Repubblica Robinson 8.4.18
Paolo Aite
Neuropsichiatra e psicoterapeuta junghiano fondatore del Laboratorio Analitico delle Immagini
È stato presidente della Associazione Italiana per lo studio della Psicologia Analitica (Aipa)
La
passione per Jung. L’incontro con Bernhard, l’analista di Fellini. E il
Gioco della sabbia: “Si può disfare un castello, non distruggerne la
materia”. Vale anche per l’uomo?
di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli
La
prima cosa che chiedo a Paolo Aite è se ha mai visto La donna di
sabbia, un film giapponese degli anni Sessanta dove un entomologo, nel
bel mezzo di un deserto, vive una strana e a tratti violenta storia con
una donna. Aite non ricorda il film e neppure il romanzo da cui è stato
ricavato. Penso alla sabbia perché tutto il mondo analitico di Aite
ruota attorno a questa materia. Nello studio dove riceve mi fa vedere
diversi tipi di sabbia (nera, rosa, gialla, grigia o bianca). È alto e
signorile quest’uomo, ormai anziano, che compie un gesto elegante con la
mano sulla superficie di un manto sabbioso racchiuso in un contenitore.
Lo guardo affascinato, come se da quell’atto dipenda l’esito della
nostra conversazione: «Non conosco il film ma posso intuire perché, a
distanza di anni, quel deserto di sabbia susciti in lei ancora
un’attrazione», dice con calma.
Intuire cosa esattamente?
«Il
Gioco della sabbia è un’esperienza che può lasciare interdetti. Ma se
si accantonano i pregiudizi, le resistenze, quella durezza che di solito
la razionalità produce, si possono fare scoperte interessanti. Insomma,
mai dare per morta la capacità dell’emozione psichica di svelare
aspetti di noi che neppure sospettiamo di avere».
L’emozione può anche coprirli o deviarli, non trova?
«
Più facile che accada nella psiche di un adulto che in quella di un
bambino. Ma il gioco è appunto rivelare la connessione tra un pensiero e
un’emozione, che di solito prende la forma di un’immagine ».
È il gioco del bambino in riva al mare trasportato nel mondo intimo dell’adulto?
«C’è una continuità di senso, anche se il gioco del bambino è più diretto e immediato».
Cosa si scopre attraverso il gioco?
«
Una forza vitale inibita o disorientata prende nuovamente corpo e
senso. Come se, grazie alla sabbia, si ridisegnasse un paesaggio
psichico che stentavamo a individuare. Qualcosa, insomma, che affiora
attraverso il gesto più che con la parola».
Un gioco implica una sorta di piacere.
« Direi che in questa dimensione occorre tener conto dell’acuta sofferenza che il gioco è in grado di comunicare».
C’è qualcosa di fortemente creativo in questo approccio. Verrebbe da pensare più a Jung che a Freud.
«Effettivamente le mie origini sono junghiane. L’incontro più importante lo ebbi con Ernst Bernhard».
Un personaggio entrato nel mito. Quando lo conobbe?
«Nel
1961, provenivo da studi di medicina. Un po’ alle prime armi lavoravo
nella clinica delle malattie nervose e mentali dell’università di Roma.
Un collega che stimavo mi parlò di lui. Riuscii a prendere un
appuntamento al suo studio romano in via Gregoriana. All’inizio non fu
un incontro semplice».
Che cosa non funzionò?
«La prima cosa
che mi chiese fu la mia data di nascita e poi cominciò a spiegare il
mio quadro astrale. Lo sconcerto aumentò quando volle leggermi la mano.
Pensai: è la stessa persona che ha letto e applicato Jung in modo
originalissimo? A quel punto, prima che mi congedassi, mi fece
raccontare il mio ultimo sogno. Mi colpì l’attenzione con cui si
soffermava su alcune immagini del sogno. Improvvisamente sentii che la
scena onirica si stava arricchendo di dettagli emotivi che fino a quel
momento avevo ignorato. Decisi di intraprendere l’analisi con lui».
Per quanto tempo?
«All’incirca
tre anni. Poi da paziente divenni allievo. Appresi che con lui erano
stati in analisi personaggi come Bobi Bazlen e Cristina Campo, Giorgio
Manganelli e Giacomo Debenedetti, Adriano Olivetti e Federico Fellini.
Fu stupefacente sapere che figure fondamentali per la cultura non solo
italiana trovassero in Bernhard un punto di riferimento».
Cos’era secondo lei che poteva attrarle?
«
Come analista è stato un sabotatore di luoghi comuni. Chiunque fosse
conscio del valore della creatività e dell’autenticità vedeva in
Bernhard l’uomo capace di scoprirlo».
