Corriere 11.5.18
«Le mie canzoni sono ancora proibite»
Emel Mathlouthi, voce scomoda della primavera araba: Tunisi non ama gli inni alla libertà di Giuseppina Manin
La
sua voce ha il profumo dei gelsomini, dolce e lancinante come quello
della primavera araba di cui le canzoni di Emel Mathlouthi sono
diventate l’inno per migliaia di giovani tunisini decisi a rivendicare i
diritti base di ogni essere umano: lavoro, libertà, dignità. Primavera
intirizzita, ormai lontana. «Ma non tutto è perduto. Finché quel sogno
che ha fatto intravvedere la luce di una realtà diversa esiste e
resiste, darà i brividi a qualsiasi nuova dittatura» garantisce Emel, le
cui musiche accompagneranno domani a Udine, al Premio Terzani, la
conversazione tra il vincitore Domenico Quirico e la giornalista del
Corriere della Sera Marta Serafini.
«Sono onorata di questo
invito. Amo l’Italia e il vostro cinema, la porta magica per capire un
Paese e la sua gente. Come la musica, che mette in contatto culture
lontane. Non so come vengano percepite qui le mie canzoni che attingono a
sonorità del Maghreb, ma so che arrivano dritte alle orecchie e al
cuore di tutti». Il canto libero di Emel risuona forte e chiaro nelle
strade di Tunisi come ovunque nel mondo.
«Ho cominciato a scrivere
canzoni a 10 anni ma ho capito il loro potere di scuotere dall’apatia
ascoltando Björk e Joan Baez». E di Here’s To You, scritta da Baez per
il film di Montaldo sugli anarchici Sacco e Vanzetti, Emel riscrive una
versione araba in omaggio a Mohamed Bouazizi, l’ambulante che si dette
fuoco per protesta contro le angherie della polizia. Poi è la volta di
Kelmti Horra, canzone simbolo della Rivoluzione dei gelsomini. «Nata in
spiaggia, al festival del cinema di Kelibia. Da tempo avevo in mente
quei versi senza trovare la giusta melodia. La magia è successa quella
notte».
La mia parola è libera, titolo in italiano, si canta per
ogni strada di Tunisi, sottovoce o a squarciagola ma è bandita da radio e
tv. «È la logica della nostra censura. Non proibisce nulla in modo
ufficiale ma taglia le gambe a chi esce dal coro. Oggi le cose vanno un
po’ meglio, ma chi è scomodo continua a essere emarginato e grande è la
corruzione nel ministero della Cultura».
La voce di Emal non
tollera costrizioni, a 25 anni lascia il suo Paese, va dove la porta il
sogno: in Egitto, in Iraq, in Iran. Canta al Nobel per la Pace a Oslo ma
anche all’Opera di Teheran. «Una sfida, una piccola breccia nella legge
che proibisce alle donne di cantare davanti a un pubblico misto. E mai
da sole, sempre con cantanti uomini per coprire la loro voce».
Così
come il velo continua a coprire le loro teste. Ora più di prima.
«Viviamo tempi di crisi, identitaria, economica. Le persone si ripiegano
su se stesse, si rifugiano in dogmi rassicuranti come il rifiuto
dell’altro, della diversità. Quando ci si sente insicuri, quando i
governi non riescono a dar risposte reali, si cerca di ritrovare una
certa spiritualità dentro antiche credenze». Adesso vive a New York,
nell’America del «muslim ban» di Trump. «Però c’è anche il movimento
#MeToo, vero terremoto delle donne contro la violenza maschile. Non so
come sarà il futuro, quel che so è che, in qualsiasi parte del mondo,
staremo molto meglio se sapremo vivere insieme nella tolleranza e nella
ricchezza della diversità. Velo o non velo».