domenica 29 aprile 2018

Repubblica Robinson 29.4.18
L’intervista impossibile
Sigmund e Karl uniti nel sogno
di Stefano Massini


Fermo sulla porta, ancora col cappello in testa, Karl Marx fissa negli occhi Sigmund Freud. Aspetta un cenno, un assenso, un permesso di entrare oltre la soglia più che ambita del famosissimo studio sulla Berggasse. Il dottor Freud esita. Non perché abbia qualcosa contro l’autore de Il capitale, ma perché un’antica abitudine gli impone di osservare attentamente ogni estraneo prima di ammetterlo nel suo tempio. In questo caso chi si trova davanti?
Un uomo dagli abiti logori, perfino lisi, con un paio di plateali rammendi sulle maniche: sarebbe questo il celebre pensatore della Prima Internazionale, la mente temuta dai governi al punto tale da costringerla più volte a espatriare? La lunga attesa fra i due viene interrotta dallo stesso Marx, che con un guizzo risolutorio toglie il cappello e guadagna l’ingresso chiudendosi la porta dietro le spalle: non è da lui implorare udienza, e si sbaglia davvero questo Freud — medico dei pazzi — se crede di poterlo trattare come un ebreo qualsiasi reverente col rabbino.
FREUD — Di solito sono io a dire a chi entra di accomodarsi. Il rispetto della liturgia fa parte del rito. È la differenza fra un paziente e un intruso.
MARX — Non sono né l’uno né l’altro. Sono qui per pura curiosità. Mi hanno parlato di un medico viennese che scava nei meandri delle teste dei borghesi, il Freud che affonda le mani fra rimorsi, fobie, sensi di colpa, incubi. La questione mi interessa molto, visto che la borghesia ha la coscienza più che sporca.
FREUD — Lei sa che il sogno è un indagatore di noi stessi? C’è una componente di assoluto egoismo in questo: nei nostri racconti notturni ci serviamo degli altri come metafore per parlare di noi. Glielo chiedo perché lei si presenta qui da me ed emette un verdetto molto duro sulla borghesia, come se la guardasse dall’esterno. Ma resta il fatto che anche lei è un borghese. Dunque se la borghesia ha la coscienza sporca, significa che lei per primo ce l’ha. E magari è qui proprio per questo.
MARX — D’accordo: ribaltiamo la prospettiva, se le piace. Anche lei è un borghese, e cura le psicosi dei borghesi come lei. Il chirurgo apre il torace e toglie l’infezione, ma può farlo per la semplice ragione che non è a sua volta portatore d’infezione: mentre opera, il chirurgo è sano mentre il paziente è il malato. Lei è sano, dottor Freud, quando oltrepassa il cranio ed entra nella mente altrui?
FREUD — La domanda non è questa, la domanda è per quale ragione io e lei facciamo quel che facciamo. Siamo due figure molto simili: io cerco di curare una comunità psicotica, lei una comunità sfruttata. Si può dire che siamo due medici. Ma perché? Solo per altruismo? O anche per tornaconto? Io con le mie visite mantengo moglie e figli, così come fa lei con i suoi scritti. Temo che in questo si annidi il suo senso di colpa: non accetta l’idea di doversi servire del sistema che condanna.
MARX — Sono un filosofo, dottor Freud, non un industriale.
FREUD — Questo si chiama alibi, e ognuno di noi ne tiene sempre a portata di mano una manciata. Il fatto è che siamo perfettamente consapevoli che è solo un paravento. Il conflitto nasce qui, per tutti: sentire che le nostre giustificazioni non ci bastano, e che la grande commedia quotidiana ci obbliga a un certo ruolo, piaccia o meno. Il suo ruolo, herr Marx, qual è? Lei sostiene di essere solo un pensatore, ma usa inchiostro che acquista in un emporio, scrive su un giornale che la gente compra, paga un affitto, firma contratti per pubblicare un libro. In altri termini: noi siamo i nostri compromessi. E anche lei si sporca col lurido vile denaro.
MARX — E sia. Lo confesso: detesto il denaro. Di più: la dipendenza dal denaro. È lui la fonte di ogni falsità, di ogni assurdo, di ogni scompenso. Rende potente chi altrimenti sarebbe un idiota, e viceversa: nelle società moderne l’accesso alla conoscenza implica sempre un benessere sociale di partenza. Io ho potuto studiare perché mio padre non era un pezzente, altrimenti adesso sciacquerei i piatti in qualche bettola di Treviri. Le sembra giusto questo?
FREUD — La famiglia da cui discendiamo ci condiziona sempre, non solo per il denaro. È la prima comunità che incontriamo nella vita, mi spiego? E ogni comunità implica sempre aspettative, ruoli, equilibri. Sa che c’è? Mi fa sorridere la sua smania di rivoluzione: tutti da ragazzini abbiamo voluto incendiare il tempio della famiglia, negarne le autorità, riformarne il potere. In nome di cosa? Della libertà di esistere. La verità è che noi non siamo mai liberi, per il semplice fatto che per essere liberi dovremmo essere unici: siamo sempre illuminati da luci esterne, determinanti. La terra cosa sarebbe senza il sole? Una palla arida. Sono gli altri a decidere chi siamo, e le sorti della terra le decide il sole.
MARX — Con la differenza che il sole porta vita, mentre il sistema in cui viviamo ci uccide. Ma lei non si guarda attorno per strada? Non siamo più uomini, mi spiego? Siamo strumenti di produzione, solo questo. Nessuno lavora più per sé stesso, ma per qualcuno che poi incassa. La natura degli esseri viventi vuole che tu sia tutt’uno con il tuo lavoro, che ti appartenga. Come puoi dedicare giorni interi a qualcosa che è solo interesse di un altro, un altro che magari nemmeno vedi? Viviamo nel buio, dottore, viviamo in una grande macchina dove niente è chiaro. E poi lei si meraviglia che ci sia una fila di isterici fuori dalla sua porta? È l’altra faccia della schiavitù.
FREUD — Non lo nego: la gran parte delle nevrosi nasce dal non sentirsi all’altezza del grande torneo sociale. Tremiamo per le incertezze economiche, per l’ombra del tracollo finanziario, e se l’uomo primitivo temeva solo la malattia e la fame, noi rabbrividiamo all’idea di dover dare in pegno l’argenteria di casa. Siamo finiti in una realtà complessa, caro Marx, su questo le do ragione. Ma pretendere di riformularla è un’utopia senza pari, può solo creare altre frustrazioni.
MARX — Certo, me lo ripetono da trent’anni. Sarei un visionario. Il fatto è che il sistema protegge sé stesso, non può non farlo: il capitalismo pur di preservarsi ha elaborato una narrazione spietata, senza deroghe, per cui nessun modello sarebbe possibile se non quello basato sullo sfruttamento delle masse. Non mi sorprende: le classi dominanti creano sempre un pensiero dominante. Ma anche lei, dottor Freud, è pronto a marchiare il mio progetto come utopia? Proprio lei che ha interpretato i sogni dicendo che sono sempre materia vera, di cui fidarsi, talmente inammissibile da essere censurata? Mi chiedo se non sia proprio questo il punto cruciale: la censura toglie spazio ai sogni spacciando che sono sciocchezze, e allo stesso identico modo il potere umilia chi vuol cambiare bollandolo di utopia. Non abbiamo più niente da dirci: al mio sogno sono il primo a crederci. L’ho imparato da lei.