Repubblica 9.6.18
Il conflitto in Siria
L’errore americano
di Lucio Caracciolo
Ogni
giorno che passa in Siria, la vittoria di Bashar al- Assad diventa più
concreta. E palese appare la sconfitta dei ribelli sostenuti dall’Arabia
Saudita, insieme agli Stati Uniti e alle principali potenze atlantiche.
L’ennesima strage di civili a Duma, nella Ghuta orientale, che secondo
fonti ribelli e occidentali sarebbe da attribuire all’impiego di gas
letali da parte del regime, sancisce la resa dei miliziani filosauditi
di Jaish al- Islam e rafforza Damasco nella convinzione di poter
completare il controllo sulle regioni strategiche del paese, grazie al
supporto della strana alleanza Teheran-Mosca-Ankara. Ovvero tra due
potenze — Iran e Russia — che Washington bolla nemiche e una — la
Turchia — che appartiene alla sua ( e nostra) alleanza, la Nato. Ma non
per questo si accoda agli Stati Uniti. Anzi.
Questo paradossale
triangolo è frutto dell’incredibile sequenza di errori, esitazioni e
virate tattiche compiute dagli Stati Uniti in Medio Oriente dopo la fine
della guerra fredda. In particolare, con la liquidazione di Saddam che
ha consegnato l’Iraq all’influenza iraniana, favorendo così un asse
Beirut (Libano)-Herat (Afghanistan occidentale) via Damasco e Bagdad,
centrato su Teheran. Il rapsodico appoggio occidentale ai vari gruppi
ribelli — in parte neo — o veteroqaidisti, in altra parte solo
velleitari, comunque formidabili nell’annullarsi reciprocamente — ha
convinto i nemici ma soprattutto gli amici di Washington che degli Stati
Uniti non c’è da fidarsi. Non fosse che per l’incoerenza fra promesse e
inazioni, retorica militarista e disimpegno militare. Ne sanno qualcosa
i curdi siriani, chissà perché convinti che gli americani potessero
scendere in guerra contro i turchi, formalmente loro alleati, per
lasciar nascere un Kurdistan siriano a ridosso delle aree anatoliche in
cui operano i confratelli del Pkk, nemici giurati di Ankara.
Le
oscillazioni della politica americana in Siria e nella regione si
debbono ai dissidi fra le fazioni che nell’establishment americano
decidono — più spesso non decidono — la geopolitica a stelle e strisce.
Vi contribuiscono poi l’erraticità dei presidenti, volti visibili e
rappresentativi dell’America nel mondo. Dalle velleità rivoluzionarie di
Bush figlio, che nella versione neocon evocava il “ Nuovo Medio
Oriente” liberale, democratico, quindi filo-americano; al mezzo
disimpegno di Obama, frenato dai militari e passato alla storia per il
bluff della “linea rossa” che avrebbe indotto la superpotenza a
liquidare al-Assad nel caso mettesse mano al gas nervino; fino al
tragicomico festival dei tweet trumpiani.
Nel giro di pochi
giorni, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha prima fatto sapere che
avrebbe riportato a casa al più presto le sue scarse truppe ( 2 mila
uomini circa) dato che ormai lo Stato Islamico era defunto, poi ha
lasciato filtrare che a malincuore ci aveva ripensato perché avrebbe
consegnato la Siria al pur improbabile asse Iran- Russia- Turchia.
Infine — ma attendiamoci ulteriori puntate — ieri si è scagliato contro
“l’animale” al-Assad assicurando che pagherà un “ forte prezzo” per il
massacro di Douma. Vedremo. Certo che un nuovo bombardamento punitivo
contro installazioni del regime non potrebbe alterare gli equilibri sul
terreno.
La guerra non è finita. Si apre una nuova fase, in cui i
provvisori vincitori dovranno spartirsi il bottino, demarcare le linee
di influenza, valutare la tenuta della loro intesa. Non è scontato che
accada. La storia informa che fra Turchia, Russia e Iran, potenze
imperiali, le dispute hanno di norma prevalso sulle intese. Allo stesso
tempo, non si vede come gli Stati Uniti possano decidere di rientrare a
pieno regime in Medio Oriente, dopo averne declassato il valore
geostrategico ed economico. A meno che le ambizioni della Cina, sempre
più attiva e influente nella regione, non inducano una revisione
strategica a Washington. Quanto a noi europei, coltiviamo una certezza:
altre masse di siriani disperati busseranno via Turchia alla nostra
porta. Deciderà il sultano se riaprire o meno la rotta balcanica,
peraltro mai ermeticamente chiusa. E se no, in cambio di cosa.