Corriere 10.5.18
Il reportage i confini della Ue
Le Irlande furiose
Lungo la frontiera tra Eire ed Ulster dove le incertezze della Brexit riaprono ferite dopo 20 anni di pace
di Sergio Romano
Il
confine che ancora separa la Repubblica d’Irlanda dalla provincia
britannica dell’Ulster è introvabile. Un cartello, sull’autostrada, dà
il benvenuto ai viaggiatori che salgono verso Belfast, ma da molti anni,
ormai, sono scomparsi gli uffici di polizia e i veicoli militari che
presidiavano il passaggio dalle terre prevalentemente cattoliche della
Repubblica a quelle prevalentemente protestanti della regione britannica
.
Le differenze, naturalmente, sopravvivono. Nel centro di
Newry, la prima città a nord del confine, ho contato quattro cuspidi di
severi edifici religiosi che appartengono alla Chiesa d’Irlanda,
provincia autonoma, secondo la terminologia inglese, della Comunità
anglicana. Nella valle del Boyne, dove si combatté nel 1690 una famosa
battaglia tra un re protestante (Guglielmo d’Orange) e un re cattolico
(Giacomo Stuart), una casa museo celebra con un evidente compiacimento
la vittoria del primo.
Negli ultimi vent’anni, tuttavia, gli
accordi del Venerdì Santo, firmati il 10 aprile 1998 dal Primo ministro
britannico (Tony Blair) e da quello della Repubblica d’Irlanda (Bertie
Ahern), hanno fatto miracoli. Hanno costretto due nemici (i cattolici
del Sinn Fein e i protestanti del’Ulster Unionist Party) a governare
l’Ulster insieme. Hanno garantito a ogni cittadino il diritto di
chiedere la nazionalità della Repubblica d’Irlanda e di conservare
contemporaneamente, se lo desidera, quella del Regno Unito. Esiste
perfino una clausola che prospetta la possibilità di un referendum se
una importante percentuale di cittadini dell’Ulster chiedesse
l’unificazione delle due Irlande.
Un altro segnale positivo è
l’evoluzione del Sinn Fein. Il partito che ebbe per molto tempo un’anima
militare e cospirativa (l’Ira, Irish Republican Army) ha oggi una
leder, Mary Lou McDonald, che sembra interessata soprattutto ai problemi
del progresso civile e della solidarietà sociale. Ma gli odi e i
rancori del passato riemergono puntualmente ogniqualvolta le fazioni più
radicali dei due campi ricominciano a pescare nel torbido. Questi
bisticci hanno inceppato il governo condominiale dei due maggiori
protagonisti in almeno cinque occasioni. Quando è accaduto nel 2002, la
Gran Bretagna dovette intervenire e assumere nuovamente le
responsabilità che aveva ceduto all’Ulster con gli accordi del 1998. Più
recentemente, nel 2017, le parti hanno cominciato a litigare, tra
l’altro, sull’insegnamento nella regione protestanti del gaelico (una
delle due lingue ufficiali della Repubblica d’Irlanda), e sulla gestione
degli archivi storici, in cui ciascuna delle parti, suppongo, vorrebbe
leggere la propria verità.
Questi screzi diventerebbero ancora più
gravi se il confine scomparso riapparisse, dopo Brexit, come frontiera
doganale. Un trattato commerciale per lo scambio di merci fra il Regno
Unito e la Ue appartiene al novero delle cose realizzabili. Ma non è
difficile immaginare che cosa accadrebbe se la Gran Bretagna, uscita
ormai dalla Unione Europea, commerciasse con i suoi vecchi partner
attraverso la frontiera inesistente delle due Irlande. I prodotti
britannici non pagherebbero dazi e, soprattutto, non sarebbero soggetti
alle regole commerciali, qualitative e sanitarie, con cui l’Ue tutela il
proprio mercato.
Federico Fabbrini, un professore italiano che
insegna diritto europeo alla Dublin City University e dirige l’Istituto
Brexit, mi ricorda che la soluzione era a portata di mano quando la Gran
Bretagna sembrò accettare l’ipotesi di una frontiera doganale lungo i
confini esterni dell’Ulster. La provincia inglese dell’isola irlandese
sarebbe diventata la porta di ingresso e d’uscita per tutte le merci
provenienti dal Regno Unito o dalla Unione l’Europea. Ma in questo modo
l’Ulster avrebbe fatto parte dell’area economica europea: una soluzione
che, secondo i deputati del Partito unionista alla Camera dei Comuni
(sono otto e da essi dipende la sopravvivenza del governo di Theresa
May) avrebbe separato l’Ulster dalla Gran Bretagna e ne avrebbe fatto
una provincia satellite della Ue.
Per Fabbrini e altri osservatori
la soluzione più limpida e trasparente sarebbe l’ingresso della Gran
Bretagna nello Spazio economico europeo, una organizzazione creata per
ospitare nel mercato unico i Paesi che avevano fatto parte dell’Efta
(l’area europea di libero scambio creata dalla Gran Bretagna dopo la
fondazione della Comunità economica europea) come, per esempio, la
Norvegia. È una soluzione ragionevole, ma gli inglesi osservano che il
loro Paese, pur godendo dei vantaggi di un grande mercato, non avrebbe
voce in capitolo nella approvazione e supervisione delle norme che ne
regolano il funzionamento. È vero: per concorrere al governo della Ue,
secondo Bruxelles, occorre farne parte e accettarne le regole. Una tale
prospettiva sarebbe particolarmente sgradita per un Paese che, quando
era membro aveva chiesto e ottenuto parecchi trattamenti di favore, non
soltanto nel caso della politica agricola comune. Se la Gran Bretagna,
dopo avere respinto la prospettiva dello Spazio economico europeo,
dovesse piegarsi e accettarla, qualcuno potrebbe osservare che vi sono
casi in cui, anche nei rapporti fra gli Stati, si applica la legge del
taglione.