Autenticità in che senso?
«Nel senso di chi assume sé stesso per quello che è».
Senza sovrastrutture né impedimenti o finzioni?
«È
molto difficile, me ne rendo conto. Ma l’autentico cui penso è la
profondità dell’esistenza psichica contro ciò che è solo superficie; ciò
che è cresciuto e si è sviluppato con la persona contro ciò che la
persona accetta per conformismo e abitudine».
Bernhard fu il primo a introdurla al “Gioco della sabbia”?
«No,
non lui che ne ignorava l’esistenza. Anche se la sua lezione ne
richiamava il principio. Da lui ho imparato che dietro ogni immagine
mentale che appare c’è un grande mistero. Che rapporto c’è tra quel
mistero e il visibile? Anche la sabbia, dopo tutto, rende visibile
qualcosa di sconosciuto e dunque di misterioso».
Quando dice “mistero” allude a qualcosa di religioso?
«Sappiamo
quanto per Jung fosse importante la risorsa religiosa. Ma se si
adottasse totalmente questa prospettiva si finirebbe nell’annosa
questione se c’è o non c’è un Dio. Il mistero cui penso è il legame
straordinario, e per certi versi inspiegabile, tra la mano e lo sguardo.
Prima della parola l’uomo si è espresso attraverso il gesto. Sono
convinto che il gioco tra la mano e lo sguardo ci riporti a un nostro
tempo remoto che abbiamo cancellato o rimosso».
Come è arrivato al “Gioco della sabbia”?
«Indirettamente
attraverso Bernhard. Morì nel 1965. Nel 1968 ci fu un convegno
internazionale su di lui a Zurigo. La moglie di Bernhard mi suggerì di
andare a trovare una signora piuttosto affascinante che abitava nei
pressi di Zurigo nella casa dove aveva vissuto Goethe: Dora Kalff, una
junghiana con discrete aperture verso l’Oriente e in particolare il
buddismo. Fu lei a mostrarmi il Gioco della sabbia. Lo utilizzava per
pazienti molto giovani e successivamente, anche su mio suggerimento, lo
estese a soggetti adulti. Restai affascinato da quell’esperienza
cogliendone la straordinaria potenzialità ».
Esattamente a cosa assistette?
«Alla
creazione di una scena riconducibile a un teatro psichico in miniatura,
dove l’elemento verbale è sostituito dal gesto della mano che dà vita a
un’immagine o si serve di oggetti per “arredare” lo spazio sabbioso».
Quando dice oggetti si riferisce a quelli che vedo dietro di lei negli scaffali, così simili a dei “giocattoli”?
«Si
tratta di sassi, legni, licheni, conchiglie ma anche case, alberi,
animali o persone, in miniatura. Personaggi e situazioni immaginari. È
un mondo che viene costruito, la cui scena una volta allestita per me ha
l’evidenza di un sogno».
La sabbia è come l’inconscio in azione?
«È un modo di sognare attraverso le mani».
Perché proprio la sabbia?
«Perché
il suo segreto è nell’indistruttibilità. Si può disfare un castello,
non si può distruggere la materia che lo compone. Inoltre simbolizza il
rapporto tra mare e terra. Infine, stabilisce una linea o meglio un
percorso dal bambino all’adulto. In una sua poesia straordinaria Tagore
parla del fanciullo che gioca in riva al mare, sulla spiaggia di mondi
sconfinati. Lì è prefigurata l’importante presenza della materia, ossia
della sabbia. Anche Jung nel Libro rosso parla dell’importanza che la
materia ha nell’immaginazione attiva».
A proposito di
immaginazione attiva so che lei dipinge e che ha in preparazione una
mostra dei suoi lavori. C’è una relazione con il Gioco della sabbia?
«
Entrambi stimolano lo spirito dionisiaco e quindi la creatività.
Entrambi aprono la porta oltre la quale ci sono i nostri vissuti più
profondi».
È un’accezione molto particolare almeno per quanto concerne l’arte.
«Dipingere per me non è riprodurre il visibile ma portare alla luce quanto mi accade».
La pittura come specchio di uno stato d’animo?
«Come uno stato di sospensione del normale fluire della vita».
Cioè?
«Se
guardo oggi i dipinti che ho realizzato nel tempo mi accorgo che ogni
immagine mi è nota solo in apparenza. Come se la circostanza che le ha
prodotte richieda un confronto con un senso rimasto a lungo nascosto».
Si può chiamare enigma questo senso nascosto?
«
Penso di sì perché è il silenzio dell’immagine a costituire l’enigma.
