Il Sole 10.5.18
Tra contratti in essere e mancate esportazioni i rischi per le imprese italiane
Lo strappo Usa sull’Iran costa 30 miliardi all’Italia
di Laura Cavestri
Trump: sanzioni severe - In Europa corsa all’esenzione
Potrebbe
 costare fino a 30 miliardi di euro, tra contratti in essere e mancato 
export, la decisione Usa di uscire dall’accordo sul nucleare con l’Iran e
 reintrodurre l’embargo.
Per l’Italia 30 miliardi di investimenti ed export a rischio
È il valore dei protocolli d’intesa già siglati
MILANO E adesso? Con gli ordini in corso, le commesse avviate, i pagamenti anticipati già ricevuti e i prestiti garantiti?
Il
 pugno in pieno viso – assestato dagli Usa alle Pmi e alle 
multinazionali europee – è di quelli che fan male. Peggio, però, 
potrebbe essere il contraccolpo. Perché, tra protocolli d’investimento 
sottoscritti dalle grandi imprese italiane – per un potenziale di 
investimenti, nei prossimi anni, di 27 miliardi – e 2 miliardi di export
 attesi (l’interscambio complessivo è di 5 miliardi perché noi abbiamo 
acquistato, l’anno scorso, molto di più, ovvero 3 miliardi di greggio), 
una chiusura del doppio binario economico tra Italia e Iran rischia di 
“congelare” 30 miliardi di euro di business.
Ma in ballo c’è molto
 di più. Gli Usa hanno dato 90-180 giorni di tempo per porre termine ai 
vecchi contratti in Iran e proibire la stipula di nuovi se si vogliono 
evitare sanzioni da parte americana. Si chiama “principio di 
extraterritorialità” delle leggi americane in base al quale gli Usa 
possono sanzionare le imprese non Usa che fanno affari con Paesi sotto 
embargo se hanno rapporti con gli Stati Uniti o se usano dollari per le 
transazioni. In pratica, davanti a un’Europa riottosa a seguirla, 
l’amministrazione Usa potrebbe decidere di punire, nell’export verso gli
 Stati Uniti, le aziende europee. Che, quindi, si troverebbero a dover 
fare una scelta di campo, tra lavorare con Teheran (che, per l’Italia, 
vale meno di 2 miliardi) o con Washington(che ne vale 40). Al momento, 
la preoccupazione principale è questa.
«Per un Paese ad alta 
vocazione di export – ha detto ieri il presidente di Confindustria, 
Vincenzo Boccia – e con gli accordi che abbiamo fatto in Iran, questa 
situazione può farci male». Per Emma Marcegaglia, presidente di Eni ma 
anche di Business Europe (la Confindustria europea), «al momento non è 
facile quantificare l’impatto economico possibile per le imprese 
europee. Abbiamo bisogno di chiarezza legale».
«Con l’Iran abbiamo
 rapporti da più di 10 anni – sottolinea Alessio Tonelli, sales manager 
della Pietro Fiorentini (300 milioni di fatturato 2017 e circa 2mila 
addetti) a Teheran dove, in questi giorni, si svolge proprio la fiera 
Iran Oil Show 2018 nella quale espongono anche 12 aziende italiane –. 
Forniamo valvole e componenti per impianti e non siamo mai usciti dal 
mercato. Sulle forniture per progetti più ampi siamo rientrati, invece, 
l’anno scorso». Che succede ora? «Per 3 mesi – spiega – niente. Nel 
frattempo contiamo che si tratterà per evitare conseguenze sul business.
 Noi abbiamo ordini presi a gennaio da evadere in 8-10 mesi. Per ora la 
produzione va avanti, con pagamenti anticipati a copertura dei costi. 
Per fortuna, abbiamo un sito produttivo negli Usa, che dovrebbe metterci
 al riparo da eventuali iniziative statunitensi verso le imprese Ue 
esportatrici».
«Non abbiamo mai investito seriamente sull’Iran, 
proprio per l’incertezza politica che aleggiava sul Paese – spiega 
Daniele Archetti, sales manager oil & gas della bresciana 
Turboden (80 milioni di fatturato e 250 dipendenti circa) che fa 
turbogeneratori–. Ci sarebbe un buon potenziale di crescita. Ma abbiamo 
un 10% di fatturato sul mercato Usa. Soprattutto, la quota di 
maggioranza dell’azienda è in mano a Mitsubishi. Uno stop potrebbe 
arrivare da considerazioni della “casa madre”».
«Dal 2015 la 
componentistica oil&gas italiana in Iran è cresciuta del 33% – 
ha detto Alberto Caprari, presidente di Anima (l’associazione della 
meccanica varia) – . Non possiamo subire una scelta forzata, tra 
esportare negli Stati Uniti o in Iran».
Secondo le previsioni di 
Sace, al netto delle sanzioni, nel 2018, la crescita attesa del nostro 
Made in Italy in Iran dovrebbe sfiorare i 2 miliardi di export (+9% 
sull’anno scorso). In testa la meccanica (dalla componentistica ai 
macchinari) che doveva raggiungere il miliardo di vendite. Dietro la 
chimica e gli apparecchi elettrici.
Il colpo più duro, però, è 
quello alle grandi imprese. Sinora, il rischio politico aveva impedito a
 Sace di garantire coperture su operazioni oltre i 24 mesi. Cioè i 
grandi progetti di ampio respiro. A gennaio, con un accordo con due 
banche iraniane, era intervenuto il ministero dell’Economia, tramite 
Invitalia Global Investment, ad assicurare linee di credito per 5 
miliardi. Si attendeva solo il decreto attuativo. Non arriverà.
A 
ottobre Ansaldo Energia ha firmato un memorandum d’intesa in Iran per la
 fase 12 del mega giacimento South Pars, che ha riserve stimate in 14 
miliardi di metri cubi di gas. Nello stesso periodo, Maire Tecnimont ha 
sottoscritto un accordo di consulenza ingegneristica con il complesso 
petrolchimico Ibn-e Sina di Hamedan in Iran. Ma aveva già firmato un 
memorandum d’intesa da un miliardo con la compagnia petrolchimica Pgpic.
 Fs ha già concluso l’accordo da 1,2 miliardi di dollari per la linea 
ferroviaria Arak-Qom. Ma in ballo c’è anche l’alta velocità 
Teheran-Qom-Isfahan.
Per non parlare di IranAir, che aveva 
ordinato 200 aerei commerciali per 38 miliardi di dollari, di cui 100 
commissionati ad Airbus e 20 a Atr, di proprietà, oltre che di Airbus, 
anche di Leonardo. Operazioni che rischiano di saltare per la forte 
quota di componenti statunitensi.
 
