea Orlando. Il quale —
nella sua relazione — ammonisce i renziani: «Disertare il voto sulla
relazione di Martina sarebbe un errore, più grave della conta».
Alla
fine, tutti cantano vittoria. I renziani esultano, perché nonostante le
dimissioni irrevocabili del loro «capo» sono riusciti a imporre con 397
sì, 221 contrari e 6 astenuti la modifica dell’ordine del giorno, con
cui si rinvia la decisione sul dilemma di un segretario incoronato in
assemblea o scelto con le primarie. Ma quelli che per la maggioranza
dell’ultimo congresso sono «numeri buoni», per le aree di Dario
Franceschini, Andrea Orlando e Michele Emiliano sono cifre che
certificano «la fine dell’era renziana». Se il fronte dell’ex segretario
ha schivato la conta sui nomi è perché i suoi numeri non sono più così
granitici, essendo sceso dal 70% delle primarie al 57% di ieri.
«Si
apre una fase nuova, le minoranze sono diventate maggioranza — azzarda
Francesco Boccia —. Se stiamo uniti possiamo vincere il congresso». Gli
sfidanti? O lo stesso ministro dell’Agricoltura, che ha chiesto
autocritica sugli errori del gruppo dirigente e annunciato una nuova
segreteria plurale (ottenendo la fiducia di Gentiloni), o Nicola
Zingaretti.