In fondo, l’atto del dipingere dà vita a un’esperienza non molto
dissimile dal sogno. Entrambi esprimono un modo di venire alla luce che
allude ad “altro”».
Un altro noi o un altro da noi?
«Noi
tutti siamo potenzialmente tante forme di esistenza. Solo alcune, nel
corso della vita, si sviluppano mostrandosi adeguate alle esigenze che
il momento richiede».
All’età in cui lei è giunto sente più la pienezza delle forme realizzate o la loro mancanza?
«Avvicinandomi
al commiato, ho 87 anni, credo sia più forte il bisogno di esplorare
ciò che si è stati piuttosto che quello che avremmo voluto essere. Ed è
un commiato non solo carico di nostalgia ma anche di curiosità per
quanto si è vissuto. È ciò che intendo per pienezza ».
Tra la
professione di analista e l’arte ha scelto la prima. E solo ora sente di
dare un riconoscimento alla seconda. Crede di aver sacrificato
qualcosa?
«No, perché l’una è stata il riflesso dell’altra. Ho
iniziato a dipingere da ragazzo in un momento di grande difficoltà
psicologica legato allo scarso rendimento scolastico. A Cortina
d’Ampezzo, dove sono nato, non c’era il liceo. Studiai da privatista ma
qualcosa rese insopportabile lo studio. Fu allora che vidi nella pittura
una via per esprimere e contenere il disagio».
C’è riuscito?
«
Penso vi abbia contribuito mio padre che quando riemergeva dalle
ricorrenti depressioni sembrava rinascere grazie al contatto con l’arte.
Amava il bello. Mi ha trasmesso questa passione che è poi un porre
l’immagine alla stessa altezza della parola».
Suo padre cosa faceva?
«Era medico. Molto amato e stimato dalla gente».
Davvero immagine e parola sono alla medesima altezza?
«
Sono due modalità del nostro sentire. Quando parlo di immagine non
penso, o non penso solamente, alla cosa vista. Ma alla disponibilità a
vedere. E lo stesso accade con la parola che non è un semplice dire, ma
una disponibilità all’ascolto. Dopotutto, è ciò che deve fare un buon
analista: saper vedere e saper ascoltare».
A 87 anni cosa si aspetta ancora?
«
C’è una preparazione alla fine. Il modo migliore per farlo è inquadrare
la morte come un momento indispensabile della vita. La sua presenza può
dar valore alle cose che si sono vissute e che si stanno vivendo.
Altrimenti è il panico, il risentimento o, in una nobiltà filosofica più
sofisticata, l’angoscia».
È sottile la linea che separa angoscia e serenità?
«
Non solo sottile, ma incerta. La vecchiaia è un training all’abbandono.
Non sei più l’uomo di prima, non sarai quello di adesso. Nel mezzo di
queste due tensioni bisogna provare a tener viva l’idea di sé. La
creatività è molto importante nel momento finale della vita. Altrimenti
si resta in contatto solo con ciò che si è perduto. La memoria
innanzitutto».
Abbandono è una parola importante.
« Può
essere un trauma o un lasciarsi andare più o meno dolcemente. In fondo,
anche il Gioco della sabbia è un modo di abbandonarsi alle immagini che
non sappiamo di avere. Bernhard nel periodo in cui collaborò con la casa
editrice Astrolabio esordì pubblicando L’interpretazione dei sogni e
subito dopo Abbandono alla provvidenza divina del religioso Jean- Pierre
de Caussade. Fu grande lo sconcerto di coloro che in maniera banale
videro nel libro un manuale religioso per suore novizie. In realtà,
quello scritto sottolineava con forza proprio il significato
dell’abbandonarsi, come un percorso autentico di cui la stessa
psicoanalisi avrebbe potuto giovarsi. Anche in quella scelta,
apparentemente inspiegabile o criticabile, Bernhard si rivelò un
maestro».
In che misura lo è stato per lei?
« Assoluta,
anche nello sconcerto che a volte sapeva provocare. Non era un pedagogo.
Non si poneva il problema di insegnare. Quello che ho capito è che si è
maestri non per semplice coerenza nella propria vita, ma per coerenza
nella ricerca della propria vita e quindi della propria autenticità.
Anche negli ultimi giorni Bernhard seppe dar prova di questa coerenza.
Una sera mi descrisse come aveva vissuto l’infarto appena superato. Mi
colpì il modo attento, quasi religioso, di raccontare quanto accaduto.
Era serenamente sé stesso, su quel confine ormai prossimo tra la vita e
la morte. Una duna sabbiosa che rimodella ogni volta la sua forma.
Questo stava diventando » .