Repubblica 9.6.18
Madri costituenti
Filosofa mistica,
attivista partigiana, il 26 novembre del 1942 muore – o si lasca morire –
il 24 agosto nel Sanatorium di Ashford, nel Kent quando non aveva
ancora compiuto 34 anni
Se Simone Weil avesse fatto l’Europa
Alla Scuola Normale di Pisa si tiene il convegno “Simone Weil. Filosofia e nuove istituzioni per l’Europa”
di Roberto Esposito
Mai
come in questi mesi, in cui perfino l’esistenza dell’unità europea
appare in discussione, un’analisi limpida sulle radici della sua crisi
appare ineludibile.
Tanto più se iniziata in anni ben più tragici,
come quelli in cui su mezza Europa sventolava ancora la croce uncinata
nazista. Mi riferisco alla riflessione, intensa e febbrile, sulla
ricostruzione materiale e spirituale dell’Europa condotta da Simone Weil
nei primi mesi del 1943, quando comincia a delinearsi la sconfitta di
Hitler. Già esule a Marsiglia per sfuggire alla persecuzione nazista,
Simone, dopo una breve permanenza a New York, implora i capi della
Resistenza francese di accoglierla in Inghilterra con parole che
sembrano provenire da un altro mondo: «La supplico – scrive a Maurice
Schumann, portavoce di De Gaulle – di procurarmi la quantità di
sofferenze e di pericolo necessari a impedirmi di consumarmi sterilmente
nella tristezza».
L’unica scelta, personale e politica, che le
sembra degna è la partecipazione in prima persona alla battaglia in
corso in Europa – anche al prezzo della morte. Così, già stremata nel
corpo e nell’anima, il 26 novembre del 1942 sbarca a Liverpool.
Ricoverata nell’aprile successivo in ospedale, muore – o si lasca morire – il 24 agosto nel Sanatorium di Ashford, nel Kent.
Eppure
le bastano quei pochi mesi – impiegata come redattrice dei servizi di
France Combattante – per produrre una serie impressionante di proposte,
progetti, scritti di straordinaria energia intellettuale, orientati a
pensare il futuro dell’Europa, una volta liberata dall’artiglio nazista.
Essi
sono adesso raccolti nell’importante volume di Castelvecchi Una
costituzione per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di Domenico
Canciani e Maria Antonietta Vito. Già l’idea, mai realizzata, di
paracadutare sulla linea del fronte un gruppo di infermiere per
soccorrere i feriti dà il senso della radicalità del suo punto di vista:
solo un estremo coraggio volto al bene può battere quello, volto al
male, delle truppe tedesche. Ma ciò che conta è la necessità di dar vita
a nuove istituzioni capaci di fronteggiare la crisi di civiltà che ha
portato l’Europa sull’orlo dell’autodistruzione. Perché la malattia
mortale che ha investito il continente europeo – fermata sulle rive
della Manica solo dalla resistenza eroica dell’Inghilterra – è nata
nelle sue stesse viscere. Ma se ciò è vero, non basterà la vittoria
militare e la spartizione del mondo che ne seguirà a rimettere sui
cardini una storia irreversibilmente interrotta dal diffondersi della
peste bruna. Né la brutale dittatura sovietica né la potenza tecnica
americana riusciranno a ricostruire l’Europa in macerie in assenza di un
ripensamento globale su quanto è accaduto.
Proprio la Francia
sconfitta e umiliata – la Weil scrive prima dello sbarco degli Alleati
in Normandia – è il luogo da cui l’Occidente può trovare la spinta per
ripartire. Solo chi ha conosciuto il dolore dei vinti può progettare il
futuro con un atteggiamento non fondato sul prestigio della forza. È un
insegnamento – richiamato nelle intense pagine che Giancarlo Gaeta le
dedica in Leggere Simone Weil, appena edito da Quodlibet – da non
lasciare cadere neanche oggi. La sconfitta, con tutte le tragedie che
comporta, ha in sé una potenza costituente che a volte manca alla
vittoria. Perciò è dalla sconfitta, prima che diventi vittoria, che
bisogna ripensare le istituzioni a venire. A partire da una nuova fonte
di legittimità, che non può che essere una rinnovata idea di giustizia.
Se si rileggono le Riflessioni sulla rivolta, le Idee essenziali per una
nuova Costituzione, ma soprattutto la Dichiarazione degli obblighi
verso l’essere umano, tutti contenuti nel volume citato, si coglie
l’entità della svolta reclamata dalla Weil. E anche la sua estraneità ai
paradigmi circolanti negli ambienti intellettuali del tempo.
Senza
fermarsi sulla Nota sulla soppressione generale dei partiti politici –
che sembra anticipare qualcosa che si va realizzando solo oggi con
conseguenze tutt’altro che rassicuranti – ciò che colpisce è il
contrasto con le idee del fronte progressista del tempo. Negli stessi
anni in cui Jacques Maritain scrive il suo manifesto sui diritti
dell’uomo e la legge naturale, Simone Weil sposta l’accento sugli
obblighi. La sua tesi è che se si parte dalla rivendicazione di diritti –
come ha poi fatto la cultura di sinistra postbellica – si resta dentro
il lessico della contrattazione, effettuale solo se ha dietro di sé una
forza capace di imporla. Se invece si rovescia l’ottica, partendo dai
doveri verso ogni essere umano, si entra in un orizzonte diverso,
governato non da altro che dalla Giustizia. Allora soltanto, secondo
Simone, potrà nascere una nuova civiltà morale in cui si darà il primato
ai bisogni dell’essere umano. Bisogni del corpo – nutrimento, calore,
sonno, igiene, aria pura. E bisogni dell’anima – verità, libertà,
intimità, ma anche radicamento in un ambiente necessario alla vita. Gli
uomini hanno bisogno di progettare il proprio futuro, ma non possono
fabbricare, secondo l’interesse del momento, il passato. È quanto ha
tentato di fare il nazismo, sostituendo il passato reale con un altro
inventato ad arte, funzionale alla soppressione e alla schiavizzazione.
Il riferimento al passato è necessario a costruire il futuro perché la
sua perdita produce l’inaridimento dello spirito e l’avanzata del
deserto.
Siamo sicuro che questo rischio sia solo alle nostre spalle?