Corriere 14.5.18
Il ritorno di Isabelle Adjani: ho sconfitto la depressione
«Ma invidio Day-Lewis che ha avuto il coraggio di ritirarsi»
di Valerio Cappelli
CANNES
Da vicino, Isabelle Adjani è bianca come una maschera del teatro Nō
giapponese. Bianca e indifesa, sensibile, riservata. Ha fatto film in
costume raccontando le sofferenze d’amore, entrando nella mitologia
delle donne segnate da un destino tragico: «Ma non sono una maratoneta
dell’impegno». Qui fa un ruolo «pazzo», tutto diverso dalle sue
principesse e regine. Musa di Truffaut e Polanski, ha vinto a Berlino e a
Cannes, oltre a 5 César e due nomination all’Oscar. Torna in una di
quelle commedie brillanti che fanno impazzire i francesi (non a caso la
produzione si chiama Iconoclast): in Le monde est à toi, Isabelle è a
capo di una gang di borseggiatrici. «Faccio una ladra abilissima e una
madre senza scrupoli, possessiva e invadente col figlio».
Stato d’animo a Cannes?
«Cerco
di onorare la mia presenza, ma è un inferno. Un’orgia di alto livello,
nella scalinata rossa si sale verso il sacrificio o la consacrazione.
Sono alla Quinzaine, non prendo il rischio di rituffarmi nell’arena
della gara, tra attrici che si ritrovano a recitare il ruolo in La città
della paura. Che non ha più limiti. Siamo intrappolati nelle immagini,
nei commenti e nei commenti sui commenti. Non uso i social, non voglio
follower. Non importa chi sei veramente: lo decidono gli altri. Avrei
bisogno di un coach su come comportarmi».
Quale rapporto le piace al cinema?
«Padre-figlia.
Mio padre era autoritario, vivevamo in un piccolo appartamento e non
accettava l’idea che con i miei guadagni dessi una mano a casa. Era
algerino, musulmano. In casa solo uno specchio in bagno, se vi restavo
troppo diceva che l’avrei sporcato. Per una ragazzina sono cose
difficili da sentire. Non accettava che recitassi nuda, disobbedii in
L’estate assassina: per fortuna morì subito prima che uscisse».
È cambiato l’approccio al suo mestiere?
«Oggi
si comincia un business, mi sono tirata fuori da tutto questo. Hanno
fatto tanti grandi film nella mia assenza, non mi manca quello che non
ho. Però mi è tornata voglia di lavorare, andrei da mio figlio in Usa e
lavorare lì dove è nata una nuova sensibilità, c’è apertura per le
attrici europee. Mi piacciono i registi canadesi. Xavier Dolan? Talento
enorme, ma si sente Re Sole».
Il padre di suo figlio maschio è Daniel Day-Lewis.
«Si
è ritirato, lo invidio: dopo aver vinto tre Oscar di cos’altro hai
bisogno? Siamo rimasti in buoni rapporti. Eravamo felici insieme perché
dimenticavamo di essere attori, cosa che sta facendo ora con la sua
scelta. Quando ti dai completamente, questo lavoro è duro».
Ha uno sguardo sereno, ma ha sofferto di depressione.
«Non
ho mai conosciuto una donna che non lo sia stata. Non durò molto. È
difficile parlare se perdi fiducia nella tua vita e sei sola, ti
vergogni»
Il caso Weinstein?
«Oggi c’è più solidarietà,
Weinstein è servito anche a questo. Ho trovato patetica la petizione di
Catherine Deneuve sulla libertà di importunare: siamo il Paese della
seduzione e bla bla bla. A 15 anni subii la prima molestia e rimasi
traumatizzata. In quanto alla serenità... appartiene alla maturità, non
alla giovinezza. Non ho tanto tempo davanti per consacrarmi a ipotesi
d’amore, ma posso incontrare la persona giusta che bussa alla mia porta.
Non vuol dire che ho bisogno di un uomo: cerco gentilezza e
complicità».
Il tempo che passa?
«In Francia si tende a
separare la ragione e l’amore. La ragione impone la dittatura dei corpi,
tu devi dimagrire, tu vuoi dimagrire. È difficile sottrarsi alla
pressione dello sguardo degli altri. Ma è la bellezza a determinare la
libertà per affermarsi in quanto femmina. Ti fa sentire più forte, ti fa
rispettare».